Giovedì, 20 Dicembre 2012

Storia, conservazione e restauro dei materiali d'archivio. 1. La carta

Emanuele Atzori, Chiara Senfett
Sezione Studi

Si pubblica il testo di un articolo apparso su: Notiziario CNEC. Mensile del Centro Nazionale Economi di Comunità, n. 8, novembre 2012, pp. 20-25).

Introduzione

Con questo articolo si da l’avvio a una serie di interventi destinati a descrivere le principali tipologie di materiale che si possono incontrare negli archivi degli Istituti religiosi. Ogni intervento si articolerà in tre sezioni principali: la storia e la manifattura del supporto in esame, il deterioramento e la modalità di conservazione e, infine, gli aspetti legati al restauro del supporto.

Gli argomenti verranno affrontati con un linguaggio chiaro e semplice, tralasciando, laddove non necessari al discorso, gli aspetti più strettamente chimici, biologici e fisici. Tuttavia, per chi volesse approfondire tali questioni, verrà riportata in nota un’ampia bibliografia di carattere scientifico.

Inoltre, ogni eventuale dubbio, questione o curiosità potrà essere presentato agli autori dell’articolo facendo riferimento al seguente indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Storia e manifattura della carta

Il metodo antico di produzione (fino al XIX sec.)

Secondo la tradizione, il primato dell’invenzione della carta sembrerebbe spettare ai cinesi. Si narra, infatti, che nel II secolo d.C. un ministro della pubblica istruzione cinese osservando le donne intente a lavare i panni nel fiume, si accorse di come le fibre che si staccavano dai vestiti si accumulassero in sospensione lungo l’ansa del fiume. Da lì l’idea di utilizzare quelle stesse fibre per fabbricare un supporto su cui scrivere [1].

I cinesi riuscirono per secoli a mantenere segreto il processo di fabbricazione della carta. Solo a partire dall’VIII secolo iniziò a diffondersi in Asia centrale, in particolare nell’area attorno a Samarcanda. Da qui passò poi agli Arabi – i quali introdussero alcune innovazioni – e, infine, in Europa dove, a partire dal XII secolo, i metodi innovativi utilizzati a Fabriano la renderanno una delle principali produttrici di carta del medioevo.

Anticamente il foglio di carta[2] era prodotto mediante la lavorazione di stracci di cotone, lino o canapa che, raccolti, venivano dapprima suddivisi per colore e qualità e quindi tagliati per essere più facilmente lavorabili.

Gli stracci venivano poi sottoposti al processo di lisciviazione, per mezzo del quale le stoffe erano sgrassate con acqua calda e cenere[3].

A seguire il materiale era lasciato dapprima fermentare e poi sfibrato, di modo che le singole fibre vegetali fossero separate[4]; il prodotto ricavato aveva il nome di “pesto”.

Dal XII secolo la cartiera di Fabriano introdusse la caratteristica pila a “magli”[5] azionati a mano che riducevano i tempi di lavorazione e da cui si otteneva un impasto di cellulosa quasi pura; a questa potevano essere addizionate colle vegetali o animali[6] per rendere il foglio impermeabile e in grado di ricevere l'inchiostro.

Fino al XIX secolo, la produzione del foglio era eseguita manualmente mediante un telaio, detto “forma”, costituito da una cornice lignea su cui era montata una struttura di fili metallici perpendicolari tra loro (i fili orizzontali chiamati filoni, quelli verticali vergelle). La “forma” veniva immersa nel tino che raccoglieva il “pesto” e sollevato in modo da far scolare l’acqua in eccesso, la cellulosa rimasta sul telaio andava a formare il foglio di carta.

Per permetterne l’asciugatura il foglio veniva deposto su uno strato di feltro, quindi coperto con un altro strato, su cui veniva poi posto un altro foglio. In questo modo si veniva formando una sorta di colonna formata alternativamente da uno strato di feltro e uno di carta.

Secondo l’altezza del telaio, era possibile variare lo spessore del foglio e, quindi, il suo effetto di trasparenza. Proprio questo effetto ispirò i cartai di Fabriano i quali iniziarono a imprimere il proprio marchio direttamente sul foglio, ottenendo così la “filigrana”, osservabile appunto in trasparenza. La filigrana, chiamata anche segno grafico o marchio di fabbrica, altro non è che un disegno formato da un filo di ottone incastrato tra i filoni e le vergelle della “forma” e che andava ad imprimersi sulla carta al momento stesso della formazione del foglio[7]. Dapprima marchio esclusivo di Fabriano, la filigrana venne poi adottata da altre cartiere europee che utilizzavano ognuna un proprio simbolo caratteristico di riconoscimento[8].

