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Roma ore 11 di Giuseppe De Santis: un capolavoro di sessant’anni fa nelle carte d’archivio
L’inchiesta di Elio Petri
Roma ore 11 si ispira, come è noto, ad un fatto di cronaca realmente accaduto. Dopo aver letto una inserzione lavorativa, comparsa domenica 14 gennaio 1951, nella pagina degli annunci economici del Messaggero: «Signorina giovane intelligente volenterosissima attiva conoscenza dattilografia miti pretese per primo impiego cercasi. Presentarsi in via Savoia 31, interno 5, lunedì ore 10-11 e 16-17» circa duecento ragazze si erano recate nel luogo indicato nel trafiletto. A seguito della tragedia, ossia il crollo della scala dove erano in fila per il colloquio di lavoro, una giovane di ventisei anni, Anna Maria Baraldi, era deceduta al Policlinico.
La rassegna stampa dell’epoca aveva dato grande risalto alla notizia e la cittadinanza romana era rimasta profondamente commossa[1], non solo per la gravità del disastro, ma anche perché si trattava di una morte bianca. I giornali avevano ricostruito glieventi, andando alla ricerca di un colpevole. «l’Unità», in particolar modo, riportava la notizia che la portinaia dello stabile avesse telefonato in Commissariato per chiedere il ristabilimento di un servizio pubblico, visto l’alto numero di donne ammassate sulle scale del palazzo; la polizia era però impegnata nel diffidare i negozianti dal chiudere i loro negozi, in occasione dell’arrivo di Eisenhower a Roma[2].
In seguito alla vicenda, il regista Giuseppe De Santis[3] si rivolse a un giovane giornalista del «l’Unità», Elio Petri[4], che all’epoca era “vicecritico” del quotidiano, per condurre un’inchiesta fra le sopravvissute al crollo, inchiesta che costituirà in qualche modo il canovaccio originario della sceneggiatura[5].
De Santis racconta di avere inizialmente buttato giù un’idea di soggetto assieme a Gianni Puccini[6], Basilio Franchina[7] e Rodolfo Sonego[8], un soggetto ruotante intorno a quattro o cinque vicende individuali, nell’intento di restituire coralità alla tragedia umana. Fin dall’inizio fu preparato uno schema che prevedeva di esaminare il fatto di cronaca dall’alba al tramonto, facendo svolgere tutta la narrazione in un solo giorno.[9]
In un secondo momento, al gruppo di lavoro si aggiunse Cesare Zavattini[10]. Proprio Zavattini suggerì la necessità di un’inchiesta per avere come base di partenza l’esperienza umana; per Giuseppe De Santis:
«Si trattava di ripercorrere i dati della cronaca per risalire da essi al personaggio, per strappare dal mosaico delle singole testimonianze e delle ragioni individuali l’anello che mettesse in movimento, ma nella giusta direzione e prolungando, per così dire l’eco e la risonanza e il riverbero della cronaca, la nostra fantasia di autori. Eco, risonanza e riverbero che sarebbero stati prima di tutto umani, morali e ovviamente sociali. Non avrebbero dovuto solo illuminarci sui singoli destini, e sul loro fatale intrecciarsi in quel giorno e in quel luogo; ma su uno spaccato, anche, di vita romana, del ceto medio e del popolo»[11].
L’inchiesta fu condotta da Elio Petri rintracciando le ragazze che vittime della tragedia e cercando di scoprire quali fossero le sofferenze e le speranze che le avevano portate a quel colloquio di lavoro per un posto di dattilografa. L’indagine voleva anche mettere in luce il loro stile di vita, per esempio le letture preferite o i gusti nel vestire, facendo anche domande su mariti o fidanzati proprio per scoprire la loro personalità.
Per calarsi al meglio nella realtà sociale e cercare di ricostruire i fatti con una preoccupazione quasi documentaria, su suggerimento di Zavattini, si pensò di ripetere l’esperimento dell’annuncio economico, mettendo un avviso nella quarta pagina di un giornale, identico a quello che aveva richiamato in via Savoia le duecento dattilografe[12]. Furono convocate delle ragazze per selezionare una dattilografa, che sarebbe poi stata impiegata durante tutto il lavoro di sceneggiatura. A questo annuncio, si presentarono circa settanta ragazze e, nei colloqui a cui furono sottoposte, si riuscì a cogliere quali fossero i loro pensieri e il perché avessero bisogno di un posto da segretaria. Anche in quell’occasione, molte erano le ragazze stressate dalla prova: c’era chi sveniva, terrorizzata dalla prova pratica alla macchina da scrivere, chi scoppiava a piangere per ottenere il posto di lavoro, spesso ragazze madri con figli da mantenere.
In una prima fase dell’inchiesta, Elio Petri si mise alla ricerca delle ragazze che erano sopravvissute al crollo, cercando di raccogliere le loro preziose testimonianze.
In una fase successiva, ci si rese conto della necessità di allargare l’indagine per non limitarsi alla semplice cronaca dei fatti e si tentò quindi di approfondire. L’inchiesta riguardò tutti i quartieri di Roma, del centro, della periferia e delle borgate: i quartieri di Trastevere, di San Giovanni, di Porta San Paolo, di Testaccio, della Garbatella.
L’analisi dell’inchiesta di Petri è particolarmente istruttiva, perché ci permette di capire come la sceneggiatura di Roma ore 11 sia stata scritta modellandola sulle interviste che il giornalista aveva fatto alle ragazze incontrate.
A Elio Petri l’inchiesta venne affidata a soli quattro mesi dalla disgrazia, ma subito il ragazzo ebbe a che fare con una serie di false notizie, nate intorno a inesistenti ragazze coinvolte nel crollo della scala.
Nella sua inchiesta, Petri si presentava come giornalista, altre volte come aiuto regista o scrittore in cerca di materiale per un romanzo. Petri fece un lavoro certosino perché cercò di rintracciare non solo le ragazze, ma anche i pompieri, i vicini di casa delle giovani, per avere un ampio quadro della situazione e dei contesti umani e sociali. Subito rintracciò la portiera dell’edificio di via Savoia, dove si era consumata la disgrazia. La donna si dimostrò reticente, non gradiva essere intervistata e mostrava un certo risentimento nei confronti delle ragazze coinvolte nella disgrazia, colpevoli, a suo dire, di aver stravolto la sua vita, che altrimenti avrebbe continuato a procedere tranquilla.
Petri si scontrò con l’omertà di via Savoia:
«Parlai con altri portieri e altre donne di servizio, ma inutilmente. Mi sembrarono tutti educati alla riservatezza, a non immischiarsi, a non dare noie ai signori»[13].
Maggiore accoglienza e disponibilità Petri la trovò nella parte più popolare del quartiere. Provvidenziale fu l’incontro col falegname Sor Memmo, che aveva soccorso personalmente le ragazze e che raccontava con parole semplici quanto fossero state spinte dalla povertà ad assediare l’edificio («Erano tutte un po’ miserelle») e con il lattaio che aveva assistito al trambusto successivo all’arrivo dei soccorsi e dei pompieri.
Alcuni giornali avevano pubblicato un lungo elenco dei nomi delle ragazze che erano rimaste ferite nel crollo della scala e questo[14] si rivelò prezioso per il giornalista, fornendo il cognome e l’indirizzo di ogni ragazza.
Mi preme fare una carrellata dei profili biografici e sociali delle ragazze incontrate da Petri, che furono circa un’ottantina, perché molti commenti delle intervistate sono poi confluiti nella sceneggiatura, nelle battute delle protagoniste del film.
Nel suo primo incontro, Petri fece la conoscenza di una ragazza di nome Donatella, fidanzata con un ispettore di produzione. La donna aveva cercato lavoro per rendersi indipendente dal padre. Conobbe poi una ragazza di nome Maria, abitante nello stesso caseggiato di Petri. La donna desiderava un impiego non per necessità, ma per essere indipendente e riuscire a mantenersi con le sue forze. Sin dai primi colloqui, affiorava come le ragazze, per cercare un lavoro, dovessero scontrarsi con un mondo lavorativo dominato dagli uomini, in cui le proposte equivoche e le richieste di natura sessuale erano all’ordine del giorno. Il corpo della donna, considerato come oggetto di natura sessuale, era al centro di attenzioni maschili e, addirittura, dopo la tragedia di via Savoia, alcune ragazze erano state oggetto di proposte di lavoro di natura pornografica[15].
Petri concentrò le sue ricerche nel quartiere del Quadraro, incontrando Marcella e Teresa, due ragazze sedicenni. Se prima della guerra, le ragazze, che abitavano nelle borgate, raramente si recavano in città, viceversa nel dopoguerra, spinte dall’acuirsi della miseria, numerose erano le giovani che si avventuravano nel contesto urbano alla ricerca di un posto di lavoro qualsiasi, spesso pagando anche tangenti nella speranza di trovare un’occupazione. Nel racconto emergono anche tutta una serie di pregiudizi e luoghi comuni da parte delle stesse ragazze: se una donna otteneva un buon impiego, visto che chi assumeva era generalmente l’uomo, la donna doveva ripagarlo in qualche modo e spesso lo poteva fare solo con merce di scambio di natura sessuale, cui era interessato l’uomo.
Petri desiderò anche incontrare ragazze impiegate come dattilografe, per avere uno spaccato sociale più preciso. Rivelatore fu l’incontro con la dattilografa Silvana, che raccontava come le relazioni fra segretarie e capi uffici anche più anziani, fossero all’ordine del giorno. La ragazza orfana, in difficoltà economiche, era costretta a vendere il suo corpo prostituendosi in un piccolo appartamento, gli ultimi giorni del mese, quando i soldi dello stipendio erano finiti.
Le continue vessazioni e i tentativi di corruzione cui erano sottoposte le ragazze emergono dal diario stenografato che l’impiegata Anna Loreti aveva consegnato a Petri:
«i padroni si credono in diritto di fare delle ragazze quello che gli pare. Le ragazze lavorano per vestirsi, così dicono i padroni. Possederle è un sistema come un altro per farle vestire meglio. Essi non capiscono niente della sensibilità femminile. Sono stupidi e volgari»[16].
Nora, una fra le ragazze più sfortunate di via Savoia, con una cicatrice che le sfregiava il volto, era una rappresentante della piccola borghesia romana, assidua lettrice di rotocalchi, nonché ascoltatrice dei programmi Rai. Nora appariva come una donna dal modo ricercato di vestire e di truccarsi, che cercava un lavoro per sfuggire alla noia e a un fidanzamento subìto e non desiderato fino in fondo. Proprio per sfuggire alla routine, Nora, appresa la notizia che l’inchiesta era preparatoria ad un film, si era proposta come attrice interprete, dando la sua piena disponibilità. Nora era una ragazza che viveva la sua condizione femminile con senso di inferiorità: «Madre natura mi ha fatto donna e donna debbo essere»[17].
Petri si era poi recato nel quartiere del Prenestino, passando fra i grattacieli di edilizia fascista e in una delle povere abitazioni di questo quartiere aveva incontrato Fiamma, ragazza disoccupata, alla quale, in seguito al ricovero, il Policlinico aveva presentato un conto di ventitremila lire. I genitori erano stai impossibilitati a pagarlo e per questo alla famiglia erano stati sequestrati la radio e la macchina da cucire.
Fiamma cercava lavoro a causa delle ristrettezze familiari, nella speranza di non gravare sui suoi genitori e di non dover fare una vita di rinunce come avevano fatto i suoi cari.
Petri conobbe poi Beatrice, studentessa in legge, figlia di un funzionario della pubblica istruzione, proveniente dall’insegnamento elementare. Beatrice aveva dovuto abbandonare l’Università, la sua unica vera soddisfazione, perché il padre era stato impossibilitato a pagare le tasse.
La visita successiva aveva riguardato il centro abitato di Centocelle, da dove provenivano tre ragazze coinvolte nel crollo di via Savoia. Aveva conosciuto le due cugine siciliane Carmina ed Annunziata che desideravano vivere in città per coltivare la speranza di trovare un posto di lavoro.
Successivamente Petri aveva incontrato Giovanna, una ragazza molto religiosa, iscritta all’Azione Cattolica. La donna si sentiva responsabile della morte di Anna Maria Baraldi, perché proprio lei l’aveva convinta a restare in attesa del colloquio di lavoro, mentre la ragazza stanca e con i piedi doloranti voleva tornare a casa.
