Segnaliamo il numero monografico della rivista Zapruder, n. 36, gennaio-aprile 2015, dedicato alla public history.
Pubblichiamo l'interessante introduzione, per gentile concessione della Redazione.
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Facile riconoscere sotto gli strilli i fotogrammi in copertina. Le sequenze che ritraggono gli attimi dell’assassinio del presidente Kennedy a Dallas, il 22 novembre 1963, hanno fatto il giro del mondo – almeno di questa parte di mondo – e sono entrate nell’immaginario diffuso, le abbiamo viste migliaia di volte decostruite e ricostruite in altrettante narrazioni. Al loro autore Abraham Zapruder, un sarto appostato quella mattina su un muretto di Elm street con una Bell & Howell da otto millimetri, si deve il nome della rivista che avete in mano: un omaggio al fatto che il suo fi lm amatoriale contribuì a rendere più problematica la ricostruzione ufficiale dell’evento stabilita dalla commissione presidenziale statunitense. I ventisei secondi filmati da un “qualunque” Abraham Zapruder – quel giorno a Elm street sono almeno in quattordici ad avere una macchina fotografica o una cinepresa amatoriale – stanno quindi a indicare, metaforicamente, anche un altro modo di fare storia (cambiano fonti, autore, pubblico). Fare storia nel senso di raccontare gli eventi, ma anche di incidere sul loro corso. Senza ambire a dare una risposta definitiva a tutte le questioni sollevate, il fascicolo, curato da Adriana Dadà, Damiano Garofalo e Andrea Tappi, si snoda attorno ad alcune domande di fondo: di chi è la storia, chi la pratica e chi ne fruisce? Quali gli strumenti e i mezzi, le occasioni, i linguaggi, le procedure? Questi interrogativi sono divenuti il terreno caratteristico di indagine fondamentalmente per due approcci, quello della storia pubblica o public history – invece di sciogliere tale ambiguità, abbiamo rispettato le singole scelte lessicali degli autori dei saggi – e quello dell’uso pubblico della storia. Il primo fa riferimento alla possibilità/opportunità che la narrazione storica esca dalle aule universitarie e incontri il bisogno più o meno diffuso di conoscere e ricostruire il passato da parte di un pubblico composto non necessariamente da addetti ai lavori; il secondo è volto invece a creare una narrazione anch’essa pubblica del passato, ma questa volta precipuamente funzionale a conservare e legittimare il potere nel presente e nel futuro («chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato», scriveva George Orwell in 1984).
Va da sé che una separazione così netta tra storia pubblica da un lato e uso pubblico della storia dall’altro risponde al massimo a un’esigenza preliminare di individuare le principali questioni messe a fuoco in questo numero.
A ben vedere, tale distanza può tuttavia risultare fuorviante e indurre un giudizio di merito tra una pratica neutra sempre buona e una invece ritenuta cattiva, sorvolando così su tutta una gamma di modalità diff erenti e sfumate.
D’altronde, al di là della questione nominalistica e indipendentemente dai contesti, la storia pubblica, nel momento in cui coinvolge un pubblico ampio e attiva meccanismi di costruzione della memoria, è soggetta a scivolare in una istituzionalizzazione funzionale tanto al mercato editoriale, quanto alla dimensione politica o accademica. Tuttavia, non ci interessava in questa sede ricostruire le vicende di questo approccio in ambiti come quello statunitense dove, nel corso dei decenni, esso ha acquisito un suo statuto e di fatto è entrato nei curriculum universitari per formare professionisti della divulgazione della storia. Soprattutto non ci interessava prenderne pregiudizialmente le distanze.
Abbiamo piuttosto tentato di dare conto il più possibile del ventaglio di possibilità con le quali si misura la storia pubblica. E lo abbiamo fatto rivolgendo uno sguardo privilegiato al contesto italiano, visto che essa continua a proliferare nel nostro paese, proprio mentre si è andato svuotando il ruolo della disciplina storica nei luoghi ad essa istituzionalmente deputati. Una conseguenza, questa, della riduzione dei finanziamenti per la ricerca e del numero dei docenti di ogni ordine e grado nella scuola e nell’università.
