Nell’immenso tesoro custodito all’interno dei depositi dell’Archivio centrale dello Stato, sono conservati due fondi che raccontano sessantun’anni di storia teatrale, nonché socio-economica, politica e religiosa d’Italia. Si tratta del Fondo Censura Teatrale e del Fondo Revisione Teatrale. Nel primo fondo[1] confluiscono i copioni teatrali che comprendono gli anni che vanno dal 1931 al 1944 (circa 17000 fascicoli), autorizzati o respinti in Italia dalla censura fascista, mentre, nel secondo fondo, sono compresi i copioni che vanno dal 1944 al 1962 (circa 21064 fascicoli).
Se intorno al Fondo Censura Teatrale diversi sono stati gli studi che hanno portato poi ad importanti pubblicazioni[2], compresa la creazione di una preziosa banca dati online (patrocinata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi, e l’Università “Sapienza” di Roma, DSAS), per il Fondo Revisione Teatrale, a parte qualche articolo o saggio, non risultano esserci pubblicazioni considerevoli. Considerando però “il passaggio di mano” politico che intercorse dalla fine del fascismo alla breve vita della Repubblica di Salò e poi alla nascita della Repubblica Italiana, questo fondo risulta particolarmente interessante, e non solo perché raccoglie in sé diciotto anni di teatro italiano, ma anche perché rappresenta uno specchio assolutamente fedele di quel periodo, raccontato attraverso i copioni teatrali.
È negli anni ’30 che il fascismo comprese quanto sarebbe potuto essere fruttuoso puntare sul teatro, proprio perché considerato all’epoca uno dei più potenti strumenti di propaganda, soprattutto in seguito al trasferimento dell’Ufficio censura, nel 1937, dal Ministero della Stampa e Propaganda al Ministero della Cultura Popolare. La Censura figurava come lo strumento più efficace per poter controllare, gestire e imporre le direttive fasciste in ambito teatrale, e, nel 1929, si avviò presto verso un concetto di totalitarismo, come dimostra il Testo Unico di Pubblica Sicurezza (approvato con regio decreto nel 21 Novembre 1929), che, nei suoi sei punti, tracciava le linee guida su come scrivere un testo teatrale, quali argomenti evitare per non rischiare il respingimento del copione, chi non nominare, quali valori imprimere con insistenza, ecc. Per svolgere l’esercizio della censura, nel 1935 era stato centralizzato il potere dell’Ufficio Censura, che veniva in soccorso all’Ispettorato speciale di polizia, incapace di giudicare con puntualità tutto il materiale teatrale che gli perveniva, e che emanava le direttive teatrali. A capo dell’ispettorato vi era il capo della polizia Arturo Bocchini (a cui nel ’40 successe Carmine Senise), al quale era affidato il compito di convocare e presiedere una speciale commissione (le cui decisioni non dovevano superare i quindici giorni).
L’Ufficio Censura, in ogni caso, non godeva di libertà amministrativa, in quanto doveva rispondere dei criteri adottati dal duce in persona, che spesso controllava direttamente i copioni inviati. Capo dell’Ufficio Censura fu nominato Leopoldo Zurlo, che dal 31 gennaio del 1928 al marzo del 1931, aveva rivestito la carica di vicedirettore presso l’Ente Nazionale di Cooperazione.
I criteri censori seguiti da Zurlo non erano poi così diversi da quelli perpetrati dai prefetti che lo avevano preceduto in questo ingrato compito, soprattutto per quanto riguardava il rispetto dei valori e della morale fascista, e dunque della politica, ma anche del rispetto dei principi della chiesa cattolica.
Che cosa il regime intendesse esplicitamente per morale e immorale non fu mai chiaro, e lo stesso Zurlo era spesso avvolto dai dubbi, come scriveva nelle sue preziose memorie, Memorie inutili[3], appunto, nelle quali spiegava come spesso fu costretto a proibire e a far ritirare dalle scene opere che personalmente approvava.