Alla palazzina di via Savoia, quella mattina si era recata anche la figlia di un ufficiale dell’esercito, un aristocratico di un’antica famiglia piemontese, il cui denaro era stato sperperato dall’amante della moglie. Dopo la separazione dei genitori, la ragazza, diciassettenne, aveva abbandonato la scuola e si era impegnata a cercare un lavoro per aiutare a vivere la sua famiglia. Anche la ragazza raccontava di essere stata vittima di attenzioni maschili:
«Il fatto estremo, in seguito ad un annuncio messo da me, mi accadde un giorno. Mi telefonò uno che cominciò a chiedere come mi chiamavo, che cosa sapevo fare. Diceva di aver bisogno di una persona libera anche nelle ore più insolite; io rispondevo come una scema. Poi aggiunse che il lavoro consisteva nel fare la segretaria e nel posare per qualche disegno. Disse anche che aveva bisogno di sapere come ero fatta e cominciò a chiedere se ero magra o formosa, come avevo il colore degli occhi. Io rispondevo sempre come una stupida. Poi mi disse che lo stipendio era di quarantamila lire, ma che avrei potuto arrotondarlo lavorando all’ambasciata di Spagna. Cominciò a chiedermi se mi piacevano gli uomini. Ero talmente confusa che non riuscivo a staccarmi dal ricevitore»[18].
Conobbe poi Carla, appartenente ad una famiglia numerosa di cinque figli che vedeva nell’eventuale matrimonio del fratello, l’unico stipendiato, la rovina della famiglia. Una ragazza con l’unica ambizione di sposarsi, non per amore, ma per non essere costretta all’elemosina.
La tappa successiva aveva riguardato il quartiere di Trastevere dove Petri aveva fatto la conoscenza di Marisa, una ragazza orfana, adottata dagli zii e costretta a lavorare per necessità. La sua famiglia sperava di poter ottenere, tramite un avvocato, un risarcimento per la disgrazia. Proprio per questo motivo, la zia ingigantiva i traumi che Marisa aveva riportato in seguito al crollo della scala.
Sempre in Trastevere, il giornalista aveva conosciuto Vetulia e Angela Moretti, madre e figlia; anche la madre era rimasta sotto le macerie perché aveva voluto accompagnare la figlia Angela. Dal colloquio emergeva nuovamente come il bisogno avesse spinto le donne a cercare lavoro: «È la miseria che ti fa cerca’ lavoro. I soldi non bastano mai. Dice che cerchiamo lavoro pe’ i vestiti. Se fosse per quello, io me ne resterei dentro casa mia. E se fosse anche pe’ i vestiti? Non è giusto? Ma lo sanno quanto costa un vestito, un paio di scarpe, un paio di calze? Mi ricordo che mentre crollava tutto su quelle maledette scale, il primo pensiero fu che mi rovinavo le calze e che restavo scalza».[19]
In un palazzo signorile, ai piedi di Monte Mario, lungo il Tevere, Petri conobbe Eleonora, una donna ventinovenne, divorziata e con due figli, che cercava una sua indipendenza economica dopo la separazione.
In una casa modesta al centro di Roma, fra via Nazionale e il Colosseo, Petri aveva intervistato la ventitreenne Anna, ragazza demoralizzata che non poteva sposarsi per la sua indigenza. La donna si rammaricava di non trovare lavoro perché priva di raccomandazioni.
Seguì poi un incontro molto toccante, quello con una donna sulla quarantina, Rosa, coi capelli bianchi e butterata dal vaiolo. La donna faceva la domestica e aveva molta voglia di confidarsi e di raccontare la sua adolescenza triste e piena di fatti incresciosi. Dopo aver fatto molti lavori, la donna era riuscita a sposarsi con un uomo che era partito come appaltatore per l’Argentina e non aveva fatto ritorno. A un certo punto Rosa aveva trovato il coraggio di aprirsi alludendo agli abusi sessuali che aveva subito da parte del padre orco: «Se mio padre non fosse stato quello che era, a quest’ora sarei stata una madre e una moglie felice». [20]
Successivamente, Petri si era recato nei tuguri di Campo Parioli, fra le abitazioni abusive fiorite nel dopoguerra, alla ricerca di Lucrezia Pupati e di sua madre, scoprendo però, che dopo la tragedia, le due donne si erano trasferite al Tufello. La passeggiata nella borgata fu comunque rivelatrice: il giornalista conobbe sei sartine che cucivano divise per i militari e scoprì che le povere ragazze, che abitavano in quei quartieri, in un momento di illusione, si erano tutte prese il diploma di steno-dattilografa per ambire ad un lavoro da segretaria, poi quasi tutte avevano rinunciato perché non avevano i vestiti, le scarpe buone o il rossetto per presentarsi ai colloqui di lavoro. Si confermava l’idea che per queste ragazze possedere un titolo di studio rappresentasse una variabile molto importante per trovare lavoro.
Petri rintracciò poi le due Pupati alla borgata Tufello. Entrò in una casa povera, molto umida e vide la madre, una donna con l’aspetto tipico della contadina meridionale, magrissima, con la pelle gialla che denunciava la malaria e la figlia dall’aspetto ancora più inquietante, alta un metro e quaranta, con la fronte bassa e il naso schiacciato.
La ragazza, che le sartine avevano soprannominato la “nana”, aveva preso il diploma da dattilografa grazie ai risparmi di genitori, ossia cinquantamila lire.
La madre una donna disagiata, con il marito invalido e costretta dalla miseria a mangiare la cicoria dei campi, aveva riposto le sue speranze nella figlia e raccontava con dettagli inventati come la figlia, arrivata la mattina presto in via Savoia, fosse riuscita a sostenere il colloquio di lavoro. Con grande amarezza, Petri scoprì che in realtà le due donne si erano trattenute nell’ufficio di via Savoia non più di due minuti, appena l’inserzionista le vide, trovò una scusa per congedarle.
La tappa successiva fu una piccola pensione di Roma, posta nell’antico rione Monti, anche qui alla ricerca di una madre e di sua figlia. Dopo la Liberazione, la pensione era andata in malora e se la madre passava il giorno a lavare le lenzuola dei rari clienti, la figlia era stata costretta a cercarsi un impiego perché i debiti aumentavano ogni giorno. Dopo due lavori provvisori, il primo in un fabbrica di lampadari, l’altro presso lo studio di un giovane avvocato, Marcella era rimasta nuovamente disoccupata. Lesse l’annuncio di via Savoia e nel crollo riportò la frattura di entrambe le gambe. L’ospedale presentò un conto superiore alle cinquantamila lire e la madre, per non farsi sequestrare i vecchi, decrepiti mobili della pensione, si era ridotta a fare la donna di servizio per ottomila lire al mese.
Successivamente Petri conobbe Luciana, una donna di origini ferraresi, che si era trasferita a Roma per trovare lavoro, una ragazza molto religiosa iscritta all’Azione Cattolica.
Petri si recò poi in una palazzina di via Nomentana a conoscere Adele Conti, la figlia di un generale. Il padre era morto, la madre era paralizzata e la ragazza cercava un lavoro per pura necessità, come denunciavano la sua magrezza e le sue vesti sgualcite. Nonostante la sua bravura come dattilografa e la capacità di battere molte parole al minuto, Adele veniva scartata ai colloqui di lavoro per il suo aspetto da malata e per la mancanza del requisito fondamentale della bella presenza.
Conobbe poi Lisetta, una ragazza molto appariscente, truccata come un personaggio da Grand Hôtel, il primo incontro si svolse a casa in presenza della madre e del fidanzato poliziotto. La ragazza, impaziente di raccontare dettagli utili all’inchiesta, fissò un appuntamento privato con Petri che incontrò in un caffè del centro. Lisetta volevo solo informarlo che le erano giunte telefonate anonime da parte di persone che le offrivano lavori pornografici. Questo però era solo un pretesto, in realtà la ragazza voleva sapere come fare ad entrare nel mondo del cinema per guadagnare, rendersi indipendente e lasciare il fidanzato che sfruttava solo per i suoi soldi.
Alessandra, l’ultima donna che Petri incontrò, nel quartiere del Flaminio, era una ragazza rimasta orfana a dieci anni e finita in collegio dove era rimasta per otto anni. Al compimento della maggiore età, era tornata a vivere con un fratello pittore e con un altro fratello impiegato di banca che li manteneva entrambi. Uscita dal collegio, Alessandra si era innamorata di un aviatore che era morto precipitando col suo velivolo e per la ragazza l’unica consolazione rimasta era quella di trovare un lavoro.
Per completare la sua inchiesta, Petri pensò di trascorrere qualche ora al Policlinico Umberto I, proprio dove la maggior parte delle ragazze coinvolte nel crollo erano state ricoverate. Petri fu colpito dallo squallore, dalla sporcizia dell’ospedale e soprattutto dalla disumanità di alcuni infermieri. Durante l’intervista venne a sapere che a molte ragazze, che avevano riportato traumi cranici, erano stati rasati i capelli nonostante le loro opposizioni.
Petri raccolse notizie sulla ragazza deceduta, scoprendo che alla madre, anche lei ricoverata al Policlinico, fu tenuta nascosta la notizia della morte della figlia per ben tre giorni.
La lettura dell’inchiesta di Petri si rivela molto toccante ed emozionante. Colpisce per la sua profondità di introspezione psicologica e sorprende il fatto che sia stata realizzata da un ragazzo che all’epoca dei fatti aveva solo ventitrè anni.
Mentre si trovava a Cuba, Cesare Zavattini scrisse una lettera di elogi a Elio Petri per complimentarsi per il lavoro svolto:
«Beato te, caro Petri, che a poco più di venti anni in queste cose ti ci sei calato dentro con tanta naturalezza; io all’inchiesta come esigenza morale numero uno ci sono arrivato molto tardi, verso la cinquantina, quasi da vecchio; perché la mia generazione ha avuto una specie di paura a stabilire questi contatti sentendo che in fondo ci poteva trovare il bisogno di mutare tante cose, forse tutto»[21].
Dall’inchiesta alla sceneggiatura
Nel caso di Roma ore 11 la documentazione cinematografica relativa al film è conservata nell’Archivio Cesare Zavattini[22] presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e dalla Biblioteca Chiarini di Roma nel Fondo Giuseppe De Santis[23].
L’Archivio Cesare Zavattini, per quanto concerne Roma ore 11 conserva un trattamento, tre sceneggiature e una cartella di documentazione con interviste, tutti appartenenti alla serie archivistica “soggetti cinematografici”, con segnatura Za Sog R 46/3-47/3:
Trattamento (cc.101, s.d.)
Sceneggiatura (cc.241, s.d.)
Sceneggiatura (cc.250, s.d.)
Sceneggiatura (cc.248, identica alla precedente con due carte numerate come bis, s.d.)
Cartelle di documentazione con interviste a giovani ragazze presenti al momento dei fatti di cronaca (cc.64, s.d.)
La Biblioteca Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia, nel Fondo Giuseppe De Santis, in merito a Roma ore 11 conserva:
“Roma ore 11” (interviste e testimonianze raccolte da Elio Petri nel 1951-52, cc. 223, collocazione SCENEG 00 09817).
Soggetto “Roma, ore 11” (autori Giuseppe De Santis, Basilio Franchina, Gianni Puccini, Rodolfo Sonego, di cc.11, 1951, collocazione SCENEG 00 09793).
Soggetto “Roma, un giorno di settembre” (autori Giuseppe De Santis, Basilio Franchina, Gianni Puccini, Rodolfo Sonego, di cc. 31, 1951, collocazione SCENEG 00 09742).
Soggetto e scaletta “Roma ore 11” (autori Giuseppe De Santis, Basilio Franchina, Gianni Puccini, Rodolfo Sonego, Cesare Zavattini, soggetto cc. 31 e scaletta cc.18, 1951, collocazione SCENEG 00 09776).
Trattamento “Roma ore 11, oppure un giorno di settembre” (autori Giuseppe De Santis, Basilio Franchina, Gianni Puccini, Rodolfo Sonego, Cesare Zavattini, di cc. 125, 1951, collocazione SCENEG 00 09761).
Tre Sceneggiature “Roma ore 11” (autori Giuseppe De Santis, Basilio Franchina, Gianni Puccini, Rodolfo Sonego, Cesare Zavattini. Due sceneggiature di cc. 248, fra loro identiche, datate 1951, con collocazione SCENEG 00 09670 e SCENEG 14459. Inoltre è conservata una sceneggiatura di cc.239, datata 1951, completamente identica nell’impaginazione a quella custodita dall’Archivio Cesare Zavattini a Reggio Emilia, con collocazione 00 09692).
