Venerdì, 15 Marzo 2013

Il clero del XVIII secolo a cavallo tra giurisdizione ecclesiastica e tentazione laica

Silvia Bianchi
Sezione Studi

L’archivio Storico Diocesano di Arezzo raccoglie un ricco patrimonio documentario in continuo incremento costituito da circa 5000 unità archivistiche che si sviluppano su oltre 600 metri lineari.

In un documento conservato presso l’archivio capitolare aretino datato 1675 e riguardante la città si trova scritto:

«La Città e Diocesi di Arezzo cominciò ad essere governata nelle cose spirituali, et ecclesiastiche dal proprio suo Vescovo dell’anno 336 di Cristo Nostro Signore che il primo ne fu detto S. Satiro; et ha continuato per lo spatio di milletrecento e più anni fino al presente giorno in numero di 92 vescovi, tra quali sette o otto sono stati veramente santi entro a quel primo secolo avanti il 400 di Cristo, et il nuovo detto Em. e Rev.mo Cardinale Neri Corsini Patritio Fiorentino sarà il nonagesimo terzo, e il primo di questo nome e cognome».

 Detta attestazione, la più antica ma non l’unica presente in archivio, fa di questa Diocesi una delle più antiche della Toscana e d’Italia.

I dieci fondi che vanno a costituire l’archivio, conservati un tempo presso il palazzo vescovile, tra l’ottobre ed il dicembre 2003 sono stati trasferiti nell’attuale sede di Piazza di Murello 2 all’interno del palazzo che ospita il Seminario aretino.

Qui tre ampie stanze-archivio munite di impianti igrometrici, anti-incendio ed anti-intrusione custodiscono le carte che ricoprono un arco cronologico che va dal XIII secolo arrivando sino ai giorni nostri; la documentazione, riordinata, è attualmente oggetto di descrizione ed informatizzazione attraverso la piattaforma archivistica CEI-Ar.

Molti sono i documenti conservati all’interno di questo cospicuo archivio degni di nota, tuttavia, per questa trattazione è stata studiata una filza datata 1704-1715 dal titolo: Giurisdizioni e dazi del vicariato di Lucignano nella quale si trova un fascicolo sui prezzi della Cancellaria vescovile aretina del 1714.

Come si sa, l’analisi della documentazione deve necessariamente prendere avvio dallo studio dei soggetti produttori che fattivamente hanno posto in essere le carte, comprendendo a che titolo vengono prodotte e quindi si sedimentano e conservano.

Nella Curia aretina operava una cancelleria che nel corso dei secoli si andò specializzando; i notai di curia, laici al servizio della Chiesa, vi lavorano sin dal Medioevo ed è chiaramente accertata la presenza di un foro ecclesiastico se, durante la visita apostolica del 1583, condotta dal vescovo sarsinese Angelo Peruzzi è descritta la ricognizione[1] del foro episcopale. Il pastore dopo aver interrogato il vicario generale in merito ad una chiesa cortonese, dà conto che i notai siano pagati un solo scudo e tre per le lettere beneficiali, che il denaro riposto nelle capse sia diviso tra i notai laici che percepiranno un terzo degli emolumenti, mentre i restanti due terzi andranno al vicario generale e al vescovo.

Il visitatore inoltre trova un sol carcere, laicale, e quindi ordina che ne sia costruito un altro per gli ecclesiastici.

Fino al primo quarto del XVIII secolo si sono potute ricostruire le funzioni e prerogative della cancelleria di Curia attraverso lo studio di documenti, ma con l’analisi di questa filza abbiamo trovato nuove e più dettagliate informazioni.

Ad Arezzo esistevano, così come in altre realtà della Toscana e dell’Italia, sia tribunali civili sia ecclesiastici, sappiamo inoltre, per studi effettuati sulle carte dell’archivio Diocesano e dell’archivio di Stato di Arezzo[2], che sia i laici che i religiosi adivano indifferentemente sia agli uni che agli altri istituti nonostante detta condotta non fosse accettata dal vescovado che anzi, iniziò a sanzionarla.

A quella data, difatti, il cardinale Nereo Corsini in una a relazione[3] della Città e Diocesi di Arezzo, trattando in modo più ampio il tema della giurisdizione, scrive:

«Non è mai stato questo Vescovo, né di presente è suffraganeo ad alcun Arcivescovo, ma dipendente immediatamente sempre dalla S. Sede Apostolica, alla quale, al di Lei Mons. Nunzio Residente appresso al Serenissimo Granduca di Toscana si può solamente ricorrere per aggravi che si riceve però nel Suo Tribunale.

È però situato il Vescovado entro alla Provincia dell’Arcivescovo di Firenze.

Esercita per se stesso non solo le funzioni della Città e Diocesi tutta spettanti all’ordine episcopale, ma le altre cose ancora del governo, e di volontaria giurisdizione, tra le quali ha cura d’approvare esso il primo le opere che qui vi si stampano, e che poi si riveggono dal P. Vicario del Sant’Offizio e dal Governatore della Città.

Deputando per la contenziosa di Liti Civili, criminali et altro un sol vicario generale, che però ha gran frequentia di cause, massime che il clero gode in questa Diocesi speciale e antichissimo privilegio del Foro Ecclesiastico privative quo ad omnes alios iudice laicale, tanto nelle cause dove come reo vien convenuto, quanto nelle altre che si muove come attore anche contro a persone del tutto laicali.

Antichamente ogni prete, o clerico incorrerebbe in pena se convenisse alcuno fuori del Tribunale Ecclesiastico senza espressa licenza dell’Ordinario Suo.

