Lunedì, 15 Settembre 2014

La didattica in lingua latina secondo la riforma dell’istruzione nello stato pontificio (1816-1870)

Lorenzo Fiori
Sezione Studi

ABSTRACT

Nel contesto storico-politico della Restaurazione, la riforma dell’istruzione, avviata da Pio VII nel 1816 e compiutamente formulata nella bolla Quod divina sapientia di Leone XII (28 agosto 1824), intende riconfessionalizzare capillarmente il sistema didattico-educativo dello Stato pontificio e istituisce la Congregazione degli studi quale organo preposto alla sua gestione complessiva. Una ricerca nell’archivio della congregazione, stimolata dal nuovo inventario di M. I. Venzo, Congregazione degli Studi. La riforma dell'istruzione nello Stato Pontificio (1816-1870), ha rilevato come la significativa presenza del latino, imposto dalla Quod Divina Sapientia quale lingua ufficiale nella didattica e negli esami di molte facoltà, costituisse un serio problema per docenti e studenti.

In the historical and political context of the Restauration, the education reform, set by pope Pius VII in 1816 and fully formulated in the papal bull Quod Divina Sapientia, issued by pope Leo XII on 28 August 1824, wants to purify the ideology of the public instruction in the Papal States and establishes the Congregation of studies as the institution for its whole management. A research inside the congregation archive, prompted by the finding aid recently published by M. I. Venzo entitled Congregation of studies. The education reform in the Papal States (1816-1870), notices that the large presence of latin, required by Quod Divina Sapientia as the official language for the teaching and the exams of many faculties, represented a serious matter for professors and students.

***

1.                      La Congregazione degli Studi

 

Nel contesto storico-politico della Restaurazione, lo Stato pontificio, appena risorto e già attraversato da focolai di rivolta, pose in essere una riforma dell’istruzione con l’obiettivo di riconfessionalizzare capillarmente l’intero sistema didattico-educativo: nell’ambito della formazione e della cultura si stabiliva infatti un reciproco sostegno tra la componente religiosa e quella politico-civile, quale condizione peculiare di un organismo teocratico.

Con il motu proprio del6 luglio 1816, papa Pio VII varò un imponente piano di riforma amministrativa, che poneva le premesse anche per un rinnovamento nella pubblica istruzione attraverso la nomina di una congregazione cardinalizia, cui prendevano parte personalità di primo piano della curia romana. L’iter preparatorio della riforma subì una battuta d’arresto con la malattia e la morte del pontefice, ma il proposito fu ripreso e portato a compimento dal successore Leone XII: il 28 agosto 1824 egli promulgò la bolla Quod divina sapientia che, strutturata in ventisette titoli e trecentonove articoli, risultava il testo basilare della riforma. La principale innovazione fu l’istituzione della Congregazione degli Studi, un organo permanente preposto alla gestione del sistema d’istruzione, dotato di mansioni di coordinamento e vigilanza sull’intero territorio pontificio. Membri di diritto erano alcune delle più alte cariche dello stato, mentre i restanti venivano di volta in volta nominati dal pontefice e il numero complessivo oscillava tra i dieci e i sedici componenti. Il sistema gerarchico e centralizzato instaurato dalla nuova legislazione era imperniato sul ruolo della congregazione e di rimando sui vescovi, ai quali veniva attribuita la carica di cancelliere o arcicancelliere delle università nelle rispettive diocesi.