Mentre Elio Petri terminava la sua inchiesta, il gruppo composto da Giuseppe De Santis, Basilio Franchina e Rodolfo Sonego elaborava un primo soggetto di circa 11 pagine e un secondo soggetto maggiormente articolato di 31 pagine. In questa fase del lavoro Cesare Zavattini non era ancora stato chiamato a lavorare alla sceneggiatura come si evince da una nota manoscritta.[24]
La storia era già delineata a grandi linee, quando Cesare Zavattini fu chiamato a collaborare, proprio nel tentativo di dare coralità alla vicenda da narrare, concentrandosi sulla messa a fuoco delle ingiustizie sociali.
Nel fondo De Santis sono conservati molti appunti manoscritti di De Santis relativi alla lavorazione del film e le trascrizioni delle sedute di lavoro con i dialoghi fra Zavattini, De Santis, Sonego e Franchini.[25]
La lettura di questa documentazione è particolarmente istruttiva perché consente di capire come la scrittura della sceneggiatura scaturì da un lavoro collettivo e partecipato. Il regista e i suoi collaboratori volevano evitare di fare un film politico, convinti che nessuno lo avrebbe prodotto se il contenuto fosse stato troppo esplicito, ma allo stesso tempo desideravano accennare, suggerire come la colpa della disoccupazione dilagante risiedesse nella non curanza della classe dirigente. Se si fosse riusciti a porre e a trasmettere efficacemente questo interrogativo, la denuncia sociale avrebbe avuto successo.
La poetica zavattiniana si prestò benissimo a tale obiettivo, trovando i giusti ingredienti per un’indagine sociale e umana del microcosmo delle impiegate nel dopoguerra.
Nel dibattito sul film, agli sceneggiatori premeva sottolineare come la miseria e la disoccupazione avessero messo in crisi tutti i ceti sociali e questo aspetto fu ben messo in evidenza per il fatto che sulla scala si incontrano la figlia del generale, la figlia del vetturino, ma anche la figlia dell’artigiano; da questo angolo visuale, il film può dirsi perfettamente riuscito nei suoi intenti, grazie allo spaccato sociale variegato che ci restituisce.
Fra De Santis e Zavattini insorsero divergenze di vedute in merito alla sceneggiatura. Zavattini predicava un progetto globale di pedinamento, un film quasi documentario, De Santis viceversa, voleva costruire un preciso intreccio narrativo e voleva partire dall’inchiesta per realizzare il romanzo. Il regista raccontò in un’intervista:
«Che cosa rivendicava Zavattini? Chiedeva che noi strutturassimo la sceneggiatura sulla base globale di questi documenti (inchiesta di Elio Petri) e che questi documenti non dovessero essere alterati in alcun modo, non dovessero neppure essere legati da un qualsiasi intreccio o, comunque, contenere questa o quella storia personale. Ricordo, anzi, a questo proposito, che Zavattini proponeva che le ragazze non avessero neanche un nome, ma si chiamassero per esempio la ragazza A, la ragazza B, la ragazza C, la ragazza del cappellino, la ragazza della borsetta, secondo una schizofrenia letteraria alla Zavattini»[26].
Analisi dei personaggi femminili
Il film narra le vicissitudini di una serie di ragazze disoccupate che si recano speranzose ad un colloquio di lavoro. De Santis ripercorre sogni, aspirazioni e illusioni di tante giovani, riuscendo a dare una forte coralità alla vicenda, ma allo stesso tempo riesce a restituirci anche la personalità delle singole ragazze attraverso semplici battute o singoli dettagli. Roma ore 11 è un film sulle donne e per le donne, visto che i personaggi sono quasi tutti femminili.
Ritengo che possa essere molto utile analizzare i personaggi centrali della tragedia per mettere nuovamente in luce come tanti aspetti dell’inchiesta di Petri siano poi effettivamente confluiti nella sceneggiatura e nel film e per evidenziare come, non essendoci una vera protagonista femminile, la vera protagonista della vicenda finisca per essere la stessa disoccupazione.
È mattino presto a Roma, davanti al cancello di una palazzina signorile giungono tante ragazze in cerca di lavoro. In breve, davanti al cancello dell’edificio, le aspiranti dattilografe formano una piccola folla, ma il ragioniere che ha fatto mettere l’inserzione sul quotidiano le avvisa che c’è un solo posto disponibile e le ragazze rimangono sconcertate.
La piazza dove si incrociano i destini di tante ragazze, fu integralmente ricostruita in teatro di posa dallo scenografo Léon Barsacq[28].
In questa folla di ragazze, il regista concentra la sua attenzione su nove ragazze in particolare, personaggi funzionali a fare intravedere la loro natura e la necessità che le spinge a cercare un lavoro.
Il primo personaggio che il regista ci fa conoscere è la timida ragazza Gianna[29], una ragazza impacciata che, su pressioni della madre Matilde[30], si è presentata davanti al cancello della palazzina dove si svolgerà il colloquio già alle cinque di mattina. De Santis ci fornisce subito alcuni preziosi dettagli che ci aiutano a identificare la ragazza: è povera, infatti, indossa un cappotto sdrucito e compra solo poche castagne per fare colazione. Addirittura restituisce cinque castagne al venditore ambulante perché non può permettersi di spendere cento lire. Nonostante sia lì in attesa, infreddolita e sonnolente, è rapita dai cartelloni pubblicitari del cinema e dalla vista dei fotoromanzi che vede in edicola, anche se non può permettersi di comprarli.
La madre, che ripone su di lei la speranza di un sostentamento, la invita a farsi rispettare e a non farsi superare nella fila. Il fatto che molte ragazze siano accompagnate al colloquio di lavoro dai genitori dimostra che spesso queste giovani donne si inserivano nel mercato del lavoro non per una scelta autonoma, ma operando all’interno di strategie familiari, per partecipare all’economia collettiva della famiglia.
La ragazza, per tutto il film, ci sembra la meno determinata a ottenere il lavoro, ma alla fine, non riportando lesioni nel crollo, sarà la sola ragazza che si ripresenterà dall’ingegnere, nella speranza di ottenere l’impiego necessario per pagare le spese ospedaliere della madre.
La mattina del colloquio, la seconda ragazza che si presenta sul posto indicato nell’inserzione di lavoro è Loretta[31], una graziosa fanciulla con una valigia, proveniente da Viterbo. Una ragazza curiosa, appariscente, che mastica gomma americana. La ragazza appare subito sicura di sé, spavalda nell’ottenere il posto di lavoro pur non essendo una brava dattilografa. Davanti al ragioniere non si fa scrupoli nel mostrare le sue grazie femminili, si alza le vesti fingendo di aggiustarsi la giarrettiera, nella speranza di essere assunta.
La spregiudicatezza di questa donna forse suscita in un primo momento un po’ di repulsione nello spettatore, che però è portato a sentire vicinanza umana nei suoi confronti quando si comprende la disperazione che muove la ragazza. Dopo che la domestica Angelina si è licenziata, lasciando la famiglia presso la quale prestava servizio, Loretta subentra nell’impiego e chiedendo informazioni sul suo nuovo posto di lavoro rivolge la fatidica domanda «Se magna?». La miseria della ragazza viene sottolineata anche da alcuni dettagli riguardanti la sua valigia. Dalla valigia fuoriescono noci, una mela e della miseria biancheria… . Si ha l’impressione che la donna sia abituata a vivere di espedienti come le donne intervistate da Petri nella sua inchiesta, madri costrette a mangiare la cicoria nei campi per sopravvivere. Quando la ragazza è ferita, viene soccorsa dai medici che tentano di sfilarle la maglietta per medicarla, ma la ragazza si dimena singhiozzando perché si vergogna di indossare non una normale canottiera femminile ma una maglietta pubblicitaria con la scritta “Cicli Lazzaretti”.
Nella latteria, davanti all’abitazione del ragioniere, conosciamo Adriana[32], una ragazza che si è inspiegabilmente licenziata da un posto di lavoro sicuro.
La ragazza appare riservata, non lega molto con le altre donne e nel momento della prova pratica, pur facendo una brillante dimostrazione delle sue capacità da dattilografa, scoppia a piangere davanti al ragioniere, che si mostra seccato dalla sua reazione emotiva.
Solo in ospedale apprendiamo il perché di questo strano comportamento: la donna è in stato interessante e si è licenziata proprio perché aspetta un bambino dal suo principale. Il padre vetturino[33], appresa la notizia, è furioso e vorrebbe ripudiare la figlia, all’ospedale la schiaffeggia perché pensa che la donna col suo comportamento abbia disonorato la famiglia. Ma, nonostante la reazione del padre, Adriana si preoccupa soltanto per la salute del bambino che porta in grembo. I due lasciano l’ospedale e nonostante la rabbia del padre, la ragazza trova il coraggio di confidarsi. Il padre rimprovera alla ragazza di non esserci licenziata prima e di non essersi cercata un altro lavoro, ma Adriana ribatte: «Nun lo trovi. Oggi eravamo duecento sulla scala… . E quello che avevo lo sai, ci ho messo due anni a trovarlo».[34]
Il padre vorrebbe un matrimonio riparatore «Se non ti sposa l’ammazzo, sembra quasi più preoccupato dell’onore che dei problemi economici relativi all’arrivo del nascituro; Adriana spiega amareggiata «È già sposato! Diceva che si sarebbe diviso dalla moglie pe stà con me… Dopo il fatto mi ha detto: Chi lo dimostra che so’ stato io?».[35]
Alla fine del litigio padre e figlia tornano a casa festeggiati dai vicini di casa, ignari della gravidanza e contenti che la ragazza sia sopravvissuta al crollo. Adriana è la sintesi di quello a cui sono costrette tante ragazze per mantenere un posto di lavoro.
Come si evince dalla trascrizione della seduta di lavoro del 10 agosto 1951, conservata nel Fondo De Santis, Cesare Zavattini considerava fondamentale il personaggio di Adriana:
«Dobbiamo dire che per la donna è più difficile che per l’uomo cercare lavoro perché esse devono pagare quella tassa che tutti conoscono. Quando parlo di Adriana mi riferisco a questo e spingo questo bottone»[36].
Tramite la figura della ragazza madre, ci viene restituito un codice etico che ancora considerava disonorevole per la donna il fatto di far nascere un bambino al di fuori del matrimonio e il fatto che, in assenza di test di paternità, gli uomini potessero esimersi da assumersi le loro responsabilità. Guardando alla vicenda con la sensibilità di oggi, si rimane colpiti negativamente dalla circostanza che il padre di Adriana preferirebbe per la figlia un matrimonio riparatore con un uomo che l’ha illusa e che non potrà renderla felice pur di preservare l’onore della famiglia. Nonostante i codici etici dominanti, le donne negli anni Cinquanta iniziavano a lottare per scardinare vecchi codici comportamentali, anche se solo nel 1966 Franca Viola, diciassettenne che era stata rapita e violentata da un mafioso, trovò il coraggio di rifiutare il cosiddetto matrimonio riparatore, andando incontro a un possibile destino di donna svergognata.
L’articolo 544 del Codice penale fascista contemplava la possibilità di estinguere il reato di stupro, anche ai danni di una minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto "matrimonio riparatore", contratto tra l'accusato e la persona offesa. La violenza sessuale era considerata oltraggio alla morale e al buon costume e non un reato contro la persona. Il cammino per il cambiamento sarà lungo e faticoso, a lungo permarrà nell’opinione pubblica un malinteso senso di onore e l’articolo 544 del Codice Rocco sarà abrogato solo nel 1981[37].
Conosciamo poi Simona[38], un bella ragazza, vestita con abiti eleganti e con una vistosa borsetta che si reca al posto di lavoro, accompagnata dal fidanzato pittore[39]. Da uno scambio di battute con l’uomo, apprendiamo che la donna vuole cercare un lavoro, per aiutare il suo amore a coltivare il suo sogno di affermarsi come pittore. Mentre la donna si unisce alle altre ragazze, il suo comportamento è imbarazzato perché percepisce gli sguardi morbosi delle altre donne, che la osservano incuriosite dalla sua eleganza e dal suo aspetto sofisticato. In particolar modo, la sua borsetta è oggetto di maliziose attenzioni da parte di Caterina che crede che la donna sia una nobile decaduta. Dopo il crollo della scala, Simona è ferita, si copre il volto per non farsi fotografare e non vorrebbe recarsi all’ospedale per non far fare brutte figure alla sua famiglia. Simona sente di doversi attenere ad un codice di rispettabilità per non mettere in cattiva luce la sua famiglia.
