Domenica, 08 Settembre 2013

L’impiego di documenti d’archivio nei romanzi di Walter Scott: alcuni esempi scozzesi

Simone Signaroli
Sezione Studi

Quando un autore è noto per la produzione di romanzi ambientati nel passato, vicino o remoto, è chiaro che tracce di documentazione storica, nelle sue opere, si dovranno per forza trovare. E quando l’autore è Sir Walter Scott (1771-1832), ricordato addirittura come l’inventore del romanzo storico, nonché giurista per formazione e carriera, l’inserzione nelle trame di documenti d’archivio, veri o simulati, è del tutto naturale[1]. E si trasforma di volta in volta, grazie all’ingegno del vero romanziere, in esempi di altissima arte narrativa. Per esempio, l’introduzione a Rob Roy (pubblicato per la prima volta nel 1817) è un piccolo trattato sulla storia del clan MacGregor, basato su documenti, carteggi, gazzette e volumi a stampa, e offre una cornice perfetta all’intreccio avventuroso che segue.

Sia chiaro fin dall’inizio: non voglio con queste righe tracciare uno studio rigoroso; piuttosto desidero mettere per iscritto qualche suggestione raccolta nelle letture di un dilettante. Spero con ciò di contribuire a divulgare gli scritti di un narratore, che fu grande e influente come altri pochi, in una lingua, quella italiana, nella quale è oggi forse poco conosciuto.

Compiendo un percorso a ritroso, dal romanzo più recente al più remoto, sceglierò pochi esempi significativi d’ambientazione scozzese, iniziando con La sposa di Lammermoor per giungere al primo romanzo, Waverley, passando per Old Mortality e The Antiquary.

The Bride of Lammermoor (1819)

Il romanzo è celebre, in Italia, per un adattamento teatrale derivatone da Salvatore Cammarano, che fornì il libretto per l’opera musicale di Gaetano Donizetti Lucia di Lammermoor. Il testo di Scott è un lavoro a buon diritto famoso, nel quale il tono cupo, a tratti rassegnato al fatale scorrere degli eventi, si alterna alle eroicomiche imprese di un vecchio maggiordomo, Caleb Balderstone, che è l’anima nascosta dell’intero romanzo, personaggio capace di suscitare nel lettore un sorriso misto alla più delicata e profonda commozione.

Le gesta di Caleb s’intrecciano con la tormentata vicenda dei giovani sposi promessi, Lucy Ashton ed Edgar Ravenswood, collocata agli inizi del XVIII secolo e modellata su fatti reali, che avevano avuto come protagonista una giovane Scozzese dell’Ovest, Janet Dalrymple, e che erano giunti all’orecchio di Scott da ragazzo, grazie a racconti orali che si tramandavano in famiglia. 

Il culmine della tensione narrativa si raggiunge nel capitolo 32, quando l’azione romanzesca porta una Lucy spaventata, esausta, scossa fin nell’intimo, a confermare il patto di matrimonio, sottoscrivendo un contratto.

La descrizione delle firme apposte dall’eroina, compiuta con attenzione quasi diplomatistica, serve a conferire con rapidità fulminea un permanente sapore di realtà all’episodio, vero punto di partenza per il concitato, inarrestabile finale. Scott (che si finge l’oscuro narratore Peter Pattieson) conclude così l’episodio:

«Io stesso ho visto l’atto fatale: nei nitidi caratteri, con i quali il nome di Lucy Ashton è tracciato su ogni pagina, affiora solo una leggerissima e tremula irregolarità, rivelatrice del suo stato d’animo nel momento della sottoscrizione. Ma l’ultima firma è incompleta, mutila e macchiata; perché, mentre la sua mano era intenta a scrivere, si udì alla porta l’improvviso galoppo di un cavallo, seguito da passi veloci nella galleria esterna, e da una voce che in tono perentorio ammutolì la restistenza dei domestici. La penna cadde dalle dita di Lucy, mentre ella esclamava, con un grido sordo, “È arrivato... è arrivato!”»[2].