Il metodo moderno (dal XIX sec.)

L’avvento della Rivoluzione industriale modificò radicalmente la fabbricazione della carta; essa divenne infatti il prodotto dell’operazione meccanica di raffinazione avviata intorno ai primi del Settecento da una macchina diffusa in Europa chiamata «pila olandese» o «pila a cilindro».

Il supporto cartaceo moderno è oggi caratterizzato da tre tipi di impasto per la formazione del foglio:

  1. la “pasta meccanica” (o “pasta legno”);
  2. la “pasta chimica”;
  3. la “pasta semi-chimica” (o “chemi-meccanica”).

La “pasta meccanica”, è ottenuta dalla sfibratura meccanica del legno scortecciato, risultanto quindi un prodotto poco costoso e ad alta resa di materiale cartaceo. Presenta tuttavia il difetto di contenere le sostanze incrostanti del legno da cui deriva tra le quali vi sono: le emicellulose[9], la lignina[10], le resine[11] e le gomme naturali[12]. Per questa ragione la “pasta meccanica” è usata soprattutto per le carte di bassa qualità come quella dei giornali (a cui si deve comunque aggiungere un 20-40% di “pasta chimica”).

La “pasta chimica”, di qualità migliore, è ricavata mediante l’impiego di particolari reattivi che riescono a solubilizzare le sostanze incrostanti e quindi a raffinare l’impasto che è alla base della preparazione di cartoncini, carte gialle per imballaggio e carte per la scrittura e la stampa.

Infine, esistono carte prodotte da pasta “semi-chimica” fabbricata tramite l’impiego di reattivi chimici con cui è trattato il legno per poterlo più facilmente sfibrare. Questo procedimento da cui sono prodotti giornali, carte da lettera e da stampa, dà luogo ad un impasto che prende nome e caratteristiche specifiche in base alla prevalenza di una delle due fasi di composizione: la chimica o la meccanica[13].

Un tempo l’impasto, indipendentemente dalla tipologia, poteva inoltre essere colorato mediante l’uso di pigmenti come il blu di Prussia, l’oltremare, l’ocra gialla, ecc; con colori di origine vegetale o derivanti dal catrame o da sali metallici[14].

Terminata la fase di preparazione dell’impasto cartaceo, il prodotto ottenuto viene sottoposto alla collatura che ha come fine quello di rendere la carta meno assorbente e quindi di proteggerla sia dall’umidità che da un’eccessiva penetrazione dell’inchiostro. Le sostanze utilizzate per questa operazione sono la gelatina animale[15] e la resina delle conifere.

Conclusasi la preparazione della pasta, si procede alla formazione meccanica del foglio, realizzata per la prima volta nel 1798 con l’invenzione francese della macchina continua in piano seguita, poco più tardi, da quella inglese della macchina continua a cilindro.

Conservazione della carta

Come ogni altro materiale anche la carta va incontro a fenomeni di deterioramento. Con questo termine si intende l’alterazione dello stato originario della materia nel tempo, fenomeno che può essere conseguenza di fattori  intrinseci o estrinseci.

Tra i fattori intrinseci[16] troviamo i metodi di fabbricazione del foglio: il tipo di impasto e la sua natura chimica, mentre, per quanto riguarda quelli estrinseci, giocano un ruolo fondamentale, il tipo di conservazione, l’ambiente, l’esposizione alla luce e agli inquinanti.

Nella carta possono essere osservati spesso problemi di ingiallimento dovuti al fenomeno di ossidazione, una reazione chimica che causa l’imbrunimento della carta[17] oltre a produrre reazioni acide nel supporto determinando una riduzione della resistenza e della consistenza della carta.

Tali conseguenze possono essere innescate anche da materiali utilizzati nella manifattura della carta, come l’allume di rocca[18] o la lignina[19], che combinandosi con l’acqua contenuta in ambienti umidi espone maggiormente i documenti al loro deterioramento.