Un caso molto frequente era quello in cui il censore approvava l’opera nella sua totalità ma ne eliminava alcune parti, o tutto un intero atto (il copione veniva rispedito all’autore, che doveva stilarlo nuovamente e riproporlo all’Ufficio censura), o chiedeva di cambiare la forma di alcune espressioni. Si poteva arrivare a chiedere addirittura la modifica del titolo (perché poteva contenere doppi sensi), e si influiva perfino su aspetti apparentemente superflui, come il cambio di nazionalità del protagonista (intervento giustificato dalle relazioni internazionali che l’Italia e gli altri stati avevano stretto tra loro), o la sostituzione di un nome o di una città. In ogni copione le parti soppresse erano sempre accompagnate da note esplicative, che giustificavano il perché del taglio effettuato con la matita rossa. La richiesta di autorizzazione per la rappresentazione dell’opera prevedeva la spedizione all’Ufficio Censura, circa un mese prima della messa in scena, di due copie dello scritto. Facilmente, però, i passaggi dei copioni tra censore – prefetture - autore si ripetevano più volte, prima di giungere ad una decisione definitiva.
In Italia, il teatro degli anni venti e trenta oscillava tra due poli opposti: un teatro ricercato, da un lato, e un teatro popolare, caldamente propagandato dal regime fascista, e di cui erano autori dei veri e propri principianti, spesso senza istruzione (i cui copioni erano spesso anche grammaticalmente scorretti).
È evidente, come dimostrano gli stessi titoli dei copioni che vanno dal 1931 al 1944, il continuo riferimento al duce, presenza costante nel teatro fascista, di cui erano riportati interi discorsi, esaltato al pari di un Dio.
Molti furono gli autori teatrali di successo nei confronti dei quali l’accanimento censorio fascista fu chiaramente repressivo, come Anton Giulio Bragaglia, Sem Benelli, Vitaliano Brancati, Roberto Bracco[4], Luigi Chiarelli, Sacha Guitry, Vincenzo Tieri, e molti altri.
La presenza di spie fasciste agli spettacoli, a cui era affidato il compito di sorvegliare gli spettacoli teatrali degli autori e attori più intransigenti al regime, per controllare che la messa in scena degli stessi fosse fedele al copione vistato dall’Ufficio censura, era utile al regime per accertarsi che tutto si svolgesse secondo le giuste direttive.
Fondamentale, in quanto primo ufficio speciale di investigazione politica, è l’OVRA, la polizia segreta del regime, organo di repressione e vigilanza delle organizzazioni sovversive, ripristinata a Salò,che contava sulla distribuzione, su tutto il territorio italiano, di spie fasciste, confidenti e fiduciari.
Durante il caotico biennio 1943-1945, in cui l’Italia era divisa tra la Repubblica di Salò di Mussolini al Nord, un altalenante governo badogliano a Roma, l’occupazione tedesca e quella americana, anche la Censura Teatrale attraversò una fase di sospensione, che si concluse il 4 Giugno 1944, quando, con la liberazione di Roma da parte degli americani, vennero ripristinati pian piano tutti gli equilibri.
Il 31 Dicembre 1943, ormai in età pensionistica, Zurlo dichiarava ufficialmente di non voler aderire alla RSI. Non sapeva, come avrebbe scoperto nel mese di Febbraio, di essere stato collocato a riposo con altri prefetti del Regno. La statistica dei lavori esaminati, presentata dallo stesso Zurlo[5], relativamente al periodo che intercorreva dall’Agosto 1931 (da quando cioè l’Ufficio Censura venne centralizzato presso la Direzione Generale di Polizia) al 31 Gennaio 1943, dimostrava come la severa censura teatrale fosse più portata ad intervenire sui copioni imponendo numerosi tagli, che a bocciare preventivamente le opere stesse[6].
In ambito teatrale Bonomi, subentrato a Badoglio nel Giugno del ’44, apportò drastici cambiamenti, a partire proprio dalla soppressione del Ministero della Cultura Popolare. L’Ufficio Censura, pur se in maniera momentanea, venne abolito, e questa notizia creò entusiasmo nell’ambiente teatrale. Fu in seguito alla liberazione di Roma da parte degli anglo-americani, il 4 Giugno 1944, che vennero pian piano ristabiliti gli impianti censori precedenti.
La carica di Commissario per la Cultura Popolare e di Ispettore Generale del Teatro, era invece stata affidata ad Amedeo Tosti, e suo consulente artistico era Cesare Vico Lodovici (carica che in realtà conservava dal 1935, quando fu istituito l’Ispettorato per il Teatro), che si occupava di esaminare e giudicare i copioni teatrali, e che mantenne l’incarico fino al 1953. Capo dell’Ufficio Censura era invece l’ex pretore Gaspare Franco.