In ospedale scopriamo che la ragazza è figlia di un noto industriale e nel nosocomio si reca visitarla la sua famiglia facoltosa. Il padre in un primo momento la convince a tornare a casa e alla sua vita agiata, ma, mentre è in macchina verso casa, la ragazza decide di scendere dall’autovettura per tornare dal suo amore squattrinato. Simona diviene così l’emblema della ragazza borghese, che si emancipa dalla famiglia di appartenenza per reclamare la propria legittima indipendenza rifiutando i pregiudizi di classe. Simona rappresenta anche il ribaltamento di quello stereotipo secondo cui deve essere l’uomo, in quanto capofamiglia, a mantenere la donna.
L’aspetto rilevante che era emerso nell’indagine di Petri, ovvero il fatto che nuovi ceti sociali si stessero trovando in difficoltà, viene esplicitato attraverso la figura di Giorgetta, la figlia del generale. La ragazza si reca al colloquio di lavoro accompagnata dal padre, ma l’uomo la porta via infastidito dalla ressa: «Questo pare un mercato, peggio di un mercato.. andiamo…»[40]. Successivamente la ragazza ricompare in fila per il colloquio di lavoro, anche in questo caso mossa senz’altro dal bisogno. Bisogno che annienta tutte le differenti posizione di classe e status sociale. La figlia cerca di convincere il padre a vincere le sue resistenze ricordandogli che il decoro non serve per sfamarsi.
All’ospedale il radiocronista intervista la ragazza; il padre è scontento della spigliatezza della figlia che racconta: «Siamo in quattro figli. Mio padre è pensionato. L’unico che lavora è mio fratello grande. Se mio fratello si sposa siamo rovinati… Sarebbe meglio che mi sposassi, io. Ma non sono fidanzata…»[41].
Conosciamo poi Caterina, la ragazza prostituta[42], che giunge sul posto di lavoro in taxi facendosi accompagnare da un cliente e che spera di voltare pagina. Congedandosi dal cliente esclama: «Ciao ultimo amore mio. Sei proprio l’ultimo oggi chiudo bottega»[43].
La ragazza è molto esuberante e allegra e questo suscita subito simpatia nei suoi confronti. Inoltre tutta una serie di piccoli gesti, ad esempio si toglie il trucco vistoso con un fazzoletto per non dare nell’occhio, ci fanno provare umana comprensione nei confronti del personaggio.
Maggiore simpatia verso Caterina la proviamo anche quando, dopo il crollo, cerca disperata la borsetta e quando si vergogna a recarsi in commissariato perché è sicuramente schedata come prostituta. In un moto di orgoglio e di rifiuto nei confronti di una società che non le dà chance di riscatto sociale, la donna strappa il libretto che la identifica come prostituta in faccia all’agente che vorrebbe condurla in commissariato.
Alla fine della giornata, un potenziale cliente la accompagna nella baracca dove vive, in Campo Parioli, lì la notizia del crollo della scala non è nemmeno arrivata, i giornali che ci sono quelli vecchi e servono solo a coprire le finestre[44], l’ambiente è desolante: nel campo sono raccolti vecchi carri armati e cannoni, c’è una capretta per l’approvvigionamento di latte. L’uomo è mosso a compassione dalla situazione di povertà della donna e decide di lasciarle dei soldi senza usufruire delle sue prestazioni.
Anche in questo caso, l’inchiesta di Petri aveva messo in luce il dramma di tante donne costrette a vendere il loro corpo per riuscire a sopravvivere. Caterina non esercita la professione in maniera istituzionalizzata, non lavora in una casa di tolleranza, ma sembra procacciarsi i clienti per conto suo, come tante donne costrette dal bisogno.
Negli anni Cinquanta la crisi economica aveva visto esplodere il fenomeno dilagante della prostituzione, prostituzione che nel dopoguerra era ammessa e regolamentata solo in Italia e Spagna, dove lo Stato percepiva una percentuale sulle tariffe delle prostitute.
In questo specifico contesto sociale, contesto in cui la prostituta spesso veniva vista dall’opinione pubblica come una minorata mentale o come una delinquente e non come una vittima della povertà e dell’ignoranza, la senatrice veneta Lina Merlin riuscirà nel 1958 a far approvare la legge che sanciva l’abolizione delle case chiuse, in quanto contrarie alla dignità umana. La grossa novità introdotta dalla legge non riguardava solo la chiusura dei bordelli, ma anche il fatto che la prostituta non fosse perseguita giuridicamente, se non nel caso di adescamento[45].
Carla del Poggio interpreta il personaggio di Luciana, la figura di una moglie che, avvilita dai continui insuccessi del marito[46] nel trovare un impiego, rinnega la sua natura buona e dolce per superare con un escamotage la fila e rientrare fra le donne esaminate. All’annuncio del ragioniere che saranno esaminate solo trenta, quaranta ragazze, Luciana è disperata.
Dopo aver parlato col marito, che si è visto rifiutare l’ennesimo lavoro, decide con un gesto di prepotenza, che non corrisponde al suo animo gentile, di saltare la fila e implorare il ragioniere di sostenere la prova dato che suo marito è disoccupato da sei mesi. Dopo il crollo, Luciana esce illesa fuggendo via dall’edificio, ma la giovane donna è sopraffatta dal senso di colpa, si sente responsabile di aver causato il disastro visto che il suo atto di prepotenza ha comportato una lite fra le donne in coda sulla scala, provocando indirettamente il cedimento della ringhiera. In un gesto disperato, quando viene chiamata in commissariato, medita anche il suicidio perché il suo animo fragile non sopporta le accuse che le rivolgono le sue compagne di sventura. Luciana viene fermata in tempo dal marito Nando, che interviene per salvare la moglie lanciando la vera accusa di voler trovare a tutti i costi un capro espiatorio: «Ma che le avete fatto? Che volete da lei? Vi farebbe comodo trovare una povera disgraziata da mettere sui giornali»[47].
Anche questo aspetto del senso di colpa era emerso nell’intervista di Petri. Una ragazza si era tormentata a lungo per il semplice fatto di aver cercato di convincere la donna che poi era deceduta, a non perdersi d’animo e a non abbandonare il colloquio di lavoro.
Nel film, grande accusatrice di Luciana è la donna che non viene identificata da alcun nome, ma che nella sceneggiatura viene indicata con l’espressione “vecchia mitragliatrice”. La donna, non più giovane, è preoccupata che ci siano dei limiti di età per il posto di lavoro. Quando si trova a fare la prova pratica da dattilografa, dimostra una grande padronanza alla macchina da scrivere tanto da ricevere l’elogio del ragioniere che l’esamina, ma difetta del requisito della bella presenza.
Quando Luciana è in commissariato le donne le dimostrano solidarietà, implorando il commissario di lasciarla andare «Ma non vede che non ce la fa? La lasci stare?»[48]. In questa battuta gli sceneggiatori sembrano quasi suggerire la necessità per le donne di unirsi per combattere assieme solidarmente.
Se all’inizio del film le donne si contendono il lavoro con un certo accanimento, dopo la disgrazia la rivalità si affievolisce e subentra il sostegno reciproco.
Sulle scale dove si assediano le ragazze in attesa, alcune leggono delle inserzioni di lavoro e altre, le meno carine, si lamentano che negli annunci viene sempre richiesto il requisito della bella presenza. Alla domanda legittima di una ragazza bruttina sul contenuto di un annuncio lavorativo: «Chi ha detto che ci vuole bella presenza» segue un coro di voci che ribatte amaramente: «Vogliono dì che se una è brutta può pure morire de fame…eh, chissà che cercano… una va per fare la dattilografa… si sa bene quello che cercano»[49].
Le ragazze vivono questa richiesta, da parte degli uomini, dell’avvenenza, come discriminatoria nei loro confronti e come lesiva delle loro capacità professionali. Per molte ragazze, anche carine, è difficile rispondere a tale requisito visto che per bella presenza spesso si fa riferimento non solo alla forma fisica, ma anche al fatto di essere curate e vestite con abiti belli. Quando Petri si era recato a Campo Parioli aveva scoperto che molte giovani ragazze, che con sacrifici avevano conseguito il diploma da dattilografa, rinunciavano poi a presentarsi nei posti di lavoro perché prive delle calze e delle scarpe adatte.
La miseria, che mette in difficoltà tante ragazze giovani e volenterose a presentarsi nei posti di lavoro, viene simboleggiata molto bene dal personaggio di Cornelia, la ragazza che muore nel crollo della scala. Cornelia ha le fattezze di Maria Grazia Francia e si caratterizza per un volto ingenuo e candido. La ragazza si mette in coda per il colloquio, ma ha le calze smagliate e per questo si affaccia in una bottega per recuperare un passafilo per rammendare la smagliatura. Le calze sono talmente rovinate che la titolare del negozio si rifiuta di prestarle il passafilo e le suggerisce di compare un altro paio di calze.
Nell’attesa di sostenere il colloquio, Cornelia ha modo di scambiare qualche sguardo d’intesa con un marinaio fermo alla fermata dell’autobus, la ragazza è talmente presa dalle attenzioni del ragazzo che sembra quasi dimenticare il colloquio di lavoro.
Roma ore 11 è un film dove potente è l’intreccio fra l’inchiesta e lo spettacolo: mentre Cornelia viene corteggiata dal marinaio, sullo sfondo compare il manifesto pubblicitario di Cenerentola della Walt Disney.
Mentre Cornelia è impegnata a lanciare sguardi al suo innamorato, sopraggiunge una donna, che all’ospedale scopriremo essere la sorella, che viene a recuperare le sue scarpe buone col tacco per andare a lavorare in ufficio, restituendo alla ragazza le sue scarpe vecchie e bucate. Cornelia è quindi costretta a presentarsi al colloquio di lavoro con scarpe rotte e calze smagliate, questo la mette in imbarazzo davanti al marinaio che assiste alla scena dello scambio di calzature fra le due sorelle, ma la ragazza riesce a non perdere il suo sorriso solare ed incantato. Il marinaio comprende l’imbarazzo della ragazza e affascinato dalla donna le chiede l’indirizzo per scambiarsi delle lettere. Cornelia è rapita dal ragazzo, si affaccia alla finestra che dà sulla rampa delle scale e il marinaio le lancia un sasso con il suo indirizzo. Questo nascente idillio amoroso infonde un clima di aspettativa e non ci fa presagire il triste destino della ragazza, che nel crollo perderà la vita.
Questo aspetto dell’abbigliamento di Cornelia, che denota la sua indigenza, deve essere giustamente preso in considerazione. Nell’epoca dell’inizio della diffusione dei consumi di massa era normale che molte ragazze desiderassero avere oggetti quali scarpe e calze per proteggersi dal freddo, ma anche per il diritto di sentirsi carine e curate. Al momento della disgrazia, molte ragazze perdono le loro scarpe e colpisce che molte siano forse più preoccupate di aver perso una scarpa che di essersi ferite. Dopo il crollo, molti curiosi si affollano in via Savoia e qualcuno commenta «Bè, mica tutte, sa, hanno bisogno di lavorare… c’è quella che va per le calze… per le scarpe…», a questo commento una donna del popolo replica «Solo lei deve cammina con le scarpe?»[50].
Altro personaggio interessante è quello di Clara[51], graziosa ragazza, figlia di un impiegato vedovo[52], costretta a lavorare per aiutare il padre a sostenere le altre tre sorelle più piccole. Il fatto che anche i dipendenti pubblici nel dopoguerra si trovassero in difficoltà era emerso in alcuni incontri di Petri. Clara è una ragazza particolarmente affascinata dai mass media, compra “Il Canzoniere” e sogna di fare la cantante. Quando è ricoverata all’ospedale, ha il suo piccolo momento di celebrità quando canta “Amado mio”[53] ai microfoni della radio.
Nel film, come accadeva in Riso amaro, torna la costante presenza dei mezzi di comunicazione: i fotoromanzi appaiono continuamente fra le mani delle ragazze.
Questo aspetto delle ragazze ammaliate dai mass media, è presente in tutto il film, ma il regista restituisce un ritratto amaro dei mass media che speculano con cinismo sulla tragedia delle ragazze. I cronisti si recano all’ospedale ad intervistare le sopravvissute al crollo, ma lo fanno solo per motivi giornalistici. Le giovani donne sono ben felici di farsi intervistare e si dispongono davanti alla radio come se anche la loro immagine, oltre alla loro voce dovesse essere riprodotta; solo i borghesi rifiutano l’intervista, temono la pubblicità, hanno paura di comparire sui giornali[54].
Anche la colonna sonora del film, basata sul ticchettio della macchina da scrivere, allude alla pratica del giornalismo.
