A. Meccia, MEDIAMAFIA. Cosa Nostra tra cinema e TV, Di Girolamo Editore, 2014
Interverranno
Vincenzo Vita, presidente della Fondazione Aamod
Claudio Fava, vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia
Ilaria Moroni, direttrice dell’Archivio Flamigni, coordinatrice della Rete degli archivi per non dimenticare
Giuseppe Sansonna, regista e autore Rai
Sarà presente l’autore, Andrea Meccia
La presentazione sarà preceduta, alle ore 17.00, dalla proiezione del film
Cronache di mafia, di A. Bellia e S. Cuccia, Rai Educational, 2008, 54’. La storia dei giornalisti uccisi dalla mafia.
L’autore del libro, Andrea Meccia, è comunicatore e insegnante di italiano per stranieri. Si occupa di formazione e di Media Education. Ha lavorato nel mondo della produzione cinematografica e pubblicitaria. Collabora con Repubblica.it (sezione inchieste). Scrittore e saggista sui temi della rappresentazione della mafia.
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; www.aamod.it
La premessa dell'autore
Quelli che… la mafia non ci risulta». Alla base di questo libro ci sono queste poche parole, apparentemente banali, realmente ironiche, profondamente amare. Le ha scritte nel 1975, o giù di lì, un signore milanese che faceva il giornalista. Si chiamava Beppe Viola. Quelle parole le ha cantate per una vita un occhialuto medico milanese che si chiamava Enzo Jannacci. A leggerle così forse non ci dicono niente, ma il rapporto di una parte di questo Paese con le organizzazioni mafiose potrebbe stare tutto lì. Se ce ne rendessimo conto, al diavolo ricostruzioni storiche, rischiose indagini e complicati sociologismi. Ma purtroppo una storia lunga circa due secoli racconta tutt’altro. La mafia, le mafie a molti sono risultate e continuano a risultare. Dal 1893 ad oggi, il nostro Paese continua ad aggiornare un triste elenco fatto di circa ottocento persone innocenti uccise dalle organizzazioni mafiose. Buona parte di esse sono state uccise negli ultimi quarant’anni della nostra democrazia ed erano poliziotti, carabinieri, giudici, sindaci, politici, dirigenti pubblici, sindacalisti, giornalisti, persone comuni, migranti, donne, bambini. Le mafie sparano, le mafie uccidono senza rispettare alcun codice d’onore che non sia quello della violenza, della sopraffazione, dell’arricchimento illecito. Le mafie negano i diritti, rafforzano i privilegi, uccidono le libertà civili, democratiche ed economiche. Sono nemiche della cittadinanza, perché sono alla continua ricerca di sudditi obbedienti. Creano cultura e ci rubano le parole. Se le mafie non ci risultano, noi risultiamo loro. I racconti massmediatici amano restituirci la faccia più feroce delle organizzazioni mafiose, ma sfidarle vuol dire anche raccontare le loro azioni che si nascondono nelle pieghe di una società globalizzata, giorno per giorno più complessa da decifrare. Le immagini di morte spettacolari ci inquietano più di oscure transazioni finanziarie, di capitali riciclati, di spericolate operazioni economiche. Il terrore mostra una forza che ci demoralizza oltre modo, dialogando più facilmente con la nostra emotività. Ma sono anche le mafie che non fanno rumore a doverci preoccupare, ben al di là di una colpevole mescolanza di ipocrisia e ingenuità.
Ho deciso così di provare a leggere quarant’anni di potere mafioso concentrandomi sulla violenza visibile e sotterranea di Cosa Nostra e spulciando nel racconto che i mezzi di comunicazione di massa ne hanno fatto. È stato un viaggio analitico ricco di spunti e di riflessioni che mi auguro aiutino il lettore ad essere più consapevole, non solo di cosa la mafia sia realmente e di come essa agisca, ma soprattutto dei meccanismi con cui il sistema politico-istituzionale e massmediatico sia stato capace di reagire e di raccontare a se stesso il potere mafioso. Sono passati oltre venti anni dalla fine della Prima Repubblica e dalle stragi politico-mafiose del ’92-’93, leggibili come la riproposizione del vecchio teorema della strategia della tensione.
Caduto il Muro di Berlino, nel pieno di Tangentopoli e della caduta dei partiti di massa, quelle bombe segnarono la punta più alta di una parabola terroristica nel pieno delle sue funzioni militari e politiche. Non era la prima volta che la mafia mettesse delle bombe e rivolgesse la sua attenzione agli uomini delle istituzioni. La lunga scia di morti che schiaffeggiò la nostra democrazia fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, segnò la serializzazione di un’attività militare che si scagliava contro uomini dello Stato e della società civile. Quando i mafiosi “non si sparavano più fra loro”, la mafia cessò di essere un’ipotesi, una probabilità, per trasformarsi in una entità concreta, capace di agire con sistematicità e logiche precise. Di questa trasformazione i media se ne renderanno conto e rivoluzioneranno i loro linguaggi per raccontare al meglio la mutazione antropologica di Cosa Nostra, la sua modernizzazione. Sarà quello il nostro punto di partenza, la trasformazione che Cosa Nostra attuò dagli anni ‘70 in poi, in un disegno dai tratti eversivi che l’avrebbe portata ad attaccare il cuore dello Stato nei primi anni Novanta. Una parabola crescente che, toccato il punto più alto, si sarebbe eclissata, con la fine di decennali latitanze, con i pentimenti di massa e l’abbandono di uno scontro frontale con lo Stato.
Film, canzoni, sceneggiati televisivi, titoli di giornale, dichiarazioni di uomini politici, trasmissioni Tv, testimonianze e analisi da me raccolte in prima persona, sono state le fonti cui ho attinto.
Un percorso che disegna un Paese incapace di elaborare lutti collettivi, che con fatica tenta di indicare i colpevoli morali e materiali di tanto dolore. E un Paese che non racconta degnamente a se stesso i propri drammi e le proprie storture, è un Paese vulnerabile, facile preda di politiche populiste e autoritarie. Proprio come l’Italia che vide morire la speranza di uscire eduardianamente dalla notte della Repubblica, ritrovandosi al mattino baciata da un sole amaro e tiepido. Quell’Italia che voleva linciare i politici ai funerali della scorta di Borsellino, che tirava le monetine a Craxi mentre faceva il tifo per Di Pietro e il pool di Milano, e che si innamorò a prima vista di Berlusconi nelle vesti di politico. Fece tutto in ventiquattro mesi, in un’altalena emotiva destabilizzante. Sono passati vent’anni da quei momenti e ancora non ci rendiamo del tutto conto di come sono andate le cose. Mentre il mare è in perenne tempesta e noi rischiamo continuamente di affondare. Tutti insieme. Senza che nessuno possa dire: «Non ci risulta».