Dalla vigilia dello sbarco alleato in Sicilia, avvenuto il 10 Luglio 1943, il governo anglo-americano istituì a Roma il PWB (Psychological Warfare Branch), un organo propagandistico alle dirette dipendenze del Comando generale delle Forze alleate (AFHQ), che aveva il compito di controllare il settore della stampa e propaganda anche nei paesi di occupazione militare alleata, e che aveva anche l’ultima parola sui permessi di censura. Il PWB avrebbe agito fino alla liberazione completa dell’Italia, mantenendo le sue competenze fino al 1 Gennaio 1946, quando avvenne il passaggio dei poteri tra il governo militare anglo-americano e il governo italiano, che riacquistava sovranità sulle regioni del nord Italia, escluso il Territorio libero di Trieste.
Le vecchie norme che regolavano la Censura erano ancora vigenti, in primis il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza.
L’Ufficio censura teatrale si trovava dunque, come d’altronde gli altri uffici dei ministeri, in una situazione di grande caos. Gli autori teatrali che avevano concluso la stesura del copione teatrale, dovevano, come prima, inviare due copie al Sottosegretariato per la stampa, lo spettacolo e il turismo, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, affrancando una carta da bollo di 8 lire. La Censura post-guerra continuava ad esprimersi nel suo giudizio sui copioni con le seguenti voci: “Approvato”, quando l’opera veniva appunto approvata integralmente, e dunque poteva andare in scena; “Approvato con tagli”, quando cioè si interveniva sul copione modificandone alcune parti; e “Respinto” (espressione che subentrava al “Non approvato”, usata fino al fascismo), che corrispondeva alla totale bocciatura dell’opera. Una commissione consultiva di prima istanza si riuniva per discutere circa l’approvazione o meno dell’opera, e una volta approvato il copione, lo stesso avrebbe dovuto essere presentato alle varie prefetture delle città d’Italia dove sarebbe stato messo in scena.
Fondamentale, a questo proposito, è verificare, per il periodo che va dal 1943 alla fine del 1944, le differenze, a livello propagandistico, che si possono notare analizzando alcuni copioni di propaganda fascista con altri di propaganda americana, ma soprattutto riscontrare come, in realtà, la censura non sia stata alleggerita dai suoi compiti, intervenendo con durezza e ampia sorveglianza nell’analisi dei copioni teatrali sottopostile. Come Maria Uva[7], di Mario Ceirano, una delle ultime opere di propaganda fascista scritte nel ’43, dedicata alla conquista italiana sull’Etiopia. È un lavoro che, come andava per la maggiore nel ventennio fascista, esaltava il mito della guerra e dell’armata italiana, denigrando invece l’immagine dell’esercito inglese e americano. I continui elogi fatti alla figura del duce, fin troppo celebrata, in un periodo in cui ormai il fascismo era destinato a finire, risultavano un po’ troppo falsate, se non sproporzionate, e difatti Zurlo avvertiva una sensazione di eccessiva esaltazione dei valori fascisti e della guerra, tanto da apporvi delle serrate correzioni.
I fratelli De Filippo, con la Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo, se non subirono interventi sui copioni fino a quel momento presentati, da parte dell’Ufficio censura, ebbero invece parecchi grattacapi con la polizia. L’approvazione dei loro lavori non trovava la piena fiducia del fascismo che, anzi, guardava con sospetto alla vita privata, prima ancora che pubblica, dei fratelli, in particolare di Eduardo e Peppino.
I sospetti che i due fossero antifascisti si facevano sempre più insistenti, almeno da quello che veniva riportato contro di loro, e per questo le spie fasciste continuavano a pedinarli e ad assistere ad ogni loro spettacolo, annotando ogni cosa.
Tutti i fiduciari della polizia politica avevano un preciso compito da svolgere e portare a termine. Lo sapeva bene Manlio Calindri, la spia “per eccellenza” dei fratelli De Filippo.
Ad esempio, in un appunto del 30 Marzo 1936[8], Bocchini scriveva a Calindri, che non aveva ancora ottenuto l’ordine di pedinare i De Filippo, per chiedergli se li conosceva e se fosse al corrente di dove si trovassero. L’11 Febbraio, Calindri faceva sapere che li conosceva molto bene, e informava il questore che i fratelli si trovavano a Roma. Le informazioni delle spie erano molto precise, come dimostra il prossimo documento.