I tempi musicali del film sono molto significativi. Mario Nascimbene, che per le musiche vinse un nastro d’argento, pensò di affidare alla macchina da scrivere un ruolo di strumento solista nell’ambito dell’orchestra, sfruttandone le possibilità timbriche e ritmiche più caratteristiche per creare un crescendo di suspense[55].Compose allora un “concerto per quattro macchine da scrivere e orchestra”, che fu eseguito dai musicisti dell’Accademia San Cecilia e registrato nella sala Titanus alla Farnesina[56].
Il suono della macchina da scrivere è scomposto nei suoi elementi semplici: tasto, carrello, spaziatore e campanello, accompagnato dalle note acute suonate insieme da pianoforte e ottavino. Tale partitura restituisce benissimo la tensione emotiva dei personaggi. Mario Nascimbene[57]riuscì molto bene nel suo intento che era quello:
«di usare i suoni reali della vita in un contesto particolare che ne evidenzi il sapore psicologico»[58].
Oltre a quello radiofonico, nel film è presente anche il giornalismo cinematografico: un operatore della “Settimana Incom” raggiunge Largo Circense per fare delle riprese.
Durante l’intervista all’ospedale, il padre di Clara era intervenuto con un commento: «Bisognerebbe aumentare gli stipendi a tutti gli impiegati»[59], salvo poi scoprire amareggiato che tale frase era stata tagliata nella trasmissione radiofonica che aveva trasmesso solo la figlia che cantava. In questa sequenza emerge sottile una critica nei confronti dei mass media, colpevoli di non restituire i fatti in maniera veridica, distorcendo la realtà.
La radio, in tutto il film, viene vista come un oggetto che ha una sua sacralità. È curioso che anche Loretta prima di entrare come domestica, presso la nuova famiglia, domandi: «Ce l’hanno la radio?». Tale domanda la rivolge prima ancora di informarsi se il vitto sia compreso nel lavoro da svolgere. La radio non è ancora alla portata di tutti, ma viene vista come emblema di benessere.
Durante il crollo Clara è soccorsa da un giovane di nome Augusto[60], che invaghitosi di lei la va poi a trovare all’ospedale. All’ospedale il padre vorrebbe far pressioni sui medici per far operare la figlia di tonsille[61], ma i suoi tentativi si rivelano fallimentari. Il giorno delle dimissioni, Augusto accompagna a casa Clara, ma il padre è infastidito dalle attenzioni del giovanotto.
Quando però scopre che il ragazzo ha un posto fisso, da venticinque mila lire al mese, cambia atteggiamento, non è più ostile e lo invita a mangiare un boccone nella loro casa, nella speranza di aver trovato un buon partito per sua figlia.
Angelina[62] è un personaggio che si differenzia in parte dagli altri, perché di fatto è l’unica donna che un lavoro lo possiede, anche se è un lavoro umile in quanto fa la domestica. Di prima mattina, mentre Angelina è impegnata a fare pulizie nell’abitazione dove risiede, vede formarsi la coda di ragazze che si mettono in fila per il posto di lavoro. Stanca di fare la domestica, Angelina decide di unirsi alle donne in coda nella speranza di poter fare un salto di classe. Il rifiuto della prevaricazione sociale e degli abusi sessuali emerge in una battuta che Angelina rivolge allo spasimante Romoletto[63], mentre l’uomo le mette le mani addosso: «te ne approfitti perché sono una serva»[64].
Dopo il crollo, i padroni chiedono spiegazioni alla ragazza sul perché si sia recata nell’edificio della disgrazia e sorpresi dal fatto che la ragazza volesse andarsene chiedono: «Ma perché? Da noi non avevi tutto quello che volevi? … Perfino le chiavi degli armadi, tutto, tutto… Bella gratitudine! Non ti abbiamo sempre trattato come una figlia?», Angelina in un impeto di orgoglio risponde «Si, figlia! Sempre una serva ero!»[65].
La sua condizione di serva viene subito messa in evidenza, davanti alle altre donne che affollano le scale della palazzina, dalla portiera dell’edificio che la tira bruscamente fuori dall’ascensore ricordandole come la sua condizione le proibisca di usufruirne: «Lo sai bene che le serve nun possono annà in ascensore»[66].
Dopo la disgrazia, Angelina decide di fare la valigia, di abbandonare la casa dei padroni e di far ritorno alla famiglia d’origine, preferisce tornare a zappare la terra in campagna che essere serva in città.
Mentre le ragazze sono in attesa del colloquio di lavoro e affollano le rampe delle scale, raccontano le attenzioni maschili di cui sono state oggetto in tante occasioni. Proprio per non deludere certe aspettative, una donna sposata, la moglie del conducente dell’autobus, si toglie la fede per sembrare nubile e quindi più disponibile agli occhi del ragioniere.
Le ragazze sono tutte molto ansiose, si comprende come per molte di loro ottenere quel modesto impiego possa rappresentare quasi una vincita alla lotteria, anche se la lotteria ammonta a sole quindicimila lire mensili. Le giovani sono tutte emozionate e tremolanti, il fatto di venire esaminate le mette in soggezione, anche perché molte non sono pratiche alla macchina da scrivere e si sono presentate solo per necessità.
L’edificio della tragedia diviene simbolicamente la sede del potere, di una politica che dispensa alla folla lasciata ad attendere per le scale, un lavoro appena sufficiente per la sussistenza.
«La prova cui il ragioniere sottopone le ragazze rassomiglia parecchio alla giocata di una lotteria , in un’ideale e persistente continuità con quella condizione che fin dall’Ottocento caratterizza gli stati più miseri del proletariato urbano e che è stata definita civiltà del gioco del lotto, in cui solo l’estrazione fortunata di un numero (in questo caso la conquista del posto) può sottrarre ad un destino altrimenti inevitabile di fame e oppressione»[67].
Il crollo della scala rappresenta l’apice della tensione emotiva, i gradini crollano come in un effetto domino travolgendo le vite delle aspiranti dattilografe. Il crollo viene preparato da una soggettiva del ragioniere esaminatore, che osserva le ragazze accalcate sulle scale. Durante il momento del crollo, la suspense raggiunge il climax con i gradini che si sgretolano, con le ragazze che precipitano, mentre altre rimangono in bilico sui gradini o agganciate alla ringhiera.[68]
Quando le ragazze sono ricoverate in ospedale, circondate dai loro cari, oltre ai giornalisti che cercano qualche scoop, si aggirano anche avvocati senza scrupoli che lasciano il loro biglietto da visita alle probabili clienti, invitandole a fare causa per i danni che hanno subito. Molte sono quindi le persone interessate a speculare sulla disgrazia.
Nelle sequenze all’ospedale, il regista sembra indugiare sui corpi spogliati delle ragazze, ma in questo caso si tratta di corpi feriti, spesso bendati. Anche per Roma ore 11 si parlò di erotismo desantisiano[69], ma la mia impressione è che queste nudità siano state utilizzate dal regista per restituire al meglio il dolore e il malessere di queste giovani. Anche nel momento del crollo, vengono inquadrati i corpi feriti delle ragazze, corpi sfregiati nella loro femminilità.
I familiari dei ricoverati apprendono sconcertati da una suora che all’ospedale si paga sempre una retta giornaliera di duemila lire, oltre che le medicine, mentre solo coloro che hanno l’assicurazione sul lavoro o la carta di povertà sono tutelate.
Nel dopoguerra, l’articolo 32 della Costituzione aveva sancito che «la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività», ma di fatto lo stato non intervenne subito con una legge organica. Se il Testo Unico fascista del 1934 aveva obbligato le amministrazioni provinciali a istituire nel capoluogo il laboratorio di igiene e profilassi a tutela della sanità pubblica, solo con la legge 13 marzo 1958 n.296 veniva costituito il Ministero della Sanità[70].
Il cammino per una sanità davvero pubblica e uniforme si sarebbe concluso nel 1978 con l’Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale[71]. Il 1952, l’anno di edizione del film, segnava però un tappa importante per molte donne nella tutela della loro salute: la deputata Teresa Noce riusciva a fare approvare un disegno di legge che prevedeva per le donne lavoratrici un periodo di tre mesi di riposo retribuito alla nascita di ogni figlio.
Dopo l’incidente, il commissario della polizia si reca sul luogo del crollo e inizia un’inchiesta per accertare le responsabilità interrogando il ragioniere, la sua segretaria, l’architetto, il padrone di casa, la portiera e le ragazze presenti al momento del crollo che non hanno riportato lesioni. Il commissario vuole accertare i fatti e sapere quante ragazze si siano effettivamente presentate nella palazzina della sciagura. Viene interrogato il ragioniere Ferrari che si mette sulla difensiva dicendo: «Vedono?... Che colpa ne ho io se la disoccupazione è cresciuta e se oggi se ne sono presentate più di cento?»[72].
Le ragazze stesse sono interrogate per accertare le responsabilità, Luciana è sopraffatta dalla notizia della morte di Cornelia e riesce solo a balbettare qualcosa davanti al commissario. Luciana si sente in colpa e per un momento si sporge dalla voragine che si è aperta dopo il crollo della rampa di scale. Il marito Nando arriva a soccorrerla, giusto in tempo per scongiurare il tentato suicidio.
Il commissario congeda le ragazze, stanche e provate dalla giornata faticosa, mentre un giornalista chiede ragguagli: «Ma la gente vuole sapere con chi se la deve prendere… Lei non mi può lasciare a mani vuote…».[73] Mentre il giornalista e il commissario escono dalla palazzina, al cancello vedono Gianna che dice «Aspetto il ragioniere… Per via del posto! Ce sarà ancora… forse melo darà!»[74]. Il commissario si rivolge al giornalista commentando «Cercava argomenti per il suo articolo? Eccolo… ci pensi…»[75].
Il film si chiude con l’amara riflessione del commissario e con un primo piano sul volto di Gianna che aspetta infreddolita nel suo cappottino sdrucito. Nella prima sequenza il film si era aperto con una carrellata indietro, partendo dallo stesso primo piano della ragazza che aspettava l’apertura del cancello.
Gli eventi si svolgono nell’arco temporale di un solo giorno, ma in quel giorno scopriamo molto sul vissuto psicologico ed affettivo di queste povere ragazze, il finale è però triste, della tragedia “nessuno” è colpevole, la colpa è nella disoccupazione dilagante.
Questo aspetto del malessere sociale viene reso ricostruendo un quadro veridico della situazione femminile in una grande città, ma il regista, se seguì il filo conduttore di Petri, tralasciò alcuni motivi ricorrenti che scaturivano dalle interviste del giovane giornalista. Per esempio il discorso che Petri faceva sulle borgate della città e sull’imperante speculazione edilizia, nonché sulle ragazze ammaliate dal mondo del cinema: giovani ragazze che sognano di diventare star del cinema, genitori che intravedevano l’occasione di far divenire attrici le loro figlie. Questi aspetti vengono solo accennati.
«De Santis non è De Sica, e, se prese alcune ragazze per ruoli minori, quasi per pagare un pedaggio alla moda neorealista, finì per impostare il film nella maniera opposta, radunando tutto un inventario di attrici, il meglio del giovane divismo del tempo… perché quel che a lui interessava era partire dalla materia dell’inchiesta per costruire il romanzo»[76].
In questo slittamento verso il romanzo deve essere rintracciato il metodo seguito da De Santis. Zavattini, collaborando alla sceneggiatura, sicuramente influì con la sua tecnica del pedinamento, ma De Santis non rinunciò alla sua peculiare cifra stilistica. Ad inizio film, quando le ragazze giungono davanti all’edificio, vengono effettivamente pedinate dalla macchina da presa, ma subito il pedinamento si amplia grazie all’utilizzo di carrellate, panoramiche e movimenti di gru per sottolineare le azioni dei personaggi nell’ambiente. Anche se alla base del film c’è l’inchiesta, di derivazione zavattiniana, di fatto si tratta di un’inchiesta ricostruita secondo il punto di vista del regista[77].
Viene sottilmente condannato quello che è l’accanimento giornalistico nel voler trovare un capro espiatorio a tutti i costi, facendo passare in secondo piano il dramma umano delle vittime e della ragazza deceduta.
Nessuna ragazza esce risolta o rinvigorita da quella drammatica esperienza:
«Non Luciana, salvata in extremis grazie all’intervento del marito da un tentativo di suicidio, non Simona, che torna al suo amore senza futuro, non Angelina, che rientra al paese natio, non Caterina che cerca invano un’uscita dalla prostituzione, non Adriana, che ottiene solo il perdono del padre»[78].