The Tale of Old Mortality (1816)

Il romanzo di Old Mortality è ambientato durante le crude guerre che opposero il re Carlo II (1630-1685) e i Covenanters scozzesi, un gruppo di protestanti radicali che propugnava, dal punto di vista politico, la sottoscrizione di un contratto vincolante tra il popolo e il monarca di fronte a Dio, il National Covenant, al fine di difendere le peculiarità della chiesa presbiteriana di Scozia[3]. Come la politica nazionale, nella prospettiva dei “puritani di Scozia”, era determinata da questo documento, così una pergamena ha un ruolo preminente nello sviluppo narrativo dell’opera di Scott.

Il feroce e carismatico John Burley di Balfour, fanatico covenanter, è alla guida di una rivolta nell’ovest del paese, diretta alla città di Glasgow nel 1679. Dopo avere espugnato il castello di Tillietudlem, nella confusione del momento, egli sottrae una pergamena all’archivio della famiglia reggente, schierata apertamente con le forze leali al re. La pergamena, privilegio che sancisce il diritto al dominio sulle terre del castello, gli tornerà utile molti capitoli dopo, quando si troverà a duellare per difendere la propria vita, minacciando di bruciare il documento e portare alla rovina i suoi avversari[4].

The Antiquary (1816)

Nel più pacato personaggio dell’Antiquario, che dà il titolo al romanzo, Scott proiettava qualcosa di se stesso. Jonathan Oldbuck, appassionato collezionista di libri e anticaglie, studioso dei rapporti tra Roma e l’antica Caledonia, è un gentiluomo di antico garbo e sottile ironia, proprietario della residenza di Monkbarns, fondata dall’antica e immaginaria abbazia di Trotcosey; parallelamente, Scott abitava nei dintorni di Melrose, in un castello neogotico da lui stesso voluto e progettato, Abbotsford. La finzione s’intrecciò a tal punto con la realtà che Scott compilò, nell’ultimo scorcio della sua vita, un catalogo delle antichità da lui collezionate, fingendo di essere l’Antiquario del vecchio romanzo: e infatti il volume fu intitolato Reliquiae Trotcosienses, le antichità dell’abbazia di Trotcosey[5].

Nelle pieghe del romanzo non poteva quindi mancare un immaginario documento, celato nel cassetto di uno stipo, a lungo dimenticato in un appartamento di Monkbarns: addirittura «l’atto di erezione dell’Abbazia di Trotcosey (compresi i possedimenti di Monkbarns e altri) in signoria con privilegio regale, in favore del primo conte di Glengibber, uno dei favoriti di Giacomo Sesto». La presentazione dell’atto, che introduce a un gustoso episodio di genere gotico, è conclusa dallo stesso Antiquario in modo breve quanto preciso: «Riporta la sottoscrizione del re, a Westminster, il 17 gennaio 1612-13. Non è opportuno ricordare ora i nomi di tutti i testimoni»[6].

Waverley (1814)

Giungiamo con Waverley all’esordio romanzesco di Scott, fino ad allora famoso per i suoi poemetti narrativi. Uno dei personaggi capitali del volume è Cosmo Comyne Bradwardine, Barone di Bradwardine, eccentrico signore delle Terre Basse. Lettore di classici, è legato indissolubilmente all’autorità tradizionale che deriva alle famiglie e alle comunità dagli antichi privilegi, fino al più rigido (e irresistibile) dei formalismi.

Sostenitore del diritto al regno degli Stuart contro la dinastia tedesca degli Hannover, che si è insediata a Londra, egli appoggia il tentativo di Carlo Edoardo Stuart (1720-1788) di rovesciare la situazione presente, che vede la sua famiglia in esilio a Roma (1745)[7]. Il Principe guida una rivolta dei clan contro il potere inglese, contestando la validità del trattato che aveva congiunto Scozia e Inghilterra nel Regno Unito (Acts of Union, 1707) e cercando di reinsediare il padre con il nome di Giacomo VIII di Scozia.

Dopo le prime battaglie vittoriose degli highlanders, il Barone vuole ripristinare un antico omaggio feudale, che i membri della sua famiglia hanno il diritto di porgere al re fin dai tempi di Robert Bruce (re di Scozia dal 1306 al 1329). È così introdotto il mitico privilegio dei Bradwardine, che per la sua età dev’essere avvicinato nientemeno che alla celebre Declaration of Arbroath, indirizzata al papa Giovanni XXII per communitatem Scocie, atto fondativo dell’indipendenza e autonomia scozzese[8].