Seppure in maniera non esaustiva, il primo intento che più in concreto percorre il numero è dunque quello di spaziare tra le forme che la divulgazione della storia assume servendosi di uno spettro ampio di mezzi più o meno recenti (dal web ai social network ai videogiochi, dai musei alla radio, alla televisione ai giornali e così via). Ancor più rilevante nell’economia del numero è stato il tentativo di sciogliere il nodo relativo al ruolo che gli storici ricoprono nelle pratiche di storia pubblica, indagandone metodi, finalità e linguaggi laddove per esempio sono coinvolti nella definizione e attuazione di precise “politiche della memoria”, quali gli allestimenti di mostre, le celebrazioni, le ricorrenze, i festival di storia, gli eventi di piazza.
Apre il fascicolo lo Zoom di Serge Noiret sulla storia pubblica digitale, in cui l’autore mette a fuoco i meccanismi di riformulazione del mestiere dello storico di fronte all’invasione del digitale nella disciplina. Se questo ha voluto dire, da un lato, ripensare le forme di divulgazione e narrazione della storia nella loro dimensione pubblica, l’avvento del web 2.0 – e successivamente del web 3.0 – ha costretto, dall’altro, a interrogare il pubblico circa la propria partecipazione all’integrazione semantica dei dati e delle fonti. In un ambito peraltro segnato dall’evanescenza del mezzo di diffusione e quindi da vulgate mutevoli e provvisorie, tra le potenzialità della storia digitale vi sarebbe ad esempio quella di rispondere al bisogno di proteggere le identità, le culture e le memorie collettive locali e promuoverle a livello globale. Se dunque la storia in rete diviene anche vettore di conoscenza glocale, il compito dello storico – secondo Noiret – sarebbe quello di mediare con le forme pubbliche di conoscenza del passato, in modo da affrontare criticamente il dispiegamento delle memorie, anche quando creano narrative alternative alla storia ufficiale.
Sempre rimanendo al web, ci è sembrato opportuno incrociare la riflessione metodologica sulle nuove forme della disciplina con un approfondimento sull’esperienza di alcune riviste scientifiche digitali e di alcuni blog elettronici a libero accesso che negli ultimi quindici anni hanno prodotto e diffuso in Italia sapere storico. Deborah Paci nel suo Intervento mostra come la rivista trimestrale online «Diacronie» abbia dovuto superare le iniziali barriere legate ai criteri di valutazione scientifica di un periodico specialistico che utilizza il supporto informatico, benché si sia dotata di meccanismi di peer review degli articoli. Il che spiega la ritrosia da parte degli autori italiani – almeno nei primi anni – a proporre contributi, un dato che riflette più in generale lo scetticismo da parte della comunità scientifica (italiana) nei confronti delle digital humanities.
A partire da questa reticenza, l’Intervento di Francesco Catastini ci ricorda che le esperienze dei festival di storia rappresentano un tentativo concreto e intenzionale di trasmettere una «terza storia», che possa costituire l’alternativa sia alla disciplina accademica sia al recente incremento della pubblicistica di argomento storico. In essi gli incontri con autori, i dibattiti su temi specifici, le rappresentazioni teatrali, il cinema, le mostre in qualche modo assumono una vita propria, poiché le domande e le curiosità condizionano ogni situazione, a volte lontano dalla strada immaginata dagli organizzatori.