 

2.                      Il fondo archivistico della congregazione degli studi

 

L’archivio della congregazione era situato nel palazzo della Cancelleria Apostolica. Due anni dopo la caduta dello Stato pontificio, le carte furono acquisite dall’archivio di Stato di Roma, che si era appena costituito (1872). Una testimonianza sulla fisionomia dell’archivio originario è fornita dall’erudito Costantino Corvisieri e risale al 1871: il fondo era dotato di un sistema di classificazione secondo cui le carte appartenenti alla provincia erano divise per diocesi e quelle riguardanti Roma formavano diverse categorie. All’archivio di Stato di Roma la documentazione giunse tuttavia sciolta e manomessa, alcuni registri di protocollo erano infatti andati dispersi durante il trasferimento (d’altra parte, in contrasto con quanto affermato dal Corvisieri, simile disordine faceva postulare che il fondo avesse perso memoria del suo impianto iniziale già al momento del versamento). Altri elenchi e guide sarebbero finiti al macero nei primi decenni di vita dell’archivio di Stato in occasione dei massicci scarti di nuclei documentari, privi di utilità a fini meramente amministrativi e ritenuti di scarso interesse storico. Un ordinamento basilare e un primo inventario furono realizzati nel 1879 da Ernesto Ovidi (futuro sovrintendente dal 1907 al 1915), che ricompose le carte in serie che avessero rispecchiato l’attività della congregazione. Nel 2009 l’archivista Manola Ida Venzo ha realizzato un nuovo inventario[1] che, rispetto all’impianto ricostruito dall’Ovidi, ridefinisce serie[2] e fascicoli[3] con la rispettiva numerazione.

 

3.                      Prescrizioni normative circa l’uso accademico del latino

 

Il riordinamento del fondo e la descrizione analitica della documentazione operati dalla Venzo in occasione della stesura del nuovo inventario hanno offerto una chiave di ricerca prolifica di spunti ad esplorare aspetti finora trascurati dagli studi di settore. Un esempio è l’uso della lingua latina nell’insegnamento, tematica alla quale la Quod divina sapientia dedi-ca numerosi articoli; la descrizione degli ambiti previsti è dislocata in molteplici titoli, a co-minciare dal quinto, «dei Professori, e della loro elezione», i cui articoli descrivono il concor-so per la selezione dei docenti, strutturato in un esame scritto (art. 55) ed uno orale (art. 61):

 

«I Concorrenti […] faranno in iscritto, e in lingua latina dentro lo spazio di sei ore una disserta-zione sopra un tema, o un testo cavato a sorte da un numero non minore di trenta appartenenti alla Cattedra, a cui concorrono.

«Finito tal esame s’intimerà ai Concorrenti un giorno, in cui subiranno un esame verbale in lingua latina, sopra materie proprie della cattedra da conferirsi».

 

Nel titolo sesto, «delle obbligazioni dei Professori», gli artt. 82-85 enunciano le facoltà e i corsi in cui i professori sono tenuti, in varia misura, a spiegare in latino: il suo uso è totale nella didattica di teologia e giurisprudenza (art. 82: «I Professori degli Studi Sacri, e legali sceglieranno un corso latino, e faranno uso della lingua latina nelle spiegazioni»). L’art. 83 ne ammette deroghe per medicina: «I Professori degli studi Medici, e Chirurgici adopreranno un corso latino; ma potranno nelle spiegazioni qualche volta far uso della lingua italiana per maggiore chiarezza, indicando però le parole sinonime latine»; lo stesso articolo informa tuttavia che l’antico idioma rimane obbligatorio in alcuni corsi: «Si eccettuano la Notomia, la Fisiologia, la Medicina teorica, e quei trattati di Medicina, e Chirurgia legale, ove la maggior decenza esige, che tanto nel corso stampato, quanto nelle spiegazioni si faccia uso della sola lingua latina». Simile impostazione segue filosofia, per la quale l’art. 84 decreta che i professori «potranno servirsi della lingua italiana nei corsi, e nelle spiegazioni, eccettuati i Professori di Logica, Metafisica, ed Etica, i quali dovranno valersi sempre della lingua lati-na»; per l’immatricolazione nella medesima facoltà l’art. 153 sancisce una prova «sulle belle lettere, e specialmente sulla lingua latina». Maggiore libertà è lasciata dall’art. 85: «I Profes-sori di eloquenza, di lingue, e di altri simili studi faranno uso della lingua latina, o italiana, secondo che crederanno più conveniente alle materie, che trattano».

