Sabato, 09 Marzo 2013

Archivi digitali di persona: è ora di iniziare a parlarne

Simone Vettore
Sezione Studi


by Nova24 TechChe gli archivi di persona siano stati, e siano tuttora, al centro della riflessione e della prassi archivistica italiana degli ultimi anni è sotto gli occhi di tutti: basta pensare alla loro cospicua presenza all’interno di progetti nazionali di primo piano come “Archivi del Novecento” per rendersi conto dell’importanza assunta, negli ultimi lustri, da questa tipologia di archivio.

Si è trattato, a mio avviso, di un fenomeno tanto più apprezzabile in considerazione del fatto che questa tipologia di archivi è decisamente più a rischio rispetto a quelli appartenenti ad enti ed “organizzazioni” più o meno complesse che, per tutta una serie di motivi che non stiamo qui a ricordare (interessi di studio, prescrizioni legislative, rilevanza economica, etc.), hanno storicamente ricevuto l’attenzione pressoché esclusiva da parte delle precedenti generazioni di archivisti.

Alla luce di questa particolare sensibilità, sviluppata negli ultimi anni, sarebbe stato lecito attendersi che analoga cura venisse riservata a quelli che a tutti gli effetti saranno i futuri archivi di persona: file di testo, tracce audio, video, fotografie, etc. che memorizziamo quotidianamente all’interno di una panoplia di supporti di memorizzazione che spaziano dai dischi ottici agli hard-disk, dalle schede di memoria flash (le SD card presenti nelle più recenti fotocamere, videocamere, etc.) alle pennette USB.

Purtroppo quando si parla di conservazione della memoria digitale della nostra epoca si tende prevalentemente, riprendendo quell’approccio “tradizionale” che sembrava essere stato spezzato negli ultimi dieci – quindici anni, a far riferimento alle migliaia di terabyte prodotti dalle grandi organizzazioni, si tratti dello Stato (inteso qui in tutte le sue appendici), delle grandi o piccole imprese o più in generale di tutte quelle “entità” dotate di una seppur minima struttura organizzativa.

Il rischio concreto dunque è che, trascurata tanto dai proprietari (che nella stragrande maggioranza dei casi non possiedono il necessario bagaglio tecnologico e soprattutto mancano della indispensabile sensibilità archivistica) quanto da chi per professione dovrebbe di essi aver cura, venga perduta la mole di dati e documenti digitali che quotidianamente noi tutti produciamo. È inutile sottolineare che si tratta, rebus sic stantibus, di uno scenario preoccupante ma tutt’altro che irrealistico.

Se questa è l’attuale situazione in Italia, all’estero le cose si stanno lentamente muovendo: particolarmente attivi risultano essere gli Stati Uniti dove sin dal 2010 si tiene annualmente il Personal Digital Archiving Day, evento alla cui organizzazione contribuisce la Biblioteca del Congresso la quale è in prima linea come capofila del National Digital Information Infrastructure and Preservation Program (NDIIPP), progetto avviato nel lontano 2000 e che ha la sua interfaccia pubblica nell’apposito sito web dedicato alla Digital Preservation, sito al cui interno un’intera sezione è dedicata per l’appunto al Personal Archiving. Alcune settimane fa poi, sempre negli Stati Uniti, presso l’Università del Maryland si è tenuta una due giorni di studi e dibattiti su queste tematiche, evidentemente sentite come cruciali.

Quel che più colpisce del caso statunitense peraltro non è tanto la precocità dell’attenzione dedicata alla materia ma piuttosto il tipo di approccio: constatato che le risorse a disposizione, umane e materiali, per quanto abbondanti difficilmente saranno sufficienti per far fronte alla massa di dati e documenti digitali in circolazione, si è puntato con decisione sulla formazione del singolo individuo predisponendo una serie di linee guida (affiancate da video tutorial e slide esplicative) alla conservazione rispettivamente di foto, audio, video, e-mail, “personal digital records” (ovvero appunti scolastici, ricevute di pagamenti, estratti conto, slide, bozze, etc.) nonché siti web, blog e social media.

Si tratta, si badi, di linee guida veramente basiche ma che hanno il pregio di essere versatili e facilmente comprensibili anche dalle persone meno esperte.

Ancor più importante, a mio avviso, il fatto che seppur con alcune differenze a seconda delle diverse tipologie di materiale, sia identificabile una modalità operativa comune riassumibile nei seguenti step:

  • Individuazione “fisica” del materiale (CD, DVD, schede di memoria, cartelle, account vari posseduti online contenenti dati e documenti rilevanti)

  • Selezione del materiale più importante, con il suggerimento di accordare la preferenza a quello in formato aperto e di qualità più elevata

  • Esportazione, con relativi metadati (step valevole solo per e-mail e per quei dati e documenti conservati sui vari servizi online; n.d.r.)

  • Organizzazione del materiale selezionato adottando un file name ed un file system coerente e duraturo con l’attribuzione, laddove possibile, di tag e di altri elementi identificativi; in questa fase è raccomandabile pure redigere, a mo’ di promemoria per sé stessi e per i posteri, una breve descrizione dei criteri seguiti nell’organizzazione del materiale in oggetto

  • Gestione, che nel caso del materiale digitale è necessariamente attiva e si concretizza nella realizzazione di almeno due copie su differenti supporti i quali vanno a loro volta collocati in luoghi sicuri e fisicamente distanti l’uno dall’altro; è consigliato verificare annualmente la loro leggibilità e provvedere ogni cinque anni a trasferirli su di un nuovo supporto.