Molti fenomeni di degrado chimico sono spesso accompagnati da quelli di tipo fisico. Essi sono influenzati in modo particolare dai valori di umidità presenti nell’ambiente. Infatti in caso di eccessivo aumento o diminuzione della quantità di acqua, i supporti cartacei tendono ad assorbire o rilasciare l’umidità a causa della loro natura igroscopica.

Altri problemi di deterioramento sono infine dovuti a motivi più banali come l’incuria, la fruizione o la conservazione inadeguata, i cui principali effetti sono: strappi, macchie di varia natura, residui di diverse sostanze, ecc.

Anche gli inchiostri sono soggetti a fenomeni di deterioramento propri che, in casi estremi, possono anche portare a profonde alterazioni del supporto cartaceo. Nel caso degli inchiostri metallogallici[20], usati soprattutto nei manoscritti antichi fino al XVIII secolo, si possono notare facilmente le conseguenze del loro utilizzo che porta alla riduzione della bagnabilità della carta e alla perdita delle proprietà meccaniche del supporto ma anche alla formazione dei caratteristici aloni intorno alla scrittura o alla perforazione del supporto.

La temperatura è un altro valore importantissimo per una conservazione adeguata; l’aumento di calore determina infatti una diminuzione del contenuto di acqua presente nell’aria, mentre il suo abbassamento ne favorisce una crescita tale da poter favorire episodi di condensa[21]. Bisogna inoltre considerare che con il calore i processi di deterioramento chimico e biologico aumentano[22].

Gli aspetti microclimatici sono motivo di deterioramento chimico ma anche biologico, infatti, la crescita dei microrganismi è fortemente influenzata dai valori di temperatura e umidità presenti nell’ambiente.

Gli ambienti umidi, favorevoli alla germinazione delle spore, uniti alla carta, materiale igroscopico, costituiscono un terreno fertile per le infezioni; esistono infatti almeno duecento specie di microrganismi in grado di causare alterazioni cromatiche e strutturali.

I danni che questi possono apportare ai documenti sono di diversa entità ma a livello macroscopico i più rilevanti sono costituiti da macchie e da un aspetto feltroso del supporto che tende a essere più fragile e a sbriciolarsi[23].

Nella categoria dei biodeteriogeni sono presenti anche insetti che, trovandosi in luoghi carenti di cibo di cui solitamente si nutrono, finiscono per attaccare la carta ed altri materiali organici presenti nell’archivio o nella biblioteca. La loro presenza nei luoghi di conservazione può essere legata principalmente all’arrivo di documentazione dall’esterno o alle uova disperse nella polvere[24].

Le blatte o gli scarafaggi sono tra gli insetti più diffusi, fuggono la luce e sono onnivori, producono danni dovuti a rosicchiamento e possono veicolare malattie batteriche.

Un altro insetto la cui presenza è attestata di frequente è il Lepisma saccarina, comunemente detto “pesciolino d’argento”, fugge la luce e si alimenta di sostanze vegetali o di origine vegetale causando abrasioni superficiali sui supporti.

Un’altra causa dell’alterazione dei materiali è l’inquinamento[25], i cui componenti (particellato atmosferico[26], gas inquinanti[27], ecc.), combinandosi con l’ossigeno e con l’acqua presenti negli ambienti di conservazione, formano sostanze acide, le quali favoriscono reazioni di degrado della carta e lo sbiadimento degli inchiostri.

È opportuno sottolineare come la prevenzione delle cause di deterioramento sia un fattore fondamentale per la conservazione dei documenti e di tutte le opere d’arte.

Prevenzione significa attuazione, per quanto possibile, delle regole di controllo ambientale ma anche utilizzo di strumentazioni che analizzano giorno per giorno i parametri microclimatici dell’ambiente in cui si trova il materiale archivistico, le caratteristiche della struttura in cui esso è contenuto, l’impianto di condizionamento, l’impianto antincendio, gli scaffali, ecc.

Nella prevenzione rientrano poi la sensibilizzazione degli utenti di archivi e biblioteche ad una corretta manipolazione dei documenti che dovrebbero essere toccati con guanti di cotone per evitare di lasciare il grasso cutaneo e i batteri presenti sulle mani.