Per servitio di questo Tribunale suol tenere due o tre notari laici, per cancellieri distinti e separati, che uno non dipende, ne comunica li suoi negozi, e scritture coll’altro»[4].

Ma i sacerdoti continuarono a rivolgersi al tribunale civile se nell’unità archivistica appena menzionata possiamo leggere anche:

«Benché Nostro Ill. Rev. Vescovo d'Arezzo renda molto ben nota a tutti gli ecclesiastici la proibizione di ricorrere al foro laicale, col presente ordine espressamente comanda a tutti e chiaschedun ecclesiastico alla sua iurisdizione sottoposto, che non ardiscano sotto le pene comminate et altre a suo arbitrio per qualsivoglia causa e sotto qualsivoglia pretesto ricorrerà al foro secolare. E perché non si possi allegar ignoranza di così giusto sentimento, vuole che ogni uno soscriva la presente monitione confessando quanto in essa vi contiene»[5].

Così facendo i sacerdoti si sottomettevano ad istituti laici riconoscendone quindi l’importanza ed il potere a discapito di quelli ecclesiastici; oltre a questo fattore, possiamo spiegare questa scelta con motivazioni prettamente economiche, ad esempio, per autenticare un documento si doveva pagare alla cancelleria di Curia una lira e per esibire un libello civile si pagavano ben 8 soldi, per addure dei testimoni 2 denari per non parlare poi della materia criminale che, ovviamente, era più esosa.

Confrontando questi prezzi con quelli delle merci vendute ad Arezzo nello stesso periodo ci rendiamo conto che procedere alla cassazione criminale costava una lira quanto uno staio[6] di grano e più di uno di cicerchie[7], lo stesso dicasi per far apporre il sigillo in un documento, e si dovevano pagare due lire per ottenere la copia di una sentenza criminale o per una bolla redatta su carta bambagina; quindi è spiegabile, anche per ragioni finanziarie, che molti ecclesiastici preferissero adire presso il tribunale laico[8] correndo anche il rischio di essere ammoniti.

Nel tempo si assistette ad una progressiva ricerca di autonomia da parte del clero aretino a favore delle corti laiche, spesso motivata prima facie da ragioni economiche, restando, tuttavia, pur sempre vero quanto affermato plasticamente da S. Paolo sulla necessità indefettibile della giustizia di Cristo:

«Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele. A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!». (1Cor 4, 1-4).



[1] Archivio della Curia Vescovile di Arezzo [d’ora in poi ACVA], Visita Apostolica 1583, vol. I, c.47: «Et post praedicta, visitavit forum episcopalem et reverendum dominum vicarium, et per interrogationes eidem factas habuit, quod ipse est iuris utrisque doctoros et possidet parochialem ecclesiam sancti Andreae de Bacialla dioecesis cortonensis, in qua non resedit, cum fuerit litigiosa, et pacificam possessionem non habuit nisi a mense septembris citra, ex qua nullos adhuc percepit fructus, licet adversarius ab restituendum sibi omnes fructus fuerit condemnatus, super quo observari statuit, quae in visitatione dictae parochialis ecclesiae decernentur; et prosequendo visitationem fori habuit ac cognovit in causis iudicialibus satis rite ac recte procedi. Ordinavit tamen sibi taxas mercedum notarium exhiberi; interim unum ex notariis scutum unum ;et quod pro expeditione litterarum beneficialium solvuntur scuta tria. Et ultra, et quod pecunia huiusmodi una cum aliis quae in dies percepiuntur ex diversis actis, quae occurrunt, ponuntur in capsa, et postmodum dividuntur inter ipspos notarios pro uno tertio, et pro duobus tertiiis dantur reverendissimo domino Episcopo et reverendo domino Vicario». Il latino di questo stralcio appare ricco di errori, sviste, mancate concordanze, si è voluto tuttavia riportarlo in modo fedele rispetto al testo.

[2] ACVA, Governo, 1710-1800; Archivio Capitolare di Arezzo [d’ora in poi ACA], Memorie e lettere diverse, I-X; ACA, Mercuriale, 1714-1800; Archivio di Stato di Arezzo, Biblioteca dell’archivio, Direzione, 1,7,11.

[3] ACA, Memorie e lettere diverse IV, 1680-1840, c.35.

[4] ACA, Memorie e lettere diverse IV, 1680-1840, cc.35-36.

[5] ACVA, Giurisdizioni e dazi del vicariato di Lucignano, 1704-1715, c.94.

[6] Lo staio è un’unica di misura italiana di capacità utilizzata per i cereali. Ad Arezzo, nell’epoca considerata uno staio corrisponde a circa 40 litri. In altri casi lo staio era utilizzato anche come unità di superficie ad Arezzo corrisponde a 1750 mq.

[7] Il Lathyrus sativus linnaeus, o cicerchia, è un legume appartenente alla famiglia delle fabaceae, diffusamente coltivato per il consumo umano in Asia, Africa orientale e limitatamente anche in Italia centrale. Simile ad un baccello, era considerato sin dal Rinascimento un alimento consumato presso le famiglie abbienti.

[8] Nella cancelleria comunitativa aretina le scritture redatte ad uso interno venivano prodotte “senza aggravio di spesa”, viceversa presso il tribunale ecclesiastico tutte le copie estratte sono sempre a pagamento. Più precisamente nel 1720 il cancelliere comunitativo percepiva uno stipendio giornaliero di 1 lira, pari al costo di uno staio di grano e quanto l’apposizione del sigillo in un documento presso la cancelleria di Curia.

Devi effettuare il login per inviare commenti