Sempre con l’accusa di essere fautori di propaganda antifascista, anche nel 1941 i fratelli De Filippo continuavano ad essere bersaglio della polizia, come si evince da questo rapporto inviato alla Questura di Roma dalla spia numero 35 (che stranamente si firma anche con il suo cognome, Spada) il 29 Novembre: “Ci risulta in modo certo che i Fratelli De Filippo, noti comici, sono nettamente antifascisti e in questo momento stanno facendo propaganda prettamente disfattista […]. In modo sommamente insidioso essi affermano che ‘nessun italiano può vedere i tedeschi e che essi lo possono controllare meglio di chiunque altro, dati i contatti che hanno in ogni città d’Italia’. Essi augurano apertamente una vittoria anglo-americana, perché odono la voce che anche nelle alte sfere di governo, Mussolini è completamente isolato e che tutti fanno il loro dovere di mala voglia o meglio fanno il minimo necessario per non incorrere nel confino […] I De Filippo a quanto ci è stato riferito mirano soprattutto a diffondere l’odio contro i tedeschi ed auspicare la vittoria anglo-sassone ‘la quale sarà per noi la vita, senza che dobbiamo perdere nulla di quel che abbiamo’”[9].
Ora, che il contenuto di questi ed altri rapporti sia assolutamente veritiero, non è verificabile. Certo è che i fratelli De Filippo negarono le accuse di essere promotori di una campagna antifascista. Pur non avendo mai mostrato simpatie per il regime, ma non avendolo comunque mai denigrato in pubblica piazza, Eduardo e Peppino presero le distanze, anni dopo, da un rapporto del 25 Dicembre 1943 che li voleva festanti per Roma dopo il crollo del regime.
Come racconta Peppino De Filippo in Una famiglia difficile[10], in seguito alla liberazione di Roma, avvenuta il 6 Giugno 1943, con l’entrata delle truppe anglo-americane, Antonio De Curtis, detto Totò, aveva ricevuto una soffiata da parte di un caro amico, che gli comunicava che i tedeschi, pronti a lasciare Roma per andare al nord, avevano stilato una lista di deportati civili, che includeva personalità del mondo dello spettacolo, tra cui egli stesso e i De Filippo. Totò, quindi, sollecitava Peppino e Eduardo, servendosi di una persona fidata, a nascondersi; lui, intanto, si sarebbe rifugiato a Valmontone. L’umorismo di Totò, nonostante la tragicità del periodo, non era scemato, tanto che fu autore di uno scherzo troppo pesante a Peppino: sapendo dove si erano nascosti i fratelli, mandò una ragazza a recarsi presso l’abitazione, per chiedere l’autografo a Peppino, che, pensando ad una spia nazista, fu preso da una grande angoscia[11].
I motivi che avevano indotto le autorità tedesche a inserire nella lista dei deportati, tra i nomi dei “ribelli”, anche quello di Totò, è facilmente deducibile dai contenuti delle riviste di cui egli era protagonista, e dal suo continuo ricorso all’improvvisazione, che lo portava a puntare il dito, ma con un sottile umorismo, contro i tedeschi e i fascisti. La collaborazione fruttuosa con Michele Galdieri, a partire dal 1940, con Quando meno te lo aspetti, fu per Totò (affiancato qui da Anna Magnani) un importante trampolino di lancio.
Michele Galdieri, figlio del poeta e paroliere Rocco Galdieri, è stato uno dei più importanti autori di riviste italiani. Le sue riviste, da Quando meno te lo aspetti, a Volumineide, 1941, a È bello qualche volta andare a piedi, 1943, a Che ti sei messo in testa?, 1944, a Cominciò con Caino e Abele, 1946, a Bada che ti mangio, del 1949, che fu l’ultima rivista di Galdieri con Totò, crearono molti scompigli all’interno degli uffici censori teatrali italiani perché, attraverso la satira, era presa di mira l’intera classe politica italiana, e lo stesso regime era il bersaglio delle riviste di Galdieri. In Che ti sei messo in testa?, andato in scena il 5 Febbraio ’44, il riferimento alla situazione politica e sociale italiana era evidente. Originariamente il titolo sarebbe dovuto essere Che vi siete messi in testa?, chiaramente rivolto all’avanzata americana e all’occupazione fascista. Scandalo suscitò, sia negli ambienti censori che nell’opinione pubblica, una scenetta inclusa in Cominciò con Caino e Abele, in cui una suora di clausura chiedeva perdono al Signore per essersi concessa ad un giovane.
