Per la prima volta, dopo nove edizioni, il Festival delle Terre ha potuto godere, dal 7 al 10 Maggio, di una sala cinematografica all’interno del Nuovo Cinema Aquila, a Roma, recuperato nel 2003, quando cioè venne sottratto, per attuazione delle legge 109/96 (sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia), alla criminalità organizzata, e venendo riconosciuto così come parte del patrimonio del comune di Roma, dopo un lungo lavoro di restauro iniziato nel 2005. Il Nuovo Cinema Aquila è un vero centro propulsore di cultura audiovisiva, in quanto non si ferma solo alla proiezione di film in prima visione, ma si arricchisce di rassegne cinematografiche, mostre e altre attività culturali che hanno gli scopi principali di rendere fruibile il patrimonio audiovisivo al fine di valorizzarlo.
È per queste ragioni, dunque, che il Festival delle Terre, ha trovato ampia sinergia e ospitalità all’interno degli spazi di cui dispone il Nuovo Cinema Aquila.
Il Festival delle Terre, giunto alla decima edizione, come suggerisce il titolo, seleziona ogni anno una serie di documentari nazionali e internazionali legati al tema della “terra”, intesa come luogo fisico nel quale ogni cittadino ha rivendicato e rivendica i propri diritti; intesa come parte integrante dell’identità di ciascun essere umano, che ad essa si relaziona; intesa come agricoltura, e strettamente legata al tema dello sfruttamento delle risorse, alla conservazione degli ecosistemi, alla sovranità alimentare, alla schiavitù, alla difesa dei diritti sul lavoro, al rapporto tra uomo e natura, e molto altro ancora.
Alla base, dunque, una rete di valori sociali e culturali che appartengono all’uomo, e con lui al territorio.
A promuovere questo prezioso Festival, il Centro internazionale Crocevia (Cic) e la Mediateca delle Terre, in collaborazione con: l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, da sempre impegnato in una intensa e fervente opera di tutela di tutto il suo patrimonio audiovisivo, fotografico, sonoro, e cartaceo; Legambiente; Associazione Amanda; Bioversity International; il Circolo degli artisti; Ari (Associazione rurale italiana); il Nuovo Cinema Aquila; con il contributo di Opulentia, Biopolis Store ed Eticando, e con il patrocinio del comune di Roma.
Il Centro Internazionale Crocevia, che ha visto la luce nel 1958, è un’organizzazione non governativa di Cooperazione Internazionale e Solidarietà, attiva da oltre 50 anni nella promozione e implementazione di attività di formazione, di campagne e progetti a sostegno delle comunità indigene e contadine (in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente), così come nella costituzione di reti internazionali di solidarietà. È impegnata poi nei settori dell’educazione, della comunicazione e dell’agricoltura, con il chiaro e fondamentale intento di sensibilizzare, tra le altre cose, il mondo sui temi dell’ambiente, della biodiversità, delle biotecnologie, del diritto allo sviluppo ecosostenibile e della confisca illegale delle terre. Il Centro Internazionale Crocevia riconosce, come presupposti essenziali per la sua missione, il diritto alla conoscenza, alla comunicazione, all’informazione e al confronto di idee, formazioni e competenze differenti.
Inoltre, il Centro Internazionale Crocevia dispone di un archivio multimediale: la Mediateca delle Terre, nata alla fine degli anni ’70 con l’obiettivo di restituire alla popolazione mondiale l’opportunità di esprimere la propria identità, e costituendo poi un’alternativa all’informazione mediatica che non sempre descrive la realtà per come è, rischiando spesso di deformarla, e dunque restituendo a tutti il diritto di comunicare e confrontarsi con realtà eterogenee. Intorno alla Mediateca delle Terre, alla sua nascita e alla sua evoluzione, hanno lavorano e tutt’ora un team di professionisti, impegnati anche nel Centro Internazionale Crocevia , come il suo presidente, Antonio Onorati, o come Maurizio Paffetti e Claudio Trovato.