Nello Zoom di Luisa Renzo, l’autrice dimostra invece come, nonostante le origini della disciplina in quanto tale possano essere rintracciate negli anni sessanta del Novecento, si possa parlare di forme ante litteram di storia pubblica anche a proposito di musei e percorsi espositivi che risalgono a più di un secolo fa. Se poniamo la centralità del pubblico come punto di partenza della nostra riflessione, infatti, possiamo rilevare che l’esposizione di materiale storico all’interno di una mostra o di un museo rientra a pieno titolo in quell’insieme di differenti forme di comunicazione destinate a un’utenza non specialistica e più ampia. Il saggio ha come estremi cronologici l’esposizione generale italiana di Torino del 1884 e quella del Risorgimento di Roma del 1911. In particolare, indaga a diverse latitudini della penisola il nesso tra le strategie comunicative adottate negli allestimenti dai «politici educatori» o «educatori civili» in veste di storici pubblici in nuce e i processi di national building e di costituzione di una religione civile attorno al mito del Risorgimento.
Alla divulgazione storica nei percorsi espositivi sono dedicati altri due articoli ospitati in Luoghi che prendono in esame due mostre temporanee di argomento storico installate recentemente in occasione di due anniversari (Fare gli italiani 1861-2011. 150 anni di storia nazionale e 1924-2014. La Rai racconta l’Italia). Nel primo, Costanza Calabretta rileva come la chiave di lettura della storia italiana incentrata sul binomio integrazione/esclusione e scelta dai due curatori di eccezione – gli storici Walter Barberis e Giovanni De Luna – abbia finito per depotenziare e sottostimare i confl itti e le fratture.
Diverso il secondo caso studiato da Damiano Garofalo e Vanessa Roghi, in cui a dispetto del titolo, la mostra per i novant’anni della Rai finisce in realtà per rifl ettere e raccontare se stessa. Che sia dovuto o meno allo scarso o nullo peso degli storici tra i suoi curatori, la mostra di fatto propone una lettura autocelebrativa, attraverso operazioni di facile decodifi ca. In tema di spazi espositivi, l’esperienza del Museo diff uso dell’area di confine tra Italia e Slovenia viene illustrato da Alessandro Cattunar in Immagini. Il progetto promosso dall’Associazione quarantasettezeroquattro a Gorizia/Nova Gorica consiste nella collocazione di dieci totem in ferro battuto che contribuiscono a creare una visione in profondità dell’evoluzione dei luoghi e degli eventi, nel tentativo di disegnare una topografi a della memoria di un’area multietnica e plurilinguistica decisamente più complessa della lettura proposta dalla memoria pubblica veicolata da targhe, lapidi, musei e memoriali ufficiali.
D’altra parte, quel lembo di terra è stato a lungo oggetto di dispute e polemiche che travalicano il dibattito storiografico e si inseriscono nel più ampio discorso relativo a un uso pubblico della storia piegato a esigenze politiche contingenti. Su questo versante, i casi non mancano e ne abbiamo cercato conferma anche in altri contesti. Per esempio, la rubrica Voci ospita l’intervista di Steven Forti allo storico Francisco Morente Valero a proposito della legittimazione delle spinte alla costituzione di un stato sovrano in Catalogna, dove il recente tricentenario della fine della guerra di successione spagnola ha visto il moltiplicarsi di iniziative a sostegno delle istanze nazionalistiche. Convegni storici, pubblicazioni non sempre rigorose, opere di narrativa e di divulgazione scolastica, programmi televisivi e nuovi spazi espositivi hanno concorso ad alimentare una narrazione pubblica a senso unico che si nutre di un forte sentimento vittimista nei confronti di Madrid e che soprattutto, schiacciando il passato sul presente, non offre un buon servizio alla comprensione dei fenomeni storici e forse neanche alla causa stessa abbracciata dall’attuale partito di governo a Barcellona.