La rivista era un genere teatrale molto temuto, proprio perché libero, sfrontato, accusatorio e diffamatorio, diretto a denunciare scandali politici e religiosi, il tutto condito con un stile leggero e scanzonato che attenuava la tensione, ma non la diffidenza che la classe politica mostrava nei suoi confronti.
Guida fondamentale, all’interno del sistema censorio teatrale post-guerra fu Giulio Andreotti, chiamato a ricoprire il ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel Governo Parri (in carica dal 21 Giugno 1945 al 23 Novembre 1945).
Con decreto del 5 Luglio 1945, il Sottosegretariato per la Stampa, lo Spettacolo e il Turismo, fino ad allora diretto da Francesco Libonati (Mario Bianchini era suo vice), fu definitivamente soppresso. Le competenze sulla revisione cinematografica e teatrale spettavano ancora, dopo la soppressione del Ministero della Cultura Popolare, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, diretta da Giuseppe Spataro.
Il teatro italiano del dopoguerra viveva da tempo in uno stato di stasi che lo rendeva impotente e distante dalle realtà, tanto che, come abbiamo visto, nessun genere teatrale, se si eccettua la rivista, riusciva veramente a fare denuncia sociale o comunque, coraggiosamente, a disegnare il clima reale, e non fittizio, in cui si era vissuto e si viveva, rifugiandosi in un apparente stato di calma e di benessere.
Tutto il sistema teatrale che aveva caratterizzato il fascismo continuava a procedere senza nessun cambiamento. Anzi, la struttura e l’organizzazione su cui si era retto il teatro nel ventennio era ancora fortemente radicato, e continuava ad avvalersi di informatori e controllori, portandosi dietro anche accuse di accanimenti e di favoritismi verso determinati autori e compagnie.
Tornano sulla scena attori già affermati, e i registi e gli autori teatrali ricominciano a lavorare per il teatro. Altri nuovi volti, entrati a far parte di varie compagnie, la cui carriera era cominciata qualche anno prima, calcheranno la scena, per segnare anch’essi un’epoca, culminata poi nel cinema: come Vittorio Gassman, Alberto Sordi, o autori come Federico Fellini, o i già citati Garinei e Giovannini. Aldo Fabrizi, invece, continuava sì a fare teatro, ma aveva legato la sua carriera particolarmente al cinema, cominciata nel 1942, che lo consacrò a divo nel 1945, quando interpretò Don Piero Pellegrini in Roma città aperta, 1945, di Roberto Rossellini, in coppia con Anna Magnani. Anche Fabrizi aveva conti aperti con la censura, pensiamo in particolare al respingimento della scenetta I tramvieri della città, presentata all’Ufficio Censura nell’autunno del ’43, in quanto in essa si denunciava, seppur con una fervente ironia, il mancato servizio tramviario dell’Atac, società di trasporti romana, e la pigrizia degli stessi autisti. Si scioglieva, quello stesso anno, e con gran clamore, la Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo.
Scritto da Oreste Biancoli, altro importante autore di riviste, con Riccardo Morbelli, è È arrivato Mister Brown[12], 1945. Pericolosa era stata infatti giudicata la forte ironia che contraddistingueva due scenette in particolare: Trio Primavera e Vent’anni dopo, sottoposte perciò a numerosi tagli.
In Vent’anni, in particolare, la satira si faceva particolarmente pungente. Qui, dopo una simpatica scenetta che vedeva marito e moglie discutere circa la “professionalità” della loro gallina, che grazie alle sue uova non li aveva fatti morire di fame in guerra, l’argomento si sposta sul mito americano, e sugli strani giochi che i soldati americani facevano con i bambini e con le ragazze. Le battute qui censurate hanno subìto l’intervento della censura, perché da esse veniva fuori una concitata venerazione per l’americano (a scapito degli italiani), che, contemporaneamente, era dipinto come dongiovanni, sfascia famiglie, stupratore, nonché colpevole dello sbandamento delle ragazze. Riporto, solo per mostrare un esempio, un dialogo tra i due protagonisti, in cui sono sottolineate le frasi censurate:
“De G.: Poi venne il 25 Luglio e gli alleati entrarono in Roma… Chissà che feste quel giorno!