Il privilegio dei Bradwardine è di tenore più modesto ma, agli occhi del Barone, non meno importante. Eccone la rubrica, introdotta dal personaggio di Scott: pro servitio detrahendi, seu exuendi, caligas regis post battalliam, per il servizio di estrarre o levare i calzari del re dopo la battaglia[9]. Dal punto di vista formale, il testo porta al Barone alcuni dubbi di difficile soluzione. Il primo: «se questo servizio, ovvero omaggio feudale, sia per forza dovuto alla persona del Principe, essendo le parole del privilegio per expressum “caligas regis”, gli stivali del re in persona». Il dilemma è dovuto naturalmente al fatto che in Scozia si trova il figlio del pretendente al trono Carlo Edoardo, ma non il padre. Il problema è risolto sostenendo che Carlo Edoardo ha il diritto di ricevere l’omaggio dei vassali «come alter ego del Principe pretendente, in ruolo di reggente».

La seconda difficoltà è ben più spinosa. «Il Principe non calza stivali, ma scarpe con i lacci e pantaloni». Il Barone, fortunatamente, trova sempre una soluzione, e argomenta che «la parola caligae, sebbene io debba ammettere che, per tradizione di famiglia e nelle più antiche evidenze documentarie, è tradotta come stivali, significa piuttoso, nel suo senso originario, sandali; […] e le caligae erano proprie anche degli ordini monastici, perché leggo in un antico glossario riguardante la regola di san Benedetto nell’abbazia di Saint Amand che le caligae erano chiuse con lacci annodati»[10].

Risolte le opposizioni che potevano essere mosse al privilegio, il Barone riesce a compiere il desiderato atto d’omaggio al proprio signore. Il resoconto della cerimonia è riportato da un’immaginaria  gazzetta, che conduce il contenuto del privilegio all’estrema parodia di un atto feudale.

«Dopo il fatale trattato che annientò la Scozia come nazione indipendente, non abbiamo più avuto la gioia di vedere i suoi principi ricevere, e i suoi nobili offrire, quegli atti d’omaggio feudale che, fondati sulle celebri gesta del valore scozzese, richiamano alla memoria la sua antica storia, con la schiettezza virile e cavalleresca dei legami che univano alla corona l’omaggio dei guerrieri dai quali essa era costantemente sostenuta e difesa. Dopo che la corte ebbe formato un circolo, Cosmo Comyne Bradwardine, di quella stirpe, colonnello in servizio etc. etc. etc. giunse di fronte al Principe, assistito dal signor D. Macwheeble, magistrato dell’antica baronia di Bradwardine (il quale, sappiamo, è stato in seguito nominato commissario), e, in forma di atto ufficiale, chiese il permesso di offrire alla persona di Sua Altezza Reale, come rappresentante di suo padre, il servizio anticamente in uso, per il quale, secondo un privilegio di Robert Bruce (di cui fu prodotto l’originale, esaminato dal cancelliere di Sua Altezza Reale per il tempo in essere), il richiedente era in possesso della baronia di Bradwardine e delle terre di Tully-Veolan. Ammessa e registrata la sua richiesta, Sua Altezza Reale poggiò il piede sopra un cuscino e il Barone di Bradwardine, chino sul proprio ginocchio destro, procedette nell’operazione di sciogliere il laccio della scarpa (una scarpa bassa degli Highlands detta brogue, che il nostro eroico cavaliere indossa in onore dei suoi valorosi sostenitori). Quando ciò fu compiuto, Sua Altezza Reale dichiarò conclusa la cerimonia e, abbracciando il cavalleresco veterano, protestò che nulla, se non l’obbedienza a un ordine di Robert Bruce, avrebbe potuto indurlo a ricevere anche solo il gesto simbolico di un ufficio servile da mani che avevano combattuto tanto valorosamente per porre la corona sulla testa di suo padre. Il Barone di Bradwardine allora consegnò il procedimento nelle mani del signor commissario Macwheeble, il quale affermò che tutti i punti e le formalità dell’atto d’omaggio erano stati rite et solenniter acta et peracta, e una conseguente registrazione fu inserita nel protocollo del Lord Ciambellano e nei registri della cancelleria. Sappiamo inoltre che è intenzione di Sua Altezza Reale, se il volere di sua maestà può essere noto, d’innalzare il colonnello Bradwardine al rango di Pari, con il titolo di Visconte Bradwardine di Bradwardine e Tully-Veolan e che, nel frattempo, Sua Altezza Reale, in nome e con l’autorità di suo padre, si è compiaciuta di concedergli un onorevole incremento per lo stemma di famiglia, consistente in un tirastivali, o calzascarpe, incrociato con una spada sguainata, da collocare nella parte destra dello scudo; e, come motto aggiuntivo in un cartiglio al di sotto, Draw and draw off, calzare e scalzare»[11].