I materiali, in particolar modo la carta, tendono ad adattarsi al microclima del luogo in cui si trovano. Tale comportamento determina una forte sensibilità all’alternanza di fasi umide e fasi asciutte che porta a contrazioni e dilatazioni del materiale, causando perdite strutturali di elasticità. Diviene quindi prioritario monitorare costantemente i parametri ambientali[28] che secondo la norma italiana UNI 10586[29], per quanto riguarda il materiale archivistico e librario sono:

  • temperatura compresa tra i 14 e i 20 °C;
  • umidità relativa tra il 50 e il 60%[30];
  • l’illuminamento deve essere minore di 75 lux[31] come media diurna, e comunque minore di 150 lux durante i periodi di accesso ai locali di deposito[32];
  • buona ventilazione.

L’intervento di Restauro 

L’intervento di restauro è da considerarsi l’extrema ratio, l’ultimo tentativo di recuperare il documento; questo perché anche se eseguito con la massima cura e professionalità, il restauro rappresenta un momento critico per il documento, momento che non è esente da perdite di frammenti o, più in generale, di materiali che lo costituiscono (spago o filo di cucitura, frammenti di cuoio o pergamena, ecc.). Tali materiali possono infatti essere molto importanti per lo studio del documento, determinando luogo o data di manifattura, metodologie e tecniche utilizzate nel periodo storico di produzione del documento.

Uno degli obiettivi fondamentali del restauro, oltre al ripristino della funzionalità del bene e della sua integrità estetica e storica, è che l’intervento sia reversibile. Il restauro infatti, non solo deve essere riconoscibile, valore importantissimo che lo distingue dalla riproduzione dell’originale, tipica del falso storico, ma deve poter permettere sempre la sua eventuale rimozione. Questo sia per dare la possibilità in futuro con l’evoluzione degli studi sulle tecniche e sui materiali di restauro di migliorare il tipo di intervento, sia per avere l’opportunità, in caso di restauro errato di eliminarlo.

Per tale motivo tutti i materiali impiegati durante queste delicatissime fasi devono essere reversibili. Tra questi troviamo adesivi a base di cellulosa come la metilcellulosa, solubile in acqua, o l’idrossipropilcellulosa, disciolta in alcol; in generale, gli adesivi impiegati nel restauro devono possedere i seguenti requisiti:

  • essere efficaci, ovvero garantire il loro potere adesivo nel tempo senza però danneggiare il supporto su cui sono applicati;
  • essere resistenti ai fattori di deterioramento (temperatura, umidità, ecc…);
  • non devono essere attaccabili dai micro e dai macrorganismi;
  • essere reversibili[33].

Tali sostanze sono impiegate per ancorare agli originali le carte o i veli giapponesi utilizzati per la reintegrazione delle lacune, la sutura di strappi o il consolidamento di supporti fortemente indeboliti. Le due tipologie di materiale sopra citate hanno la caratteristica di possedere delle fibre vegetali molto lunghe, in modo da facilitare il loro ancoraggio al supporto scrittorio, oltre ad essere particolarmente flessibili e resistenti. Le carte e i veli utilizzati nel restauro sono chiamati giapponesi proprio perché imitano l’antica produzione cartaria tradizionale giapponese.

All’interno dell’intervento di restauro troviamo anche dei trattamenti chimici; il più comunemente usato è quello di deacidificazione che mira a neutralizzare le sostanze acide presenti nella carta e a tamponare l’eventuale formazione di acidi nel supporto. Esistono differenti tipi di deacidificazione distinguibili in due gruppi: per mezzo acquoso e non acquoso; il restauratore può decidere il tipo di trattamento da attuare in base alla tipologia di supporto, se rilegato o in carte sciolte; se scritto con inchiostro solubile in acqua oppure in alcol, ecc.

È sempre difficile per chi non è un tecnico potersi fidare e affidare materiale così pregiato a professionisti estranei; capire se un preventivo ha un valore eccessivo oppure corrisponde effettivamente all’intervento richiesto. È possibile però richiedere nei preventivi una descrizione sintetica dei materiali che saranno utilizzati, come anche le operazioni previste durante l’intervento. È importante chiedere il perché il restauratore opti per delle scelte di intervento preferendole ad altre. Probabilmente tutto questo non ci darà la certezza, in una fase iniziale, nella scelta del professionista, ma rimane pur sempre un consiglio valido che può aiutarci comunque a valutare meglio la persona che si occuperà di un lavoro così delicato.