Nella normativa per gli esami di laurea, il titolo diciannovesimo (riguardante le lauree di onore e di premio, riservate in ogni ateneo ai soli quattro studenti più meritevoli) afferma al-l’art. 226 che

 

«i Concorrenti […] faranno nello spazio di sei ore una dissertazione in latino sopra un tema o te-sto cavato a sorte da un numero di temi, o testi non meno di cinquanta, e gli argomenti, o testi per le Lauree dell’una, e dell’altra Legge si prenderanno dal Corpo del GiusCanonico, e Civile»

 

(è evidente l’affinità con l’art. 55 per l’esame degli aspiranti professori); l’art. 236 del titolo ventesimo, «delle lauree comuni», assegna anche agli altri laureandi una dissertazione scritta in latino:

 

«L’esame si farà prima in voce o per via d’interrogazione, o per modo d’argomentazione; di poi si estrarrà a sorte una proposizione, od un punto, sul quale entro lo spazio di sei ore il Candidato dovrà stendere una dissertazione in lingua latina senza aiuto di libri od altri scritti, ed alla pre-senza del Rettore, o di un Membro del Collegio da deputarsi dal Rettore medesimo».

 

4.                      Riscontri dalle università di Camerino e Bologna

 

La documentazione reperita nel fondo della congregazione attesta alcuni tentativi di aggirare l’applicazione degli articoli sull’uso del latino nelle spiegazioni dei docenti: a fronte di tanta attenzione dedicata in sede normativa alla tutela di questo idioma, gli studenti ne possedevano una conoscenza alquanto precaria e lontana dalla scioltezza attesa dalla Quod Divina Sapientia.

Il fascicolo 504[4], intitolato «autorizzazione data dall'Arcivescovo Cancelliere di dar luo-go agli esami di baccellierato e pei premi in lingua italiana, stante il poco esercizio nel parlare e nello scrivere in lingua latina per parte degli studenti (1827 – 1828)», documenta che nell’e-state 1827 fu inviata al cancelliere dell’università di Camerino una richiesta di deroga dall’im-piego del latino. La prima lettera del carteggio non ha firma: il mittente è da identificare in una figura accademica intermediaria tra il cancelliere e gli studenti e latrice dell’istanza di questi ultimi.

 

«A Monsignor Arciv[escovo] Canc[ellie]re della Università di Camerino, 21. Luglio 1827

In vista della circostanza, in cui trovansi alcuni Studenti di Medicina, e Chirurgia in codesta Univ[ersi]tà di essersi poco esercitati in addietro nel parlare, e nello scrivere la Lingua Latina, come prescrivono i Regolamenti degli Studi da poco introdotti nella medesima Università, in se-guito della Supplica da essi avanzata a questa S. Cong[regazio]ne, si rimette al prudente arbitrio di V[ostra] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma, e R[everendissi]ma di poter loro permettere di dare gli esami pel Baccellierato, e pei premj in lingua italiana in quest'anno soltanto senza speranza di ulteriore grazia, dispiacendomi molto, che non siasi procurato in tutti i possibili modi l'insegna-mento, e l'acquisto di una lingua così bella, e necessaria in tutte le scienze.Dichiaro però, che questa condiscendenza non possa addursi in esempio negli anni avvenire, volendosi onninamen-te dalla S. Cong[regazio]ne, che in qualunque Classe si facciano gli esperimenti in Lingua Lati-na».