È incredibile constatare quanto sia vasto il materiale audiovisivo (circa 1700 video), fotografico (oltre 20000 foto), librario e discografico (circa 25 dischi di musica tradizional-popolare) di cui dispone la Mediateca (dagli anni cinquanta del Novecento ad oggi). La struttura è tutta tesa a valorizzare, rivalutare e soprattutto rendere fruibile l’intero patrimonio di sua competenza, la cui valorizzazione consente un intelligente, coinvolgente e istruttivo confronto tra culture, tradizioni popolari, scelte, variegate esperienze e percorsi di vita, tutti confluiti in un’unica causa, dimostrando quanto siano molteplici le modalità di relazione tra uomo, terra e ambiente. Ancora una volta, dunque, la produzione audiovisiva viene riconosciuta come bene da preservare, potenziare e diffondere, ma anche come una vera bandiera di libertà, in quanto ciascun individuo libero può rappresentarsi e rappresentare la sua storia e la sua cultura.
Il principio intorno al quale la Mediateca delle Terre si è costituita consiste nel dare l’opportunità ad ogni uomo e donna, attraverso l’uso delle produzioni multimediali, appartenente a qualunque civiltà, formazione e ceto sociale, di esprimersi e raccontarsi.
È solo dal 2007, però, che la Mediateca ha una struttura fisica nella quale risiede, e cioè all’interno del Centro di Cultura Ecologica , sede anche della Biblioteca “Fabrizio Giovenale” e dell’Archivio Ambientalista (fondato da Giorgio Nebbia). La Mediateca delle Terre è sempre attiva, e persegue i suoi scopi, quali la comunicazione, la sensibilizzazione e la documentazione, attraverso mostre, corsi di formazione, seminari e convegni.
Ma entriamo nel cuore del Festival.
L’alta affluenza di pubblico che si è verificata durante le cinque giornate di programmazione dell’evento, ha prepotentemente dimostrato quanto fosse sbagliata la convinzione per cui il documentario, che sia cortometraggio o lungometraggio, sia destinato soltanto ad un ristretto gruppo di persone, ad un pubblico d’élite, insomma. Il merito che va riconosciuto a tutti coloro che hanno lavorato al festival, e fautori del suo successo, sta proprio nell’aver smentito questo pregiudizio, e difatti, a partecipare alle proiezioni, ogni giorno, vi erano persone appartenenti a diverse fasce d’età.
A presenziare tutte e quattro le giornate è stato Antonio Onorati (che è anche membro del Comitato Internazionale della sovranità alimentare), fino, appunto, alla giornata di sabato 10 Maggio, nella quale una giuria qualificata (composta dal presidente di giuria Augusto Gongora, regista, produttore e attore cileno, nonché direttore di Teleanalisis durante il regime di Pinochet, Blandine Sankara, (sociologa, presidente dell'associazione Burkinabè Yelmani, da sempre impegnata sul tema della sovranità alimentare, Nora Capozio, associate Expert presso Bioversity International, la più grande organizzazione internazionale di ricerca sulla biodiversità agraria, Tommaso D'Elia, regista e direttore della fotografia di documentari, tra cui l’ultimo lavoro Sanjay e Sumitra - La tigre e il tione, e la sceneggiatrice Daniela Ceselli, della quale ricordiamo, tra i suoi script più popolari: E la chiamano estate, Nessuna qualità agli eroi, entrambe di Paolo Franchi, ma soprattutto Vincere, di Marco Bellocchio), ha premiato, tra sedici documentari in concorso (21 sono stati in totale i documentari proiettati), Cattedrali di sabbia, 2010, di Paolo Carboni, come lungometraggio vincitore di questa decima edizione del Festival delle Terre, e con le motivazioni qui sotto riportate:
Augusto Gongora: “Per il modo con cui è stato realizzato e per la capacità di trasmettere quello che le persone “sentono” prima ancora che lo “dicano”. Una qualità che il regista è stato capace di trasmettere intrecciando delicatamente e molto da vicino le storie dei protagonisti, di cui il documentario ci racconta un vero e proprio percorso di trasformazione che va oltre il solo cambio di lavoro. Cattedrali di Sabbia fa emergere, con forza, la capacità di reinventarsi, di ricostruire sé stessi e la propria identità all'interno di una crisi durissima che vive la Sardegna”.