[1] Tale tradizione sarebbe inoltre confermata dal fatto che il più antico frammento di carta – oggi conservato presso il British Museum di Londra – risalga appunto al 150 d.C.

[2] Sulla composizione chimica della carta un’ottima introduzione è fornita da: M. Copedè, La carta e il suo degrado, Nardini, Firenze 1995, p. 8.

[3] Successivamente venne introdotto un procedimento che prevedeva l’utilizzo della calce o della soda in sostituzione della cenere, cfr. E. Pedemonte, La carta. Storia, produzione, degrado, restauro, Venezia 2008, pp. 20 – 21.

[4] Cfr. E. Pedemonte, La carta. Storia, produzione, degrado, restauro, cit., pp. 20 - 21.

[5] La pila idraulica a magli multipli era costituita da un tronco di quercia scavato dentro il quale erano ricavate tre vasche che contenevano stracci; una ruota idraulica a palette, un albero a camme collegato alla ruota e tre magli per ciascuna vasca. Ogni maglio, formato da legno di quercia, aveva la funzione di pestare gli stracci e, in base alla fase di produzione del materiale, possedeva caratteristiche differenti. La pila “a disgrossare” era munita di grossi chiodi appuntiti per sfilacciare la stoffa; quella “per raffinare” era dotata di chiodi a testa piatta; mentre nella pila “ad affiorare” aveva una superficie piatta che serviva per omogeneizzare il pesto ottenuto. Cfr. E. Pedemonte, La carta. Storia, produzione, degrado, restauro, cit., pp. 47-48.

[6] Formate rispettivamente da amido di farina o gelatina, quest’ultima ricavata facendo bollire in acqua ossa e pelli animali, cfr. G. Banik, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, Il Prato, Padova 2003, p. 14.

[7] Le prime filigrane erano costituite da disegni elementari, solo più tardi nel tempo furono introdotti elementi vegetali o del modo animale. La filigrana costituisce un importante riferimento geografico per la localizzazione del luogo di produzione della carta ma anche per conoscere la committenza o il rivenditore del libro, cfr. C. Prosperi, Il restauro dei documenti di archivio: dizionarietto dei termini, Roma 1999, p. 58.

[8] Cfr. E. Pedemonte, La carta. Storia, produzione, degrado, restauro, cit., pp. 32-33.

[9] Le emicellulose sono il principale componente delle cosiddette fibre alimentari, utili all’organismo umano, cfr. G. Banik, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, cit., pp.16-17.

[10] La lignina è, dopo la cellulosa, il costituente principale del legno conferendo a quest’ultimo la sua naturale rigidità, cfr. G. Banik, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, cit., pp. 16-20.

[11] «Le resine sono sostanze prodotte in forma di secrezione da alcuni tipi di piante (in particolare conifere e altre piante tropicali) che essudano quando la corteccia viene incisa», cfr. M. Matteini - A. Moles, La chimica nel restauro. I materiali dell’arte pittorica, Nardini, Firenze 1998, p. 139.

[12] Le gomme naturali si formano nelle piante in seguito ad un processo denominato «gommosi» consistente nella formazione di sostanze gelatinose per degenerazione delle cellule del legno, della corteccia o di altre pareti della pianta, cfr. Dimos, Corso sulla Manutenzione di Dipinti Murali - Mosaici - Stucchi. Parte I, Modulo 1: Tecniche di esecuzione e materiali costitutivi, p. 159.

[13] G. Banik, Nuove metodologie nel restauro del materiale cartaceo, cit., pp. 14-15.

[14] I. Ghersi, Ricettario industriale, Milano 1910, p. 112.

[15] G. Ceruti, La carta. Storia, fabbricazione, prodotti speciali, Vallardi, Milano 1922, p. 64.

[16] H. El Saied - A. H. Basta - M. Abdou, Permanence of paper 1:problems and permanency of alum-rosin sized paper sheets from wood, p. 155.

[17] Causato dalla formazione nelle molecole complesse di nuovi legami con l’ossigeno, cfr. M. Copedè, La carta e il suo degrado, cit., p. 60.

[18] Utilizzato per la collatura.