 

Lo scrivente chiede una deroga dai «Regolamenti degli Studi» in medicina e chirurgia (allu-dendo all’art. 83), ma anche nell’esame per i «premj», ovvero per la laurea ad premium, il cui esame, come si è visto, esige una dissertazione in latino. Del resto egli si dichiara ramma-ricato per la negligenza degli studenti nei confronti di una «lingua così bella» e specifica che la propria richiesta è solamente per l’anno in corso. Poco esplicativi i due testi successivi, che rimandano ad altre «due suppliche» degli studenti e alla risposta del cancelliere, tutti materiali assenti dal fascicolo; tuttavia le loro date, maggio 1828 e novembre 1832, rivelano che la que-stione si protrasse ben più a lungo del solo anno accademico 1827-1828:

 

«A Monsig[nor] Arcivescovo e Cancelliere di Camerino, 24. Maggio 1828

Gli studenti di Chirurgia in codesta Università hanno inoltrato la istanza che compiego a V[o-stra] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma e R[everendissi]ma significandole che’ per questo solo anno si ri-mette al suo prudente arbitrio il poter accordare la grazia richiesta dagli studenti suddetti, cioè di dare l'esame in lingua italiana al fine del cor[ren]te anno scolastico per i premj a cui aspirano».

«Monsig[nor] Arcivescovo di Camerino, 17. Nov[embr]e 1832.

Prima di prendere alcuna determinazione sopra le due suppliche, che troverà qui acchiuse prego V[ostra] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma a dirmi il suo savio parere. Con distinta stima»

 

Analoga resistenza al latino è attestata nell’università di Bologna dal fascicolo 381[5], intitolato«intorno all'uso della lingua latina nelle Lezioni Scolastiche (1844)». L’arcican-celliere card. Oppizzoni informa il prefetto della congregazione, card. Lambruschini, della scarsa attitudine degli studenti a parlare e comprendere il latino. Nel più cospicuo contenuto di questo fascicolo è reperibile la lettera di risposta, nella quale il prefetto disapprova la tendenza a sostituire il latino con l’italiano ed esorta a correggerla richiamando all’osservanza delle prescrizioni della Quod divina sapientia.

 

«Oggetto:Riscontro intorno all'uso della Lingua Latina nelle Lezioni Scolastiche

Em[inentissim]o Sig[no]r Cardinale Prefetto della S. Cong[regazio]ne degli Studi, Roma

Em[inentissim]o e Rev[erendissi]mo Sig[nore] Mio Oss[equiatissi]mo

L'essersi da molto tempo e quasi universalmente insegnata poco e usata pochissimo la Lingua Latina è cagione, che la grandissima parte degli Scolari non l'abbia tanto familiare, che all'udirla parlata, non sia da loro beneintesa. A questo si aggiunge, che gran parte delle opere, sulle quali ora si studia (eccetto la Teologia, e anche la Legge) sono scritte in Lingua non Latina. Pare per-ciò che per servire al bisogno della gioventù si possa ancor tollerare in alcune materie l'uso della Lingua Italiana, seguitando ad insistere per l'insegnamento della Lingua Latina, come si fa e non inutilmente, apparecchiando così a questo male il rimedio. Posso poi rendere certa l'Eminenza Vostra che questo Professore d'Istituzioni Canoniche usa il Testo Latino del Devoti e che non ha pubblicato il Compendio Italiano, che va per le mani dei giovani

E tutto ciò in risposta alle osservazioni espresse nel venerato Dispaccio dell'Eminenza Vostra del 15 ottobre passato N°1090.

Mi pregio di rinnovare all'Eminenza Vostra la conferma del mio profondo ossequio con cui le bacio umilissimamente le mani

Dell'EminenzaVostraBologna lì 6. novembre 1844.

Umilm[ent]e Dev[otiss]mo Ar[ci]vesc[ovo] C[arlo] Card[inale] Oppizzoni»

 