Roma ore 11 è un film sulle donne e le protagoniste costituiscono un vero e proprio coro. Ma a differenza di Riso amaro dove l’esercito di mondine agiva coralmente, quello di Roma ore 11 è un coro di massa composto da tante individualità[79]. Proprio per restituire con efficacia i problemi, le aspirazioni di tante donne e soprattutto le loro cocenti delusioni, De Santis chiamò una serie di attrici, dalle diverse caratteristiche, che grazie agli intrecci amorosi di cui erano protagoniste, contribuivano a dare spessore e sfumature ai personaggi.
Il regista riuscì a costruire un intreccio, che dando vita alle singole vicende delle ragazze e ai loro rapporti con fidanzati e familiari, restituisce uno spaccato della società italiana in un momento di grave disagio sociale.
Una delle chiavi di lettura che può essere data al film, è quella di vedere una denuncia da parte di De Santis della corruzione morale della città e soprattutto della violenza che subisce la donna nella società urbana.
Dopo la cosiddetta “trilogia della terra”[80] (Caccia tragica , Riso amaro, Non c’è pace fra gli ulivi) il regista decide di calare il suo sguardo sul contesto cittadino dove registra, ancora più marcatamente rispetto alla società contadina, una perdita di valori indotta dalla nascente società dei consumi e dal perpetuarsi di sperequazioni sociali.
In questo spostamento dalla terra al contesto urbano, è facile intuire come il regista vedesse la città in una prospettiva negativa, come crollo dei valori sociali autentici e questa caduta è simboleggiata dal cedimento delle scale:
«Nella collettività contadina il male può essere vinto ed estirpato ovvero espulso dal corpo sociale, nella città il male identificato con il potere responsabile della catastrofe, quel potere invisibile che qui appunto ha la sede, opprime indirettamente la scena e distrugge. Contro di esso la solidarietà è ormai impossibile, irrappresentabile, perché la città è il luogo maledetto della frammentazione e della tribalizzazione»[81].
Roma ore 11 è un film sulle donne e sul lavoro inteso come valore. Il film riesce molto bene a mettere in luce come, da un punto di vista sociale, l’emarginazione lavorativa delle donne sia foriera di ansia e mortificazione.
Seguendo i desideri e le pulsioni delle ragazze, stupisce vedere come molte di loro vedano il posto di dattilografa in maniera quasi mitica. Molte giovani sono mosse dal bisogno, dalla necessità, ma per molte il lavoro rappresenta anche un’occasione di autorealizzazione e di socializzazione.
Nel film è già in nuce una cultura del lavoro, del lavoro inteso come diritto e come elemento indispensabile della dignità umana.
Il film di De Santis può essere considerato come una fonte storica nella misura in cui ci restituisce un quadro drammatico della disoccupazione del dopoguerra, una disoccupazione dilagante che era divenuta una vera e propria calamità sociale e che coinvolgeva anche e soprattutto le donne.
Nel dopoguerra, i padri costituenti avevano scritto la Carta costituzionale con un occhio attento soprattutto alla problematica lavorativa. L’articolo con cui si apre la nostra Costituzione recita: «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro».
Nonostante il segno di novità storica e la valenza etica di una Repubblica che auspicava la partecipazione di tutte le classi sociali all’edificazione del bene comune, di fatto molte speranze erano state disilluse già negli anni Cinquanta.
Negli anni in cui Giulio Andreotti era sottosegretario allo Spettacolo, molti registi erano stati censurati perché colpevoli di dare una rappresentazione all’estero delle miserie italiane. In un famoso intervento, Andreotti aveva rimproverato a De Sica di rendere «un pessimo servizio alla patria» per la rappresentazione della miseria che aveva dato dell’Italia in Umberto D[82]. C’è una battuta nel film che mi sembra richiami polemicamente a questa crociata contro i film del neorealismo: quando i genitori di Simona riportano la loro figlia a casa, la madre, infastidita dalle curiosità giornalistiche, commenta: «Ma perché mettere sempre in piazza i nostri stracci, le nostre miserie.. . Gli italiani hanno questo vizio…»[83].
In Roma ore 11 è presente come filo conduttore il problema morale del lavoro e c’è una sorta di atto accusa nei confronti delle istituzioni, colpevoli di non perseguire il giusto modello economico-sociale e responsabili di aver abbandonato gli anelli deboli della catena, ovvero le donne e i giovani.
Inoltre, attraverso la raffigurazione del cinismo dei mass media, che accorrono sul luogo della sciagura solo per lo scoop giornalistico, il film sembra interrogare indirettamente la società e la sua classe politica dirigenziale sull’eticità dei modelli culturali che vengono trasmessi.
Con la sua riflessione sui mass media, media invadenti che penetrano con freddezza nella vita quotidiana delle persone, De Santis anticipa quella spettacolarizzazione della cronaca e quel giornalismo sensazionalistico, tipico della nostra società contemporanea. Un giornalismo che spesso viene accusato di mercificare le tragedie umane.
Molte persone scrissero lettere a De Santis per congratularsi del film e per esprimere gratitudine per la rappresentazione dei problemi delle donne compiuta dal regista. Molte donne si emozionarono e si riconobbero nelle vicende narrate. Fra le numerose lettere conservate nel Fondo De Santis mi ha colpito una lettera[84], datata 11 marzo 1952, che la Commissione Ragazze dell’UDI Nazionale scrisse al regista. Le ragazze ringraziavano pubblicamente il regista per aver mostrato i drammi di tante giovani donne, vedendo nel film un mezzo efficace per far conoscere al pubblico tanti problemi che affliggevano la gioventù. Riconoscevano a De Santis la capacità di aver fatto parlare le aspirazioni giovanili e lo riconoscevano come il loro regista:
«Le ragazze italiane vogliono vivere: non vogliono vedere intristire nella miseria i loro sogni, piccoli o grandi che siano; vogliono un posto nella società per bastare a se stesse, per aiutare le loro famiglie; vogliono trovare nello studio e nel lavoro la strada per la loro elevazione»[85].
Rassegna stampa
Il film fu molto apprezzato dalla critica soprattutto per il messaggio umano e morale che trasmetteva. Tommaso Chiaretti sulle pagine de «l’Unità» definiva Roma ore 11 «un’eccezionale inchiesta di un grande cronista del nostro tempo, che si serve del più completo e immediato mezzo di espressione a disposizione: il cinema»[86].
Franco Valobra riconosceva Roma ore 11 come il film più riuscito di De Santis; il merito del regista risiedeva nell’aver saputo coordinare i personaggi dando ad ognuno il giusto rilievo. Valobra vedeva il pregio maggiore «nel brulicare di quei volti anonimi, che ci passano dinanzi per frazioni di secondo e che restano, tuttavia impressi nella nostra memoria, in quelle donne che un semplice gesto, una frase, una parola, ci svelano nella loro interezza»[87].
Edoardo Bruno pur scorgendo qualche intento polemico nel film, riconosceva il valore di De Santis nell’essere riuscito a far rivivere il dramma intimo di tante giovani ragazze[88].
Guido Aristarco vedeva in Roma ore 11 l’opera della maturità di Giuseppe De Santis ed elogiando il capolavoro del regista, in particolar modo per la ricerca sugli avvenimenti, definiva il film «un teorema non dimostrato per assurdo, tanto rigorosamente e chiaramente[…] l’opera è impostata, sviluppata e conchiusa»[89].
Naturalmente qualche detrattore vedeva nel progetto di De Santis un’opera di aperta propaganda politica. Per esempio, Nino Ghelli scorgeva in Roma ore 11 un eccessivo intendimento polemico ed una pressante tematica programmatica; per questo motivo asseriva che il film dovesse essere giudicato da un economista esperto in disoccupazione o da un ingegnere edile[90]. Addirittura il critico si scagliava anche contro gli stessi attori, colpevoli di aver «strafatto nel modo peggiore»[91].
De Santis riceveva il plauso anche di altri registi: in un’intervista, Luciano Emmer dichiarava di voler seguire, nella realizzazione del suo film, Le ragazze di piazza di Spagna (1952) l’esempio di Roma ore 11 di De Santis, che magistralmente aveva messo in luce l’umanità dei personaggi[92].
In Unione Sovietica il film ebbe un’accoglienza trionfale, come testimoniato dai numerosi ritagli a stampa conservati nel Fondo De Santis[93].
Riporto anche il giudizio del Centro Cattolico di Cinematografia che è piuttosto contraddittorio. In prima istanza si afferma: «malgrado l’impostazione polemica data alla vicenda, il film, condotto con stile rigoroso e sicuro, ha un notevole valore artistico». Poi però se ne sconsiglia la visione dicendo che la vicenda, anche se tratta da un fatto di cronaca, serve ad un’azione di propaganda: «l’impostazione tendenziosa e la presentazione di situazioni delicate impongono ampie riserve»[94].
Al di là di coloro che videro nel film un’operazione di aperta propaganda comunista, è importante dire che i semplici spettatori furono colpiti positivamente dal film ed espressero giudizi entusiasti.
Nel cinema “Dal Verme” di Milano si tenne una proiezione del film organizzata dal “Gruppo Lombardo giornalisti cinematografici”, cui seguì un referendum. Dei 1800 spettatori presenti, il 92% espressero parere favorevole in merito allo spettacolo .[95]
È impossibile riportare i giudizi espressi da tutti, mi limito a pochi commenti:
«Straordinariamente umano» (Natale Callegari, meccanico).
«Per tutte le dattilografe che come me aspettano un posto, ti ringrazio e ti abbraccio» (Ginetta Maffei, dattilografa).
«Film profondamente sociale che rispecchia in ogni particolare il fallimento di una società borghese caduta e superata. Film che tutti gli italiani devono vedere per potersi maggiormente comprendere e amare» (Domenico Cervo, operaio).
«Sono orgogliosa di questo genere di film italiani, umani nella loro realtà. Continuare così vuol dire contribuire al proprio lavoro, alla pace, al progresso, e ciò merita oltre che plauso, riconoscenza»[96].
Il boicottaggio di Roma ore 11
Roma ore 11 ottenne il nulla osta per la proiezione in pubblico (Visto n° 11419) il 18/02/1952, vale a dire lo stesso giorno in cui aveva avuto luogo la seduta della commissione di revisione cinematografica durante la quale era stato esaminato[97].
Il film ebbe un grande successo internazionale e non deve essere tralasciato l’aspetto rilevante che fosse stato prodotto dalla Transcontinental dell’americano Paul Graetz, con la Titanus come produttrice associata. La Transcontinental si era appena costituita in Italia per realizzare lavori di spiccato carattere internazionale e nel film aveva impiegato grossi dispiegamenti di forze, basti pensare che tutti gli ambienti furono ricostruiti negli stabilimenti Titanus alla Farnesina[98].
Nonostante il successo di pubblico e di critica, il film non fu inserito nella selezione dei film che il cinema italiano inviò al Festival di Cannes. De Santis, come testimoniato da un’intervista[99] rilasciata sulle pagine de “l’Unità” a Tommaso Chiaretti, rimase amareggiato e soprattutto sorpreso per l’esclusione, visto che aveva ricevuto tanti elogi da quelle stesse persone che facevano parte della commissione che selezionava i film da inviare a Cannes. Chiaretti insinuava il dubbio che il film di Giuseppe De Santis fosse stato escluso perché toccava argomenti tabù quali la disoccupazione e la miseria:
«Il fatto è che a loro (i critici) personalmente il film è forse piaciuto. Forse si sono commossi nel buio della sala. Ma gratta l’uomo e ci trovi il sottosegretario. C’è la ragion di stato che conta più di ogni altra cosa»[100].
Anche Palmiro Togliatti si scomodò per lanciare un avvertimento a De Santis dicendogli: «In una situazione come quella italiana tu hai osato il massimo coi tuoi film. Adesso riposati un po’ e stai tranquillo!»[101].
Nel Fondo de Santis[102] è conservato un telegramma dell’aprile 1952, che alcuni interpreti del film scrissero all’allora Direttore Generale dello Spettacolo, Nicola De Pirro, protestando in merito ad indiscrezioni riguardanti l’esclusione del film dalla partecipazione al Festival di Cannes. Nel documento si ricordava come il cinema neo-realista italiano si fosse fatto posto nel mondo senza attori professionisti e si sottolineava l’importanza di dare spazio ad un film, che per la prima volta valorizzava una schiera di attori professionisti, pur appartenendo alla categoria neorealista.
Nello stesso fondo è presente una lettera di protesta[103], datata 7 aprile 1952, di Carlo Zaghi, allora direttore del «Giornale», che prendeva posizione contro il divieto della Direzione Cinematografica di presentare il film al Festival di Cannes:
«All’estero si deve credere che l’Italia è un paradiso, che tutti sono felici ed osannati sotto le materne ali della Chiesa e della democrazia cristiana, che la misera e la disoccupazione sono state vinte e tutti i problemi risolti»[104].