Franch.: Si, ma durò poco
De G.: Perché?
Franch.: Perché un bel gioco dura poco
De G.: Ah, giocavano, gli Alleati?
Franch.: E come! Coi bambini. Un gioco bellissimo. Loro si sedevano e i bambini s’inginocchiavano ai loro piedi e giù… si divertivano a lucidare le loro scarpe
De G.:Che gioco strano!
Franch.:Oh, si! I giovanotti anche giocavano
De G.: Ma no!
Franch.: Sicuro! Aspettavano le signorine all’uscita del ballo e le rapavano. Giocavano agli scotennatori”
Non mancavano poi i drammi dalle tematiche scottanti, come L’iscariota, di Flavio Bertelli, presentata alla censura nel Dicembre del 1946, che parlava di un abuso sessuale da parte di un prete su una ragazza minorenne, e Misericordia, di Luigi Livoi, presentata invece nel Gennaio del 1948 alla censura, che invece raccontava le attenzioni morbose di un padre nei confronti della figlia, davanti agli occhi passivi della madre. Entrambi i lavori furono respinti senza remore, ed è facile capirne il motivo. Fu Nicola De Pirro, come indicato nello Schema di decreto relativo alla nomina di Direttore Generale dello Spettacolo, del giorno 8 Aprile 1948, all’interno del verbale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ad essere chiamato a coordinare la Direzione generale dello Spettacolo, di cui aveva fino ad allora diretto l’Ufficio Censura. De Pirro, che deterrà l’incarico fino al 19 Aprile 1963, sarà, insieme con Giulio Andreotti, il determinatore della scena teatrale italiana, e il punto di congiunzione tra il passato regime fascista e il nuovo sistema democratico. Andreotti, poi, sia nel settore teatrale che in quello cinematografico, sarà il vero responsabile dei piani censori di quegli anni, attaccato su più fronti, anche dalla stampa, come dimostrano i numerosi articoli di giornale che gli contestavano una accentuata severità di giudizio nei confronti di molte opere teatrali, pur se classiche, come La mandragola di Machiavelli che fu certamente l’opera più discussa, singolarmente, tra il 1949 e il 1950, scatenando le ilarità della stampa e della critica tutta, e le proteste degli uomini di teatro. La notizia del respingimento de La mandragola (concessa nel 1947), giustificata con l’eccessiva classicità dell’opera, ma in verità dettata dalla scabrosità della trama, decisa in seguito alla riunione, il 19 Maggio 1949, della Commissione consultiva per la censura teatrale, scosse così profondamente la maggior parte delle persone (non per forza esperti in materia teatrale) che se ne continuò a parlare anche anni dopo, soprattutto tramite la stampa.
I casi clamorosi di censura nel periodo post guerra furono moltissimi, pensiamo a La sgualdrina timorata (Le putain respectuese), di Jean Paul Sartre, una delle opere teatrali straniere su cui più discusse tutto l’ambiente censorio, tanto da far riunire per ben due volte, nel Marzo 1960, la Commissione Consultiva della censura teatrale, che decideva sulla richiesta di nullaosta della Compagnia Gad-Enal “La Fronda”, che portava in scena un adattamento della commedia firmato da Giorgio Monicelli.
Il dramma mostrava i vizi e i peccati del mondo borghese, malato di cattiveria e razzismo, in cui la giovane Lizzie, prostituta, si trova ingabbiata senza via d’uscita con Il Negro, un ragazzo di colore che pagherà con la vita il colore della sua pelle; o Fior di pisello[13] (La Fleur des pois) di Édouard Boudet, un’opera edita nel 1932, adattata diverse volte, respinta nel 1945, poi nel 1947 e poi di nuovo nel 1949, che trattava il tema dell’omosessualità e il disprezzo per la borghesia; o ancora Adamo[14], di Marcel Achard, (edita nel 1938), presentato all’Ufficio Censura, per un adattamento di Luchino Visconti, tra l’Agosto e il Settembre 1945. Vistato il 12 Settembre 1945, il dramma, portato in scena il 30 Ottobre al Teatro Quirino di Roma dalla Compagnia Adani (della quale faceva parte anche Vittorio Gassman), e nel mese di Dicembre al Teatro Olimpia di Milano, fu però respinto in breve tempo, in quanto poneva in risalto un episodio di omosessualità tra due ragazzi, uno dei quali fidanzato peraltro con una ragazza, e che si concludeva con il suicidio del protagonista.