Forse per un tentativo di difesa degli studenti del proprio ateneo, prima ancora di descrivere il problema l’Oppizzoni ne annuncia la causa, in apertura imputa infatti allo scarso insegna-mento del latino nelle scuole elementari la sua progressiva destituzione negli ambiti didattici di pertinenza. Tale intento protettivo si può ravvisare quando suggerisce di «tollerare in alcu-ne materie l'uso della Lingua Italiana» per giovare al «bisogno della gioventù», nonché quan-do solleva il docente di istituzioni canoniche dalla responsabilità sul testo in italiano in pos-sesso dei suoi allievi. D’altra parte, constatando che circolano ormai libri scritti in italiano anche nelle facoltà di teologia e di giurisprudenza, l’Oppizzoni auspica un recupero del latino a partire da una sua rinnovata e più intensa didattica; prima della conclusione, la lettera si palesa come riscontro responsivo ad un foglio datato 15 ottobre 1844 (assente tuttavia dal fa-scicolo), ma la vertenza poteva essere sorta anche prima, dato l’«essersi da molto tempo e quasi universalmente insegnata poco e usata pochissimo la Lingua Latina»

 

«S[igno]r Card[inale] Arciv[escovo] Arcicancelliere dell'Università di Bologna

19. Novembre 1844

Il grave inconveniente di cui mi tiene proposito l'Em[inen]za V[ostra] nel suo pregiatissimo foglio del 6 corrente N 30, relativo alla trascuranza dell'insegnamento e dello studio della lingua latina, per cui dalla massima parte degli scolari di codesto Pontificio Stabilimento poco benin-tesa nelle prelezioni[6] dei Professori, esigge un temperamento che ravvivi l'osservanza delle leggi contenute nella Costituzione q. d. S. [= Quod Divina Sapientia]. A raggiungere un tale scopo convien usare il necessario rigore allorchè si da luogo all'ammissione degli Individui nell'uni-versità, e nell'esame delle loro idoneità esiggere la latina elocuzione. Ed affinchè per parte dei Professori siano anche osservate le proposizioni che li riguardano quanto alle spiegazioni nell'i-dioma latino, appuntino al Rettore dello scientifico stabilimento il tenerli a bada, onde per parte loro allontanare qualunque abuso che sotto qualsivoglia pretesto potesse introdursi per usare la lingua italiana invece della latina.

Mi onoro di confermare all'E[minenza] V[ostra] li ossequi»

 

Rispetto all’accomodante atteggiamento di compromesso mostrato dall’Oppizzoni verso questa problematica, il Lambruschini, in conformità al proprio ruolo istituzionale, richiama ad un fedele rispetto della normativa sull’istruzione in ogni sua parte e indica come unica soluzione «un temperamento che ravvivi l'osservanza delle leggi contenute nella Costitu-zione», da espletare mediante l’esercizio del «necessario rigore» fin dalla fase di ammissione degli studenti (analogamente, il card. Galletti, arcicancelliere dell’università di Roma e ca-merlengo di Santa Romana Chiesa, riteneva «necessario che essi[= gli studenti]non solo sappiano intendere, ma eziandio parlare e scrivere il latino, se vogliono attare ai gradi[7]»). Secondo il Lambruschini occorre inoltre che il rettore dell’università censuri ogni eventuale abuso dell’italiano da parte dei professori.

A poco valsero tuttavia tali raccomandazioni, se a distanza di dieci anni il rettore della vicina università di Ferrara, card. Taddei, deplorando la leggerezza con cui a suo avviso veni-vano esaminati gli studenti nell’archiginnasio bolognese, avrebbe criticato anche il malcostu-me di un completo abbandono della lingua latina. Nella lettera del 21 febbraio 1854 indirizza-ta al segretario della congregazione, mons. Ralli, costui denuncia il deflusso di numerosi giovani, respinti alle prove di ammissione a Ferrara e diretti all’università di Bologna, dove potevano intraprendere gli studi e addivenire all’abilitazione professionale favoriti da un imperante lassismo:

 

«Mentre che in questa Università, per la prima ammissione, conforme è prescritto, gli alunni per quattro giorni deggiono assoggettarsi a quattro esperimenti, due in iscritto e due a voce, di uma-ne Lettere e di Filosofia, ed ogni anno se ne escludono parecchi per mancanza di sufficiente i-struzione; egli è cosa notoria che in quella di Bologna il tutto si compie con un breve esame ver-bale, al quale chiunque si presenta rimane approvato. Per ciò è da temere che sia in appresso ad iscemare di molto l'impegno de' nostri giovani a far nelle Scuole Inferiori, al sapere che potran-no si' facilmente essere accolti nella vicina Università, ove già gli alletta a concorrere, per tacer-mi del resto, e il numero delle Lezioni scarso d'assai, e l'esservi del tutto sbandito l'uso della lin-gua latina[8]».