Roma ore 11 fu smontato dagli esercenti nonostante incassasse di più di quanto previsto dagli accordi di contratto[105] e fu messo in disparte e non più distribuito nei normali circuiti di diffusione del cinema italiano, molto probabilmente per ordini che provennero dall’alto.
Sessant’anni di un capolavoro e sua attualità sociale
In occasione dei sessant’anni del capolavoro di De Santis, la Cineteca Nazionale e la Mostra d’Arte Cinematografica hanno progettato un evento che ha visto la proiezione del film in pre-apertura del 69° Festival di Venezia[106].
Per l’occasione, il Centro Sperimentale di Cinematografia ha preparato un tour virtualeincentrato sul regista Giuseppe De Santis e sul suo film Roma ore 11.
Inoltre, l’Associazione Giuseppe De Santis ha pubblicato un numero monografico dei «Quaderni», dedicato al film.
Oggi, in cui molte persone vivono momenti di smarrimento e precarietà, per il dilagare della crisi e l’aumento della disoccupazione, Roma ore 11, a distanza di sessant’anni, si presenta in tutta la sua modernità.
Ancora oggi molte donne possono rispecchiarsi in quella stessa condizione di disagio sociale. Il film potrebbe sembrare apparentemente superato, perché legato alla realtà degli anni Cinquanta, ma ad un’analisi attenta tuttora per molte donne il fatto di non avere un’occupazione influisce negativamente sulla possibilità di sostenere spese essenziali, quali cibo o vestiario, sulla possibilità di formarsi una famiglia e sulla possibilità di avere una pensione. Inoltre, come nel film, molte giovani vivono in famiglia perché impossibilitate a rendersi autonome.
Credo che oggi molte donne, soprattutto quelle che si collocano nella zona grigia di lavoro e non lavoro, possano emozionarsi nel rivedere un tale capolavoro di sessant’anni fa.
In un momento di grave precarizzazione del lavoro, in cui donne e giovani vivono il declino dei tradizionali sistemi lavorativi e delle tradizionali strutture sindacali, la visione di Roma ore 11 può rivelarsi particolarmente educativa.
Il messaggio di speranza e di denuncia sociale, filo conduttore del film, può rivelarsi utile per recuperare quell’idea fondante della centralità del lavoro come valore cardine, in grado di costruire identità positive e giuste aspettative sociali.
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Bibliografia
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Camerino Vincenzo (a cura di ), Il cinema di De Santis, collana “Il prisma”, Lecce, Elle Edizioni.
Chiaretti Tommaso, «Roma ore 11, di De Santis», in l’Unità, 2 marzo 1952.
Chiaretti Tommaso,« Perché Roma ore 11 non potrà andare al Festival di Cannes», in l’Unità, 17 aprile 1952.
De Santis Giuseppe, «Vi racconto come andò con Roma ore 11», in Cinema Nuovo, n.282, aprile 1983.
Emmer Luciano, «La gioventù dei miei film è la stessa di Roma ore 11», in Cinema Nuovo, n.7, 15 marzo 1953.
Farassino Alberto, Giuseppe De Santis, Milano, Moizzi Editore, 1978.
Ghelli Nino, «Roma ore 11», in Bianco e Nero n.2, febbraio 1952
Grossi Marco (a cura di), Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis, 2007.
Grossi Marco e Palazzo Virginio (a cura di), Roma ore 11. I 60 anni di un capolavoro , Fondi, “Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis”, n. 6, 2012.
Miccichè Lino (a cura di ), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio Editore, 1975.
Nascimbene Mario, «La musica nasce dai personaggi dei film», in Cinema, 15 luglio 1952.
Parisi Antonio, Il cinema di Giuseppe De Santis, fra passione ed ideologia, Roma, Cadmo Editore,1983.
Valobra Franco, «Roma ore 11», in Rassegna del film n.2, marzo 1952.
Zavattini Cesare, «Roma ore 11», in Epoca, 8 marzo 1952.
Sitografia
Banca dati della revisione cinematografica:
<www.italiataglia.it>, u.c. gennaio 2014.
Fondo Taddei
<http://www.cinetecadibologna.it/biblioteca/patrimonioarchivistico/taddei>,u.c. gennaio 2014.
Su Luciano Emmer:
www.wikipedia.org/wiki/Luciano_Emmer, u.c. gennaio 2014.
Su Basilio Franchina:
<http://www.comingsoon.it/personaggi/?key=39170&n=Basilio-Franchina>, u.c. gennaio 2014.
Su Elio Petri:
<http://www.eliopetri.net/>, u.c. gennaio 2014.
Su Mario Nascimbene:
< http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-nascimbene_(Enciclopedia_del_Cinema)/>
Su Gianni Puccini:
<http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Puccini>, u.c. gennaio 2014.
Su Rodolfo Sonego:
< http://it.wikipedia.org/wiki/Rodolfo_Sonego>, u.c. gennaio 2014.
Su Cesare Zavattini:
www.cesarezavattini.it, u.c. gennaio 2014.
Tour virtuale sul film realizzato dalla Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia e da HQuadro:
<http://virtualtour.fondazionecsc.it/>, u.c. gennaio 2013.
[1] Proprio la drammaticità degli eventi ispirò anche il film Tre storie proibite (1952) di Augusto Genina. Nel film di Genina il crollo delle scale è solo un pretesto per raccontare tre singole storie.
[2] Cfr. l’articolo «E’ morta una delle ragazze ferite nel crollo in v. Savoia», in L’Unità, 16 gennaio 1951.
[3] Giuseppe De Santis (Fondi, 11 febbraio 1917- Roma 16 maggio 1997) è stato uno sceneggiatore e regista italiano, considerato uno dei padri del neorealismo. Per una sua biografia cfr. Stefano Masi, Giuseppe De Santis, Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1981.
[4] Elio Petri (Roma, 29 gennaio 1929-Roma, 10 novembre 1982) è stato un regista italiano. Cfr. sito ufficiale http://www.eliopetri.net/, u.c. gennaio 2014.
[5] Copia dattiloscritta (233 cc.) dell’inchiesta condotta da Petri, fra il 1951 e il 1952, è conservata presso la Biblioteca Chiarini di Roma (Fondo de Santis, collocazione SCENEG 00 09817).
[6] Gianni Puccini (Torino, 22 giugno 1914- Roma, 3 dicembre 1968) è stato un regista cinematografico, direttore della rivista “Cinema”. Cfr. <http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Puccini>, u.c. gennaio 2014.
[7] Basilio Franchina (Palermo, 31 gennaio 1914- Roma, 17 dicembre 2003) è stato uno sceneggiatore e produttore italiano. Cfr.<http://www.comingsoon.it/personaggi/?key=39170&n=Basilio-Franchina>, u.c. gennaio 2014.
[8] Rodolfo Sonego (Cavarzano, 27 febbraio 1921- Roma, 15 ottobre 2000) è stato uno sceneggiatore italiano. Per la sua biografia cfr.< http://it.wikipedia.org/wiki/Rodolfo_Sonego>, u.c. gennaio 2014.
[9] Cfr. Giuseppe De Santis, «Vi racconto come andò con Roma ore 11», in Cinema Nuovo, n.282, aprile 1983.
[10] Cesare Zavattini (Luzzara, 20 settembre 1902- Roma, 13 ottobre 1989) è stato un narratore, sceneggiatore cinematografico italiano, nonché poeta e pittore. Per scoprire la biografia di questa personalità poliedrica si consiglia di visionare il sito Internet a lui dedicato http://www.cesarezavattini.it, u.c. gennaio 2014.
Zavattini aveva iniziato il suo rapporto con De Santis in Caccia tragica (1947) e proseguì tale collaborazione con Un marito per Anna Zaccheo (1953).
[11] Cfr. Elio Petri, Roma ore 11, Palermo, Sellerio, 2004, p.12.
[12] Cfr. Cesare Zavattini, «Roma ore 11», in Epoca, 8 marzo 1952.
[13] Cfr. Elio Petri, Roma ore 11,Palermo, Sellerio, 2004, p.30.
[14] Cfr. l’articolo «Tre drammatiche visioni del sinistro di via Savoia», in L’Unità (cronaca di Roma), 16 gennaio 1951.
[15] Come verrà meglio specificato in seguito.
[16] Cfr. Elio Petri, op. cit., p.58.
[17] Ibidem.
[18] Ibid., pp. 90-91.
[19] Ibid., p.107.
[20] Ibid., p.119.
[21] Cfr. Elio Petri, Roma ore 11, Milano, Edizioni Avanti!Il Gallo, 1952, p.14. L’inchiesta di Elio Petri fu pubblicata per la prima volta nel 1956 con una prefazione di Cesare Zavattini e di Giuseppe De Santis. Nel 2004, la Sellerio ha curato una nuova riedizione dell’inchiesta originale, che riporta la prefazione di De Santis, omettendo quella di Zavattini. La recente riedizione aggiunge in appendice uno scritto di Antonio Ghirelli, Un artista moderno, e uno di Carlo Lizzani, Nel laboratorio del postmoderno.
[22] Nel 1990, grazie a una convenzione tra la Regione Emilia-Romagna, gli eredi dello sceneggiatore e il Comune di Reggio Emilia, la Biblioteca Panizzi ha potuto acquisire l’Archivio Cesare Zavattini. Cesare Zavattini non fu solo sceneggiatore, ma anche scrittore, giornalista, pittore e la sua straordinaria vena creativa si riflette nell’archivio che conserva svariata documentazione quale per esempio soggetti, sceneggiature, lettere, diari, poesie e molti altri materiali. Tutti i materiali appartenenti agli epistolari e i soggetti cinematografici sono stati inventariati e collocati in una sala della torre libraria, intitolata allo scrittore. Ma data la rilevanza del materiale zavattiniano, gran parte della documentazione archivistica è stata invece collocata in un ampio spazio nel seminterrato adiacente la sala telematica, più facilmente accessibile alla consultazione. L’archivio è costituito da un fondo principale composto da numerose serie archivistiche, strutturate per argomenti: le serie “Cinema”, “Le lettere e i carteggi”, “Letteratura”, “Poesia e teatro”, “Giornalismo e Pubblicistica”, “Pittura”, “Cultura e società”, “Cooperazione culturale”, “Zavattini all’estero”, “Fumetti”, “Fotografia” e “Radio e Televisione”. All’interno di questo nucleo centrale per la loro vastità si segnalano i tre fondi speciali (o sub-fondi) monotematici:l’Epistolario, la Raccolta dei lavori cinematografici e la cosiddetta Raccolta degli “Echi della stampa”, un insieme di articoli di giornali e riviste di e su “Za” dagli anni Trenta ad oggi.
L’archivio oltre che cartaceo è multimediale grazie alla corposa sezione di documenti “audio e video” riconducibile all’opera zavattiniana. Fa idealmente parte dell’Archivio anche una collezione di dipinti collocata presso i locali Musei civici, che illustra il percorso pittorico di Zavattini. L’Archivio si consulta previa prenotazione. (Per informazioni sull’archivio e sull’enorme lascito culturale di Cesare Zavattini cfr. il sito Biblioteca Panizzi www.panizzi.comune/re.it).
[23] Il Fondo De Santis è stato acquisito nel corso dell’anno 2000. E’ un’ingente e composita raccolta a carattere bibliografico, archivistico e iconografico. La sezione fotografica, custodita presso la Fototeca della Cineteca Nazionale, comprende circa trecento foto di scena, foto di set e scatti effettuati durante i viaggi e i sopralluoghi relativi ai progetti cinematografici del regista. La sezione cartacea del fondo è invece conservata presso la Biblioteca: un nucleo importante di tale sezione è costituito dalle sceneggiature, dai soggetti e dai trattamenti originali (n. 180 pezzi) riconducibili alla carriera registica di De Santis, ai film realizzati, ma anche a sogni cinematografici e televisivi che non riuscì a portare a conclusione. Fra questi ultimi sono da segnalare Pettotondo, Agnese lungo il mare, Ovidio: l’arte di amare, Portella delle ginestre e I fatti di Andria: la gran parte di tale materiale si presenta nella forma del dattiloscritto o del manoscritto con note autografe successive alla prima stesura. Un nucleo altrettanto consistente e in gran parte inedito del Fondo è costituito dalla copiosa “corrispondenza privata” intrattenuta dal regista a partire dal 1936 (n. 9 faldoni). Si tratta di lettere, telegrammi, cartoline, biglietti di amici, registi e attori (Pietro Germi, Carlo Lizzani, Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni, Raf Vallone, Yves Montand), di collaboratori (Mario Serandrei, Tonino Guerra, Carlo Bernari, Ennio De Concini) e soprattutto di numerosi intellettuali italiani e stranieri (Guido Aristarco, Antonello Trombadori, Cesare Zavattini, Bertolt Brecht, Jorge Amado, Georges Sadoul, Joris Ivens, Henri Langlois e molti altri). Alla raccolta della corrispondenza privata, si aggiunge la serie “Documentazione cinematografica” (5 faldoni), che comprende numerosissimi fascicoli di riviste, ritagli stampa e recensioni. E’ infine presente una terza serie, denominata “Manoscritti edattiloscritti” (5 faldoni), che comprende materiale riconducibile alla variegata attività intellettuale del regista, che fu anche giornalista, scrittore, poeta e docente (insegnò tra il 1983 e il 1987 al CSC): sono raccolti racconti,versi, scritti embrionali per opere letterarie e cinematografiche, appunti di lezioni e relazioni tenuti in convegni e giornate di studio.