Daniela Ceselli: “Per la capacità di comporre immagini, suoni, timbri e colori in un’opera che racconta la terra di Sardegna, tradita da un’industrializzazione selvaggia, che ha arricchito pochi e deluso molti; per la voce dei suoi abitanti, inghiottiti dal miraggio della fabbrica e dalle necessità della vita, che rinunciano a una parte di sé stessi, per poi ritrovarlo nel momento di massima crisi; per il retroterra culturale, fatto di pesca e pastorizia, che riemerge prepotentemente tra i rossi infetti dell’allumina e il sangue delle tonnare, al ritmo di un blues”.
Tommaso D'Elia: “Pur affrontando il difficile tema della deindustrializzazione in Sardegna, il film diventa paradigma dello sviluppo neo liberista e dei danni, immensi, ai territori e ai suoi abitanti. Un documentario filmato con un'ottima fotografia, con camere sempre in movimento, mai indulgente al sentimentalismo. Buona la colonna sonora”.
Le opere vincitrici degli altri premi del Festival delle Terre, sono state:
- per il Premio Bioversity (assegnato da Bioversity International), La era del buen vivir, di Jeroen Verhoeven e Aline Dehasse, “per il modo in cui l'opera mostra come lo sviluppo sostenibile non possa prescindere dalla conservazione e dall’uso della diversità delle colture e culture locali, che costituiscono un patrimonio a rischio”;
- per il Premio Crocevia (assegnato dallo staff del Festival delle Terre), Stealing from the poor, di Yorgos Avgeropoulos, “per aver portato l'attenzione sulla resistenza dei pescatori senegalesi contro la pesca illegale dei pescherecci europei e asiatici che stanno privando gli abitanti delle coste dell’Africa occidentale di una delle loro fonti primarie di sussistenza”;
- hanno ottenuto invece una menzione speciale Sachamanta, di Viviana Uriona, e El gigante di Bruno Federico, Andrea Ciacci e Consuelo Navarro.
Cattedrali di sabbia è un particolare lavoro di denuncia sul processo di industrializzazione che ha interessato la Sardegna, la cui conseguenza è stata però un impoverimento di quella che è la cultura contadina e pastorale del territorio sardo, da sempre legato all’agricoltura e alla pastorizia. E tutto ciò per raggiungere il sogno industriale che è però svanito, poiché molti operai, ex agricoltori, contadini e pastori, si ritrovano ora, dopo essere entrati in fabbrica, in cassa integrazione, impossibilitati a lavorare in seguito alla chiusura delle fabbriche. È desolante, dunque, constatare quanto il miraggio dell’industrializzazione possa portare a conseguenze estreme, svendendo la preziosa cultura di cui è costituito ogni territorio, e vedere poi “le cattedrali del deserto”, come vengono chiamate la industrie, denominate anche “cattedrali di sabbia”, perché circondate da ettari di terra che isolano questa industrie, ormai perdute e piantate nel territorio come cattedrali isolate vuote e svuotate del senso per cui sono nate.
Anche se in contesti diversi, anche Nada más que eso, 2011, di Giovanna Massimetti e Paolo Serbandini, descrive la rabbia e l’insoddisfazione operaia, esponendo, a partire dalla tragica vicenda avvenuta il 5 Agosto 2010, nella quale 33 minatori rimasero intrappolati, per ben due mesi, nella miniera di San Josè (e a un passo dunque dalla morte), le manifestazioni di protesta di 300 minatori cileni, che, in quell’estate del 2010, chiedevano al governo cileno maggiori garanzie, come la sicurezza sul lavoro e l’aumento salariale.