 

5.                      Il Collegio Lucarini di Trevi (PG)

 

Un’ulteriore situazione di stentata applicazione delle prescrizioni riguardanti il latino proviene dal contesto scolastico ed è testimoniata nel carteggio[9] relativo ad Emidio Olivi, insegnante di discipline filosofiche nel collegio Lucarini di Trevi: numerose sono le inadem-pienze a lui imputate, tra le quali la principale è l’abbandono del latino nelle sue lezioni. Nell’estate 1845 Paolo Paglioni, guardiano della Confraternita delle Stimmate[10], informa il delegato apostolico presso Spoleto «che il suddetto Sig. Professore anche in quest'anno ha pur troppo trascurato l'uso della lingua latina le tante volte ad esso raccomandato[11]» ed allega una relazione[12] sull’operato didattico dell’Olivi compilata dall’arcivescovo di Spoleto Luigi Bru-namonti[13].

 

«Il Sig[no]r Professore di Filosofia in quest'anno ha dato ai suoi Allievi lezioni di Etica. Non v'ha dubbio che a termine della Leonina Costituzione (§. 77. e 84. Art. 6.°) il Professore di tal facoltà deve servirsi di un corso stampato, e valersi sempre della lingua latina. Il nostro Sig. Prof. Olivi credeva scegliere all'uopo il Pacetti, e ne scriveva per l'acquisto in Roma, ove questi era stato stampato. […] Intanto il Pacetti non si trovò, ed insistendo il Sig.r Professore a chie-dere il modo con cui regolare si doveva, conoscendo io la di lui maniera di pensare, e tornan-domi alla mente l'odio ch'Egli ebbe sempre mostrato alla lingua latina, e di cui ebbe imbevuti i suoi Allievi, ed altri giovani, che frequentano le nostre scuole, […] gli conclusi che facesse quello che credeva, ricordandogli le premure fattegli più volte a voce, ed in scritto dal nostro Eminentiss[imo] Protettore, dal Degn[issi]mo M[onsigno]r Delegato Vice Presidente, e da tutti gli altri Superiori del Collegio in ordine alla lingua latina. Il fatto però si è che l'Autore latino di Etica non è stato usato in queste Scuole, e che il metodo tenuto dal Professore nelle sue lezioni è stato come quello dell'anno scorso. Avverta eziandio che la Costituzione = Quod Divina Sapien-tia = espressamente proibisce ai Precettori di Filosofia di fare uso di scritti non approvati dalla Sagra Congregazione de' Studj, ed il nostro Professore ha sempre fatto uso de' suoi scritti e nella Logica, e nella Metafisica, e nell'Etica. Sono ormai quattro anni che da tutti i Superiori si ripro-va tale inconveniente».

 

Di tutt’altro avviso è il gonfaloniere di Trevi, Clemente Bartolini, che mette la sua autorità a servizio del professore in quanto padre di suo alunno: [14]

 