[19] In questo momento è in atto un progetto di ricerca promosso dal Canadian general Standards Board e svolto dal Canadian Conservation Institute e dal Pulp and Paper Research Institute of Canada che ha tra gli scopi quello di stabilire «certezze scientifiche sul ruolo della lignina nella permanenza della carta». Alcuni ricercatori sono infatti dubbiosi riguardo alla tesi che questo elemento influenzi realmente il degrado della catena cellulosica e quindi la permanenza dei supporti cartacei. Dagli studi fatti sul comportamento all’invecchiamento accelerato (80 °C e 65% umidità relativa per 5, 20 e 50 giorni) di carta fabbricata industrialmente o in laboratorio, è stato confermato che l’acidità è il primo fattore che ne determina il deterioramento. Altri risultati confermano l’ipotesi che la lignina non «avrebbe un impatto negativo sulle proprietà chimiche e fisiche della carta quando questa è sottoposta ad invecchiamento accelerato, mentre ne influenza sicuramente le qualità ottiche». In presenza di inquinamento è stato però attestato che il materiale cartaceo con maggiore percentuale di lignina tende ad assorbire una quantità più elevata di inquinanti atmosferici. La conseguenza di questo comportamento è una diminuzione del grado di polimerizzazione della cellulosa e delle proprietà meccaniche, cfr. G. Calabrò - F. Savagnone - M.T. Tanasi, «Materiali permanenti per documenti su carta» in Scelte e strategie per la conservazione della memoria, Catanzaro 2005, pp. 159-166.

[20] Così denominati perché i componenti principali sono l’acido gallico e il solfato ferroso.

[21] Questa temperatura è detta «punto di rugiada» in cui il valore di umidità relativa corrisponde al 100%, cfr. L. Masetti, La fotografia. 1. Tecniche di conservazione e problemi di restauro, Analisi, Bologna 1987, p. 56.

[22] C. James, Manuale per la conservazione e il restauro dei disegni e stampe antichi, Firenze 1991, p. 133.

[23] E. Ruschioni, «Il deterioramento biologico» in Memoria e futuro dei documenti in carta. Preservare per conservare, Udine 2002, pp.189-193.

[24] Ibidem, p. 191.

[25] «Si definisce inquinamento qualsiasi cambiamento non desiderato delle proprietà chimico-fisiche e biologiche dell'aria [...]», cfr. G. Caneva, La biologia nel restauro, Nardini, Firenze 1997, p. 35.

[26] Idrocarburi, silicati, spore, pollini, ecc., cfr. G. Caneva, La biologia nel restauro, cit., p. 35.

[27] Andidride carbonica, anidride solforosa, acido cloridrico, ecc., cfr. G. Caneva, La biologia nel restauro, cit., p. 35.

[28] C. James, Manuale per la conservazione e il restauro, cit., p. 133.

[29] UNI 10586/1997: Condizioni climatiche per ambienti di conservazione di documenti grafici e caratteristiche degli alloggiamenti; liberamente consultabile sul sito dell’UNI, Ente Nazionale Italiano di Unificazione (http://www.uni.com). Questo Ente produce delle norme ossia dei «documenti che definiscono le caratteristiche (dimensionali, prestazionali, ambientali, di qualità, di sicurezza, di organizzazione ecc.) di un prodotto, processo o servizio, secondo lo stato dell’arte e sono il risultato del lavoro di decine di migliaia di esperti in Italia e nel mondo» (cfr. http://www.uni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=361&Itemid=936&lang=it). Cfr. inoltre M.T. Tanasi, «Strumenti normativi per la conservazione dei supporti scrittori antichi e moderni» in Terza scuola di chimica per i beni culturali: il materiale scrittorio, papiri, pergamene, carta. Atti di Lucca, 24-28 gennaio 2000, pp. 151-156.

[30] Valori dettati dalla norma UNI 10586/1997, cfr. E. Ruschioni, «Il deterioramento biologico», cit., p.192.

[31] Il lux è l’unità di misura dell’illuminamento stabilita dal Sistema internazionale di unità di misura. Purtroppo non esiste una formula di equivalenza con il watt, in quanto una luce a 100 watt avrà un differente valore lux a seconda della distanza dal supporto. Per questo bisogna dunque affidarsi a personale che possieda gli strumenti per calcolare l’illuminamento dei locali.

[32] Cfr. Norma UNI 10586/1997.

[33] M. Zappalà Plossi, «Indagine su adesivi per il restauro di documenti cartacei» in Bollettino dell’Istituto Centrale per la Patologia del libro ”Alfonso Gallo”, 1976-1977, pp. 35-51.

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