Molto contestata fu anche Luciana e il macellaio[15] (Lucienne et le boucher), 1932, di Marcel Aymé. Presentata nel Settembre del ‘49 all’Ufficio Censura, il copione fu respinto. La commedia passerà al vaglio della censura solo nel Marzo 1951, ma sarà sottoposta a diversi tagli, e quindi, a discapito della trama, riuscirà ad evitare il respingimento. Qui è raccontato il rapporto malato tra Luciana, sposata con Moreau, e il macellaio Duxin, basato sul sesso, vissuto con molta morbosità, come dimostrano numerose battute all’interno del copione[16], e che porterà all’assassinio di Moreau per mano di Luciana, ma di cui si assumerà le colpe Duxin. Rabbiosa, e per certi versi vendicativa, di fronte al respingimento della sua ultima fatica, fu la reazione di Giovanni Morino, autore del dramma Gli unti del Signore[17], che venne presentato all’esame della censura teatrale il 15 Febbraio 1950, e che, ambientato nella Repubblica di Kaotia, rappresentava un vero e preciso attacco agli intrecci politici nostrani, nonché derisioni su alcuni progetti di legge appena discussi, come quello presentato il 16 Agosto 1948 dalla senatrice Lina Merlin sulle case di tolleranza. Il 18 Marzo 1950, dopo la prima riunione della Commissione Consultiva per la Censura Teatrale, che si era espressa negativamente sulla commedia, la stessa inviava una delibera ad Andreotti perché si esprimesse chiaramente sul lavoro. Nella delibera la commissione faceva presente che l’autore aveva cominciato una campagna denigratoria contro il Governo e gli Uffici della Censura attraverso la stampa, pubblicando poi, il 30 Aprile 1950, anche una scena della commedia sul giornale umoristico <<Il Travaso delle idee>>. Morino, infuriato, aveva inoltre scritto una lunga lettera ad Andreotti, sostenendo che il rifiuto alla rappresentazione della commedia avrebbe comportato una grave infrazione alle norme democratiche stabilite dalla Costituzione, e tacciando Andreotti di essere egli stesso l’autore di un abuso. Il 5 Maggio 1950, poi, l’autore inviava alla Presidenza del Consiglio dei Ministri una lunga invettiva, affermando che, in ogni replica estera della commedia, egli stesso avrebbe affisso un manifesto fuori dai teatri, in cui avrebbe riportato la seguente frase: “Commedia vietata dalla censura democristiana italiana”.
A parte le linee guida che avevano legato la censura fascista a quella successiva, è innegabile la profonda contraddizione con la quale essa stessa operava, censurando e approvando insieme opere assolutamente simili, e questo per ragioni più disparate.
Le modalità censorie non avrebbero preso nessun cambiamento di rotta, alleggerendosi un po’ solo con la legge 161 del 21 Aprile 1962. Rispetto all’epoca fascista, se c’era molta più permissività nel prendersi gioco delle autorità politiche o religiose, era però richiesta la massima considerazione nei confronti del buon costume e dei minori presenti alla rappresentazione teatrale.
La legge, che aboliva la censura teatrale generalizzata, era molto più severa nei confronti delle opere cinematografiche, che infatti potevano essere proiettate solo con previo nullaosta da parte del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, dopo che le due commissioni di primo e di secondo grado si erano espresse sui film presentati, decidendo se approvarli pienamente o se vietandone la visione ai minori di 14 e 18 anni.
In materia teatrale, invece, se prima vi era l’obbligo di richiedere il nullaosta, inviando il copione agli organi interessati, con questa legge solo gli autori che avessero scritto riviste, commedie musicali e coreografiche, avevano l’obbligo di far visionare i copioni al Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Con il decreto legislativo n. 3 del’8 Gennaio 1998, invece, venivano destituite le commissioni di revisione teatrale e soprattutto il servizio di censura teatrale, ma, purtroppo, questa legge non prevedeva più la conservazione e la custodia dei testi teatrali presso gli archivi ministeriali.
[1] Va precisato, però, che all’interno del Fondo Censura Teatrale si trovano anche alcuni copioni che si aggiunsero in seguito alla liberazione di Roma, avvenuta il 4 Giugno 1944, più sette copioni del 1945.