« […] Io posso assicurare V[ostra] E[minenza] R[evererdissi]ma che […] ha dato sempre ai giovani in elaborata lingua latina le sue spiegazioni, rigore che neppur si osserva nelle Univer-sità; Che in principio del cadente Anno Scolastico si tentò di costringere i giovani stessi a ri-spondere, a dialoghizzare in latino col loro pricettore, ma che essendo ciò riuscito impossibile per la ben nota imperizia dei più nella lingua latina fù gioco forza dispensarli, e questa dispensa fu ad essi giovani soltanto accordata dal Prefetto dei Studj, e da me con la piena intelligenza dell'Ecc[ellen]za V[ost]ra R[evererdissi]ma. Continuò il Professor Olivi a dar le sue spiegazioni latine fino al termine del suo corso che fù compiuto a Giugno inoltrato. Da quell'epoca in poi non fà che ripetere, i studj fatti, quali ripartizioni sentendo dalla bocca dei giovani, e non dal Maestro si sentono in Italiano, e non in Latino in forze della facoltà di cui fossero accordate ai medesimi in principio dell'anno. Posso assicurare l'E[minenza] V[ostra] R[evererdissi]ma che nel perduto anno scolastico nelle Catedre della Università di Perugia si è adoperato il Latino as-sai meno che a Trevi, quantunque tanto raccomandato dalla Legge, che in Italiano hanno colà luogo gli esami per l'ammissione all'Università, per la collazione dei gradi».

Secondo lo scrivente il mancato utilizzo del latino nell’attività didattica dell’Olivi è conse-guenza dell’insormontabile difficoltà degli alunni ad interloquirvi; contrariamente a quanto i suoi detrattori denunciano, il professore avrebbe comunque continuato a spiegare in latino, senza mai trasgredire all’art. 84 della Quod Divina Sapientia. Nel marzo 1846 la decisione della congregazione privilegerà il docente accordando fiducia alla testimonianza del Bartolini, considerato l’unica «persona che poteva darne esatto giudizio e che ne era stata preventiva-mente interpellata[15]». Al di là della circostanziata questione relativa all’Olivi, il testo offre uno spiraglio sulla situazione vigente all’esterno, quando si asserisce che l’uso della lingua latina mantenuto dall’Olivi permetteva al collegio Lucarini di superare finanche l’università di Perugia, rivelando in questo modo che neanche in tale ateneo l’antico idioma godesse di un vivace esercizio.

 

6.                      Riflessioni conclusive

 

Dalla disquisizione fin qui condotta emerge con evidente centralità l’aspetto dell’insor-montabile fatica imposta agli studenti per imparare la lingua latina e padroneggiarla al punto da poterla parlare al posto dell’italiano: un dato certamente non preventivato al momento della stesura della Quod Divina Sapientia, le cui norme riservavano ampio spazio all’insegnamento del latino già nell’istruzione primaria, in vista del largo uso prescritto per il livello secondario ed accademico. I docenti stessi si dimostrano propensi a prendere atto di tale difficoltà, ogget-tivata nelle lettere inviate alle autorità competenti per ottenere deroghe di varia entità dall’ob-bligo di parlare latino, in nome della comprensibilità delle spiegazioni e del profitto dei di-scenti.

A tale contraddittorietà si associa un’effettiva carenza di chiarezza nei riscontri delle au-torità interpellate, e questa condizione impedirebbe in sé di formulare alcuna conclusione sicura; la risposta al portavoce degli universitari di Camerino è assente dal fascicolo, mentre il prefetto Lambruschini concede una sospensione solo temporanea delle lezioni in latino nell’u-niversità di Bologna, da recuperare quanto prima con un più assiduo insegnamento della grammatica latina; la maggiore intransigenza per il rispetto delle norme sull’uso del latino è quella manifestata a Trevi nelle proteste delle autorità scolastiche locali contro il professor Olivi. Ma il materiale documentario disponibile informa che entrambe le esortazioni ebbero un esito inefficace, infatti a distanza di un decennio dal temporaneo permesso accordato dal Lambruschini, il card. Taddei denuncia un completo disuso della lingua latina nell’università di Bologna e l’Olivi riceve una totale “assoluzione” dalla congregazione stessa (senza alcun riferimento alla rinuncia a spiegare in latino): in queste situazioni si possono ravvisare gli indizi di un incipiente declino della popolarità della lingua latina.