Ho definito questo resoconto la parodia di un atto feudale, compiuta abilmente da un maestro della narrazione. In tutta onestà, ignoro se esista un documento simile, e un simile cerimoniale, a nord del fiume Tweed: potrei essere felicemente smentito dalla realtà degli archivi[12].

 



[1] Il miglior punto di partenza per conoscere e approfondire la vita e le opere di Walter Scott, con un’attenta bibliografia aggiornata, è oggi The Walter Scott Digital Archive, ed. by P. Barnaby, Edinburgh University Library <http://www.walterscott.lib.ed.ac.uk/>.

[2] The Bride of Lammermoor, ch. XXXII. È interessante notare che, sulla spinta di questa pagina, nel corso del XIX secolo si cercò il reale contratto sottoscritto da Janet Dalrymple, la cui eco raggiunse addirittura una gazzetta australiana: The Marriage Contract of the Bride of Lammermoor, «The Mercury», 2 october 1871, p. 4.

[3] L’ambientazione generale del romanzo è alla base di un’altra opera lirica dell’Ottocento italiano, I Puritani, di Vincenzo Bellini.

[4] The Tale of Old mortality, ch. XXII.

[5] Meritoriamente pubblicato come Reliquiae Trotcosienses, or, The Gabions of the Late Jonathan Oldbuck Esq. of Monkbarns, ed. by G. Carruthers and A. Lumsden, Edinburgh 2004.

[6] The Antiquary, ch. VIII.

[7] La casa Stuart, inizialmente erede della sola corona di Scozia, acquisì il trono d’Inghilterra dopo la morte di Elisabetta I, che non ebbe eredi. In quel momento Giacomo Stuart, figlio di Maria e sesto re di quel nome in Scozia, divenne anche Giacomo I d’Inghilterra. La dinastia mantenne le due corone nel corso del XVII secolo, se si eccettua la parentesi repubblicana di Cromwell, ma sul finire del secolo il parlamento di Westminster appoggiò l’ingresso a Londra di Guglielmo d’Orange, che si fece garante, fra le altre clausole, anche della difesa del protestantesimo sull’isola. In quel momento (1688), il re legittimo Giacomo II fuggì in Francia. All’inizio del nuovo secolo la corona passò ai tedeschi Hannover in base a un atto parlamentare che escludeva gli Stuart dalla successione. Questi, nel frattempo trasferitisi Roma, continuarono a lavorare con la diplomazia e le armi nel tentativo di reinsediarsi sui troni perduti, avendo per sostenitori in Gran Bretagna soprattutto gli highlanders scozzesi, per lo più cattolici. Una curiosità: Carlo Edoardo, nipote di Giacomo II, è conosciuto tuttora in Scozia con l’appellativo affettuoso di Bonnie Prince Charlie; ma essendo nato a Roma il nome familiare, con il quale suo padre Giacomo lo chiamava, era Carluccio.

[8] Pubblicata da J. Fergusson, The Declaration of Arbroath 1320, Edinburgh 1970. Si veda anche la pagina dedicata al documento da The National Archives of Scotland: <http://www.nas.gov.uk/about/090401.asp>.

[9] Si noti che Scott impiega il termine non classico battalliam  in luogo di proelium, per connotare la lingua del documento secondo gli usi propri del XIV secolo.

[10] Waverley, ch. XLVIII.

[11] Waverley, ch. L.

[12] I siti web sono stati controllati il 7 settembre 2013; le traduzioni sono state eseguite dall’autore in occasione della stesura dell’articolo.

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