[2] Tra tutte il prezioso inventario di Ferrara Patrizia, Censura teatrale e fascismo (1931-1944), la storia, l’archivio, l’inventario, Roma, Mibac, Direzione generale per gli archivi, 2004, e Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, di Emanuela Scarpellini, Milano, Edizioni Universitarie di lettere Economia Diritto, 2004.
[3] Zurlo Leopoldo, Memorie inutili – La censura teatrale nel ventennio, Roma, Ateneo, 1952.
[4] Bracco è quasi certamente l’autore più perseguitato dal regime, contro il quale si mise in moto una durissima repressione, prima dal punto di vista morale, poi sul piano artistico (vietando la messa in scena in scena dei suoi lavori) e fisico. Non mancarono infatti gesti intimidatori, sia nei teatri dove erano messe in scena le sue opere teatrali, che nella sua stessa casa a Napoli, che nel 1926 fu praticamente distrutta dai fascisti.
[5] Statica dei lavori esaminati dall’Agosto 1931 X (epoca in cui entrò in vigore la legge vigente sulla Censura Teatrale) al 31 Gennaio 1943 XXI, ACS, MCP, Gabinetto, busta 143, fascicolo <<Atti riservati>>, sottofascicolo <<Teatro>>.
[6] Se infatti dall’Aprile 1935 al 31 Gennaio 1943, su un totale di 12022 copioni, ne vennero autorizzati 11025, respinti 532 e sospesi 415, è chiaro che l’operazione censoria era sì intransigente, ma non così tanto da negare il visto alla maggior parte dei copioni presentati, a patto che questi, all’interno dei quali le correzioni e i tagli da effettuare erano davvero numerosi, fossero riproposti all’Ufficio censura con le dovute rivisitazioni, in seguito alle quali, dietro autorizzazione di Zurlo, potevano poi essere destinati alle rappresentazioni teatrali. Dall’Agosto 1931 al 31 Gennaio 1943, su un totale di 17.330 copioni presentati alla Censura, 15.700 furono autorizzati, 1000 furono respinti, 630 sospesi.
[7] Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Cultura Popolare, Ufficio Censura Teatrale, busta 6, fascicolo 63, Maria Uva, 1943.
[8] ACS, MIN. INT, PUBBLICA SICUREZZA, DGPS - Fascicoli personali 1927-1944, busta 398 <<De Filippo Giuseppe (attore napoletano)>>.
[9] Ibidem.
[10] De Filippo Peppino, Una famiglia difficile, Napoli, Marotta editore, 1976.
[11] Questo episodio è invece contenuto in Strette di mano, di Peppino De Filippo, Marotta editore, Napoli, 1974.
[12] ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, Revisione teatrale(1946-1962), copione 675, È arrivato Mister Brown, 1945.
[13] ACS, PCM, MIN. TURISMO E SPETTACOLO, REVISIONE TEATRALE (1946-1962), copione 716, Fior di pisello, 1945.
[14] ACS, PCM, MIN. TURISMO E SPETTACOLO, REVISIONE TEATRALE (1946-1962), copione 971, Adamo, 1945.
[15] ACS, PCM, MIN. TURISMO E SPETTACOLO, REVISIONE TEATRALE (1946-1962), copione 4197, Luciana e il macellaio, 1949.
[16] A pagina 47, ad esempio, Duxin sta tagliando la carne, e Luciana, che lo sta osservando, si eccita nel vederlo mentre irrigidisce i suoi muscoli, gonfia il petto, e mentre gli guarda le grandi spalle e sente l’odore di sudore. Poi, parlando in terza persona dice: “Si vorrebbe essere stretta tra quelle braccia, premere il ventre sul tuo grembiule”. Poi, più avanti: “Bruto, stringimi, dammi del tu. Stringimi con tutte le tue forze, che si stenta a scricchiolare il mio corpo... Macellaio...”. Emblematica è la battuta a pagina 55, in cui Luciana parlando con il marito, gli dice che Duxin “è forte come un animale, prende le donne a piene braccia, a piene mani, le spezza, le schiaccia, gli ubriaca il ventre”.
[17] ACS, PCM, MIN. TURISMO E SPETTACOLO, REVISIONE TEATRALE (1946-1962), copione 4787, Unti del Signore, 1950.