Ancora al confine orientale italiano è dedicato il saggio di Federico Tenca Montini, in cui l’autore ricostruisce il triplice intreccio fra le forme pubbliche di divulgazione della storia (pubblicistica e produzione cinematografica in primis), le trasformazioni politiche dell’Italia degli anni duemila e il discorso istituzionale sotteso alla creazione nel 2004 del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe. Proprio partendo da questi nodi e dal ruolo eventualmente ricoperto dagli storici in relazione alla recente proliferazione di date istituzionali, nel 2010 Storie in movimento aveva promosso un dialogo sul cosiddetto calendario civile italiano durante il VI Simposio di storia della conflittualità sociale. A raccoglierne il testimone in questo numero è la Scheggia di Lidia Martin, che ha proseguito la riflessione analizzando le letture strumentali del passato veicolate dall’introduzione di alcune commemorazioni e la loro ricaduta sul dibattito pubblico e politico degli ultimi anni. Ne emerge che queste occasioni prefissate non rimangono altro che «date identitarie e corporative», finalizzate unicamente a un più ampio progetto di formazione di una storia nazionale condivisa e pacificata. Ma soprattutto costituiscono un banco di prova per gli storici invitati in pubblici dibattiti, nella misura in cui si ritrovano costretti tra l’esigenza che impone la loro professione di problematizzare eventi e contesti e quella di interagire con la stratificazione più o meno spessa di narrazioni e memorie diffuse. In questi casi lo storico va dunque incontro a una ridefi nizione delle sue attitudini, specie quando il campo della sfi da detta tempi e modalità che tradizionalmente non gli appartengono. Si pensi ad esempio alla stringente necessità di conciliare il ragionamento continuamente intento a dar conto della complessità e della contraddittorietà del reale con l’estrema sintesi, la formulazione efficace e la lettura binaria dei format televisivi.
Dalla riappropriazione dal basso della storia della Resistenza prende invece le mosse l’esperienza del romanzo storico scritto a duecentotrenta mani In territorio nemico, raccontata dagli stessi ideatori del metodo Scrittura industriale collettiva, Gregorio Magini e Vanni Santoni, in una conversazione con Monica Di Barbora. Se alcune pratiche di storia pubblica nascono dall’esigenza di riappropriarsi di uno spazio diverso rispetto alle politiche della memoria pubblica e istituzionale, dall’altra parte del mondo iniziano a svilupparsi i primi tentativi di elaborazione teorica e predisposizione materiale di reti per lo studio e l’approfondimento della disciplina in un’ottica storiografica globale, così come illustra in Interventi Anita Lucchesi a proposito del Brasile.
In conclusione, ci piace ritornare al punto di partenza di questo editoriale menzionando l’esperienza del Centro studi movimenti di Parma che con «Zapruder» e Storie in movimento ha condiviso parte del proprio percorso, impegnato nella costruzione di un senso da dare alla pratica storiografica anche in chiave di storia pubblica. Lo Zoom firmato dal Centro studi movimenti riporta infatti il lavoro collettivo da cui è nata una serie di iniziative territoriali – mostre diffuse, passeggiate, campagne di sottoscrizione popolare, incontri e dibattiti in piazza, ecc. – volte a promuovere la conoscenza storica, coinvolgendo attivamente la cittadinanza in attività che gli autori definiscono di «opposizione culturale». Un compito stimolante e arduo insieme. Da un lato tali iniziative rinunciano ai binari accademici o istituzionali consolidati in cui si trascinano spesso le discussioni attorno alla storia e raggiungono invece un pubblico che si accosta ad essa legando l’interesse teorico e culturale con una prospettiva di impegno civile e politico.
Dall’altro, tuttavia, l’articolo ci dice che nei fatti l’attività del Centro ha scontato diversi problemi: in alcuni casi ha suscitato invidie e gelosie da più parti e in altri ha dovuto mediare tra il proposito di sostenere la memoria pubblica di specifici eventi e la rivendicazione di una memoria privata legata ai suoi protagonisti. Ma più in generale l’ostacolo di partenza è stata l’indifferenza/diffidenza di un pubblico numericamente rilevante che in fondo considera la storia semplicemente inutile. Una considerazione, quest’ultima, che amplifica ulteriormente la gamma di variabili per tentare di rispondere alla domanda: di chi è la storia?