Dubito che queste raccomendation, seppur condivisibili nella loro semplicità e chiarezza, potrebbero essere riprese pari pari in un paese come l’Italia che tradizionalmente attribuisce a praticamente tutti i documenti, accanto al (sopravvenuto) valore culturale, quello giuridico-probatorio, valore non meno importante nel momento in cui, almeno in ambito civilistico, si assiste progressivamente all’inversione dell’onere della prova demandando in pratica al singolo cittadino, quando “accusato”, il compito di dover dimostrare, anche attraverso l’ostensione di documenti (in prospettiva sempre più nativi digitali) la propria “innocenza” ed estraneità ai fatti contestati.

La questione finisce con lo scivolare nel giuridico e pertanto non è liquidabile in poche battute; consapevole che non è questa la sede idonea per una completa disamina della materia, mi permetto ugualmente di evidenziare velocemente alcuni aspetti, sollevati dalle anzidette linee guida, sui quali sarebbe opportuno condurre una attenta riflessione.

  • Tra le opzioni di salvataggio proposte dalle “linee guida” della Library of Congress ci sono pure i vari servizi di storage online (i cosiddetti archivi sulle nuvole), i quali sono visti come un valido metodo di “diversificazione del rischio”; in altri termini il fatto che i nostri dati e documenti digitali finiscano all’interno di data center costruiti (in linea teorica) a regola d’arte dovrebbe assicurarci pure la loro sopravvivenza. Questo aspetto positivo però non deve farci dimenticare come con gli archivi sulla nuvola, a meno che non si possieda una propria personal cloud, i dati e documenti caricati sfuggono al nostro controllo e possono venir “danneggiati” in molteplici modi: ad esempio possono corrompersi durante la fase di trasferimento verso la nuvola oppure a seguito della violazione del sistema stesso da parte di pirati informatici oppure ancora per negligenze dei tecnici che concretamente gestiscono il data center.

  • Considerazioni analoghe a quelle del punto precedente possono essere fatte per quei dati e documenti che condividiamo attraverso i principali social network ma con un ulteriore aspetto che spesso sfugge agli utilizzatori di questi servizi: capita, infatti, che nel momento in cui carichiamo i nostri contenuti digitali ne cediamo i relativi diritti (bisognerebbe dunque sempre leggere attentamente i Terms of Service). In ottica di digital preservation, poi, spesso non esistono strumenti ad hoc che consentono una agevole esportazione in locale ai fini di una conservazione di lunga durata ma bisogna bensì procedere in manuale.

  • Negli Stati Uniti non esiste la PEC: per conservare questo tipo di posta elettronica “avanzata” di invenzione tutta italiana non è sufficiente fare una semplice esportazione, come suggerisce la Library of Congress, dal momento che spesso gli allegati sono sottoscritti digitalmente (con relativi certificati) e marcati temporalmente; ovviamente tutto ciò complica di non poco le cose dal momento che si presume che abbiamo fatto ricorso a simili strumenti proprio perché il contenuto è importante e pertanto ne va salvaguardato anche l’annesso valore legale.

Mi si potrà contestare, e sono il primo a riconoscerlo, di essermi eccessivamente appiattito sugli aspetti giuridici: il punto è che a fianco ad archivi di persona costituiti da filmini di nozze e da foto delle vacanze (utili comunque, in prospettiva, per gli storici del costume e per gli studiosi di scienze sociali!) vi sono quelli di scrittori, artisti, musicisti, designer, architetti, avvocati, etc. per i quali il mantenimento per un discreto lasso di tempo (siamo sull’ordine dei decenni) del valore giuridico, a fianco di quello d’uso, risulta essenziale (e questo non tanto per gli storici e gli studiosi ma per i soggetti produttori stessi).

Questi ultimi purtroppo mi sembrano completamente abbandonati di fronte ai continui mutamenti tecnologici e legislativi e soprattutto senza alcun strumento che permetta loro di conservare in modo semplice ed agevole i propri archivi digitali.

Come uscirne? A mio parere ci sono due possibili strade da seguire: la prima prevede la realizzazione e messa a disposizione dei cittadini di strumenti (software da scaricare ma più verosimilmente di servizi online) che attestano, magari rilasciando un apposito “certificato”, la corretta esecuzione delle operazioni di backup / refreshing / migrazione; la seconda invece prevede l’apertura anche ai privati di quei trusted repository che si stanno gradualmente realizzando e nei quali i cittadini potrebbero caricare (secondo i dettami del cloud computing) la copia di backup del proprio archivio che si continua a possedere in locale: una volta all’interno di questo sistema certificato il principio anglosassone dell’ininterrotta custodia ne garantirebbe l’autenticità, integrità, etc. nel tempo.

Si tratta, a ben vedere, di due posizioni antitetiche: nel primo caso è il cittadino a farsi carico in prima persona dell’onere di assicurare la corretta conservazione dell’archivio, nel secondo (più in linea con la tradizione archivistica italiana) è un soggetto capace di fornire la pubblica fede ad assumersi l’onere della conservazione della memoria dei singoli cittadini.

Probabilmente la soluzione ideale consiste in un mix di entrambe: cittadini accorti che curano i propri archivi digitali facendo ricorso a) a strumenti di autocertificazione appositamente concepiti quando eseguono operazioni in locale e che b) per la copia di sicurezza in remoto si appoggiano a sistemi di gestione documentale “trusted” aperti al pubblico.

Mi rendo conto che, dati i tempi che corrono, questi desiderata rischiano di restare puramente utopici… l’importante intanto sarebbe iniziare a parlarne!

 

Devi effettuare il login per inviare commenti