La Biblioteca Chiarini è aperta al pubblico tutti i giorni dal lunedì al venerdì e non è necessaria alcuna prenotazione per l’accesso. La Fototeca invece si consulta su prenotazione. Solo la consultazione di alcuni materiali, vedi soggetti e sceneggiature, deve essere preventivamente autorizzata dalla Direzione. La storia del Fondo è stata ricostruita grazie al contributo della Dott.ssa Laura Ceccarelli, responsabile dell’Ufficio gestione Fondi, materiali archivistici e collezioni speciali della Biblioteca Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia, che ringrazio per la disponibilità.
[24] Cfr. soggetto di 31 cc. conservato dalla Biblioteca Chiarini (Fondo De Santis, collocazione SCENEG 00 09742): nell’ultima carta compare la nota scritta “attenzione, Cesare Zavattini non era ancora stato chiamato alla sceneggiatura”. La biblioteca conserva anche un trattamento di circa 125 cc. (Fondo De Santis, collocazione SCENEG 00 09761) che in copertina riporta il nome di Rodolfo Sonego. Da notare che anche se si tratta di documentazione archivistica, i faldoni del Fondo De Santis non sono ordinati seguendo un metodo archivistico, ma criteri di tipo bibliografico.
[25] Cfr. Fondo de Santis, Archivio Giuseppe De Santis: manoscritti e dattiloscritti (collocazione 2 11 007 06) presso Biblioteca Chiarini di Roma.
[26] Giuseppe De Santis, «Vi racconto come andò con Roma ore 11», in Cinema Nuovo, n.282, aprile 1983.
[27] Le seguenti immagini sono state gentilmente concesse dalla Cineteca di Bologna, non avendo rintracciato alcun repertorio che riporti la lista delle sequenze di Roma ore 11, descrivo i fotogrammi con semplici didascalie illustrative.
[28] Allo scenografo Léon Barsacq si doveva l’atmosfera di grandi film francesi in costume come Les enfants du Paradis (1945 diretto da Marcel Carné). Su questo aspetto cfr. Adriano Aprà , «Il cerchio e la linea», in Roma ore 11. I 60 anni di un capolavoro, a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzo, Fondi, «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», n.6, 2012, pp. 33-36. Le riprese si svolsero in studio nei teatri della Farnesina; nella seconda parte del film De Santis abbandonò lo studio per riprendere dal vero alcuni aspetti della periferia romana. La scelta antinaturalistica di ricostruire il set in studio fu oggetto dell’intervento del critico Corrado Alvaro, cfr. Corrado Alvaro, «Più che neorealismo», in Il Mondo, 15 marzo 1952.
[29] Gianna è interpretata da Eva Vanicek.
[30] La madre della ragazza è interpretata da Paola Borboni.
[32] Adriana è interpretata da Elena Varzi.
[33] Interpretato da Checco Durante.
[34] Per la sceneggiatura, cfr. sceneggiatura di 248cc., conservata presso Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, Archivio Cesare Zavattini, Serie Cinema, segnatura Za Sog R46/3-47/3, c.188.
[35] Ibid., c.189.
[36] Cfr. Fondo de Santis, Archivio Giuseppe De Santis: manoscritti e dattiloscritti (collocazione 2 11 007 06, seduta del 10 agosto 1951, p.2) presso Biblioteca Chiarini di Roma.
[37] Sulla storia della violenza sessuale in Italia si veda Antonio Pecoraro Albani, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, Napoli, Jovene, 1997.
[38] Lucia Bosè, dopo essere stata scelta da De Santis come protagonista femminile del film Non c’è pace fra gli ulivi (1950), fu nuovamente chiamata dal regista per interpretare la ragazza borghese della storia di Roma ore 11.
[39] Interpretato da Raf Vallone.
[40] Sceneggiatura, cit., c.26.
[41] Sceneggiatura, cit., c.156.
[42] La prostituta è interpretata da Lea Padovani.
[43] Sceneggiatura, cit., c.20.
[44] Questa sottolineatura della caducità dei mass media riprende una battuta di uno dei più famosi newspapers movies, Ace in the Hole (1951) di Billy Wilder. In un dialogo del film, i giornali, che un giorno prima sembrano essere importanti, il giorno dopo sono utilizzati per avvolgere le patate. Su questo aspetto cfr. Marco Grossi (a cura di), Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis, 2007, p. 80.
[45] Sul dibattito tutt’altro sopito che si sviluppò intorno alla legge Merlin si veda Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Bologna, Carocci, 2006.
[46] Interpretato da Massimo Girotti.
[47] Sceneggiatura cit. c.235. Nel film, rispetto alla sceneggiatura Nando aggiunge: «Ve ne tornate a casa tranquilli e domani non ci pensa più nessuno».
[48] Ibid., c.231.
[49] Ibid., c.64.
[50] Ibid., cc.127-128.
[51] Interpretata da Irene Galter.
[52] Interpretato da Paolo Stoppa.
[53] Emulando Rita Hayworth di Gilda (1946) di Charles Vidor.
[54] Cfr. Alberto Farassino, Giuseppe De Santis , Milano, Moizzi Editore, 1978, p. 57.
[55] Mario Nascimbene, La musica nasce dai personaggi dei film, in “Cinema”, n.90, 15 luglio 1952.
[56] Sulla colonna sonora di Roma ore 11 cfr. Luca Bandirali , «Concerto per quattro macchine da scrivere e orchestra. Nascimbene incontra il Neorealismo», in Marco Grossi, op. cit., pp.
[57] Mario Nascimbene (Milano, 28 novembre 1913-Roma, 6 gennaio 2002) è stato un compositore cinematografico e direttore d’orchestra. Cfr. < http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-nascimbene_(Enciclopedia_del_Cinema)/>, u.c. gennaio 2014.
[58] Luca Bandirali, op. cit., p. 46.
[59] Sceneggiatura, cit.,c.161.
[60] Interpretato da Alberto Farnese.
[61] In sceneggiatura la figlia doveva essere operata di appendicite, cfr. sceneggiatura, cit., c.143.
[62] Interpretata da una giovanissima Delia Scala.
[63] Interpretato da Armando Francioli.
[64] Ibid., c.53.
[65] Ibid., c.181
[66] Ibid., c.55.
[67] Antonio Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis fra passione ed ideologia, Roma,Cadmo Editore, 1983, p.118.
[68] Sulla geometrizzazione dello spazio ricercata da De Santis grazie ai movimenti di macchina cfr. l’intervista di Adriano Aprà negli extra “Speciale Roma ore 11 la riscoperta di un capolavoro” nel dvd Roma ore 11, Rai Cinema, 2012.
[69] Alberto Farassino, op. cit., p.65.
[70] Sulla storia della sanità in Italia scarsa è la letteratura in merito, in particolar modo sulla sanità in epoca fascista cfr. Franco Silvano, Legislazione e politica sanitaria del fascismo, Roma, Apes, 2001.
[71] Sul lungo cammino che ha portato all’istituzione del SSN cfr. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Roma, Laterza, 1994.
[72] Sceneggiatura, cit., c. 221.
[73] Ibid., c.238.
[74] Ibidem.
[75] Ibid., c.239.
[76] Alberto Farassino, Giuseppe De Santis, Milano, Moizzi Editore, 1978, p.33.
[77] Antonio Parisi, op. cit., pp.59-60.
[78]Marco Grossi (a cura di), Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis, 2007, pp.78-79.
[79] Stefano Masi, Giuseppe De Santis, Collana “Il castoro Cinema”, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p.62.
[80] Definizione adottata da Lino Miccichè nel suo saggio De Santis e la “Trilogia della terra” in Il cinema di Giuseppe De Santis, a cura di Vincenzo Camerino, collana “Il Prisma”, Lecce,Elle Edizioni, 1982.
[81] Il neorealismo cinematografico italiano (a cura di Lino Miccichè), Venezia, Marsilio Editori, 1975, p.314.
[82] Cfr. Paolo Russo, Breve storia del Cinema italiano,Torino,Lindau, 2002 pp. 132-133.
[83] Sceneggiatura, cit., c.199.
[84] Cfr. Biblioteca Chiarini, Fondo De Santis, Archivio De Santis: corrispondenza, (busta 19), collocazione 2 11009 04.
[85] Ibid.
[86] Tommaso Chiaretti, «Roma ore 11, di De Santis», in l’Unità, 2 marzo 1952.
[87] Franco Valobra, «Roma ore 11» in Rassegna del film n.2, marzo 1952.
[88] Edoardo Bruno, «Roma ore 11»in Filmcritica, n. 13, marzo-aprile 1952.
[89] Guido Aristarco, «Film di questi giorni. Roma ore 11», in Cinema n. 82, 15 marzo 1952.
[90] Cfr. Nino Ghelli, «Roma ore 11», in Bianco e Nero n.2, febbraio 1952.
[91] Ibid.
[92] Luciano Emmer, «La gioventù dei miei film è la stessa di Roma ore 11», in Cinema Nuovo, n.7, 15 marzo 1953. Luciano Emmer (Milano, 19 gennaio 1918- Roma, 16 settembre 2009) è stato un regista italiano, autore di numerosi documentari relativi alla storia dell’arte.
Sulla sua attività cfr. www.wikipedia.org/wiki/Luciano_Emmer>, u.c. gennaio 2014.
[93] Cfr. Biblioteca Chiarini, Fondo De Santis, Archivio De Santis: corrispondenza, collocazione 2 11009 04.
[94] Cfr. Fondo Taddei conservato presso la Cineteca di Bologna. Il Fondo di Padre Nazareno Taddei è una delle collezioni di documentazione cinematografica più ricche in Italia. Padre Nazareno Taddei ( Bardi 1920- Sarzana 2006) nel corso della sua attività di studioso e regista ha raccolto un giacimento di informazioni su carta stampata sulla storia del cinema e dello spettacolo dagli anni Trenta agli anni Settanta. (Il Fondo è composto da uno schedario di circa 40000 voci). Sull’Archivio di Padre Nazareno Taddei cfr. <http://www.cinetecadibologna.it/biblioteca/patrimonioarchivistico/taddei>, u.c. gennaio 2014.
[95] «Un referendum su Roma ore 11», in Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica, V, n.88, 15 giugno 1952.
[96] Ibid.
[97] Cfr. Italia Taglia, progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia,
promosso da MiBAC (DGC) e Fondazione Cineteca di Bologna, www.italiataglia.it , u. c. gennaio 2014.
[98] Sulla produzione del film cfr. Roma ore 11, I 60 anni di un capolavoro, a cura di Marco Grossi e Virginio Palazzo, op.cit.
[99]Tommaso Chiaretti, «Perché Roma ore 11 non potrà andare al Festival di Cannes», in l’Unità, 17 aprile 1952.
[100] Ibid. Nel suo articolo Tommaso Chiaretti citava un intervento firmato dal monarchico Alberto Consiglio apparso sul Il Tempo. In questo articolo si accusava il governo di aver finanziato un film che serviva alla campagna sovietica in Italia.
[101] Cfr, intervista di Stefano Masi a Giuseppe De Santis, in Stefano Masi, op. cit., p.13.
[102] Cfr. Biblioteca Chiarini, Fondo De Santis, Archivio De Santis: corrispondenza, (busta 23),collocazione 2 11009 04.
[103] Cfr. Biblioteca Chiarini, Fondo De Santis, Archivio De Santis: corrispondenza, (busta 18),collocazione 2 11009 04.
[104] Ibid.
[105] Nel 1952 il film incassò 270.000.000 milioni di lire.
[106] La Cineteca Nazionale ha provveduto alla ristampa di una nuova copia del film ricorrendo ai pochi positivi esistenti.