 

Indice delle carte consultate

 


BUSTA 98

Università di Bologna

FASCICOLO 381

1844

titolo

segnatura

Lettera del card. Oppizzoni al card. Lambruschini (1844)

 

Lettera del card. Lambruschini al card. Oppizzoni (1844)

1203

FASCICOLO 391

1854

titolo

segnatura

Lettera del card. Taddei a mons. Ralli (1854)

Protocollo generale della S. Congr. degli studi 54 / 1920

BUSTA 113

Università di Camerino

FASCICOLO 504

1827-1832

titolo

segnatura

Lettera all’arciv. Cancelliere (1827)

1016

Lettera all’arciv. Cancelliere (1828)

22 / 512

Lettera all’arciv. Cancelliere (1832)

4467.


BUSTA 918

Università di Roma

FASCICOLO 147

1827

titolo

segnatura

Lettera del card. Galletti al card. Bertazzoli (1827)

218. N°.29, S29=Div.e 3°. 1280.




BUSTA 419

Istituti di istruzione nei comuni

FASCICOLO 1943

Trevi, diocesi di Spoleto

1845-1846

titolo

segnatura

Lettera dell’arciv. Brunamonti a P. Paglioni (1845)

 

Deposizione di C. Bartolini in favore del prof. E. Olivi (1845)

 

Lettera di P. Paglioni al Delegato apostolico di Spoleto (1845)

 

Rescritto del card. Santucci al card. Polidori (1846)

3017

 

 



[1] Manola Ida Venzo (a cura di), Congregazione degli Studi. La riforma dell’istruzione nello Stato Pontificio (1816-1870), Roma 2009.

[2] Queste le serie in cui viene strutturato il fondo: Congregazioni preliminari alla riforma degli studi (1816-1823); Congregazioni ordinarie (1824-1870); Segreteria-Atti diversi (1824-1867); Note informative sullo stato e sul patrimonio degli istituti di istruzione (1816-1858); Contabilità (1838-1870); Università: Bologna, Camerino, Ferrara, Macerata, Perugia, Roma, Urbino (1824-1870); Istituti di istruzione nei comuni (1824-1870); Personale-Istanze (1824-1870); Rescritti (1838-1870).

[3] Nella maggior parte dei casi i fascicoli conservano documentazione eterogenea, come verbali, carteggi, testi normativi, bozze di regolamenti, istanze, relazioni, disegni e opuscoli a stampa.

[4] Serie Università, sottoserie Università di Camerino, busta 113.

[5] Serie Università, sottoserie Università di Bologna, busta 98.

[6] La prelezione era la fase della lezione in cui il docente dava lettura in maniera discorsiva del testo del proprio corso, soffermandosi a spiegare le parti più significative.

[7] Lettera del card. Galletti al card. Bertazzoli del 21-11-1827 (serie Università, sottoserie Università di Roma, busta 147, fascicolo 918).

[8] Sottoserie Università di Bologna, busta 98, fascicolo 391.

[9]Serie Istituti di istruzione nei comuni, busta 419, fascicolo 1943.

[10] Alla Confraternita delle Stimmate,fondata nel 1625,il notabile Virgilio Lucarini affidò la direzione del collegio da lui istituito.

[11] Lettera di Paolo Paglioni al Delegato apostolico presso Spoleto del 15-7-1845.

[12] Lettera di Luigi Brunamonti a Paolo Paglioni del 14-6-1845.

[13] La cui qualifica di «Prefetto degli Studj» è da non confondere con quella del prefetto della congregazione degli studi, che allora era il card. Mezzofanti: si può presumere o che il Brunamonti avesse ricevuto la giurisdizione sugli studi a Trevi in delega dal Mezzofanti, o che egli presiedesse ad un ente alle dirette dipendenze della Congregazione degli studi, abilitato a riprodurne le funzioni su scala locale.

[14]Lettera del Bartolini del 10-7-1845.

[15] Lettera del card. Mezzofanti al card. Polidori (Prefetto della Congregazione del Concilio) del 10-3-1846.

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