Una vera e propria inchiesta sullo sfruttamento minorile è Shady Chocolate, 2012, del giornalista danese Miki Mistrati, che è andato di persona a verificare l’alto tasso di schiavitù presente nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio, denunciando così le multinazionali, la doppia faccia della medaglia, poiché, nonostante un crimine così gravoso come quello della schiavitù minorile, e le condizioni estreme nelle quali sono costretti a vivere i bambini (come d’altronde tutta la popolazione), certificano esse stesse la produzione di cioccolato come sostenibile e priva di ogni forma di sfruttamento.
A dispetto di ciò che i media e le istituzioni hanno fatto credere, come pure la stessa pubblicità per il sostegno dell’otto per mille alla chiesa cattolica va promuovendo, relativamente al microcredito (un’attività finanziaria nata con l’obiettivo di sostenere i paesi del mondo con il più alto tasso di povertà), Tom Heinemann descrive, in The Micro Debt, 2011, gli aspetti negativi di questo servizio finanziario che offre sì opportunità di prestito a soggetti che, essendo privi di garanzie, non potrebbero avere accesso al credito, ma che, a causa degli elevati tassi di interesse per la restituzione del debito, si rivela inefficace. La terra, intesa anche come luogo in cui gli individui manifestano liberamente, per la difesa della propria identità e dignità, è stata al centro anche di due documentari dedicati al Cile (peraltro, il Cile è quest’anno ospite d’onore del Salone Internazionale del Libro 2013, nella XXVI edizione della Fiera Internazionale del Libro di Torino): Calle Miguel Claro 1359, 2006, di Tommaso D’Elia, Daniela Preziosi e Ugo Adilardi, e Cile: Immagini del paese invisibile, 1989, di Augusto Gongora.
Il primo documentario, la cui proiezione è stata promossa anche dall’AAMOD, è dedicato ai desaparecidos, ovvero agli “asilati” politici, i veri nemici del dittatore Augusto Pinochet, uno dei dittatori più sanguinolenti che la storia ricordi (la sua dittatura durò dall’11 Settembre 1973 al 1 Agosto 1989). Preziosi, D’Elia (che, lo ricordiamo, ha fatto parte della giuria) e Adilardi ricostruiscono, attraverso numerose testimonianze, il soccorso che gli ambasciatori italiani offrirono ai desaparecidos, e i rischi ai quali andarono incontro, offrendo anche una visione d’insieme a quello che è il Cile oggi, politicamente e socialmente.
Il secondo lungometraggio è l’unico documentario meno recente tra quelli in programmazione al Festival, poiché risale 1989, mentre il resto dei documentari rientra in un periodo che va dal 2006 al 2013. Cile: Immagini del paese invisibile è un lungometraggio di estrema importanza, e ciò per due motivi: non solo perché ricostruisce le modalità con le quali venne gestita la campagna elettorale cilena avvenuta nell’estate del 1989, quando Pinochet, dopo aver ricevuto pressioni internazionali, fu costretto ad indire un referendum attraverso il quale, dopo sedici anni di dittatura, i cileni avrebbero potuto votare SI, per il proseguimento della dittatura, oppure NO, per la sua caduta, in funzione di un governo democratico, ma soprattutto perché, per la prima volta nella storia cilena, i media, in particolare la televisione, partecipavano alla campagna politica offrendo l’opportunità, sia ai promotori della campagna del NO,che per quelli del SI, di fare campagna pubblicitaria, e dunque, la tv si faceva portavoce dei cittadini cileni, anche se, come dimostra lo stesso documentario, la politica repressiva di Pinochet cercò comunque di censurare gli spot pubblicitari dei suoi avversari. Chi non avesse avuto ancora la possibilità di vedere Cile: Immagini del paese invisibile, potrà, attraverso la visione, al cinema, dell’ultima ed encomiabile fatica di Pablo Larraín: NO – I giorni dell’arcobaleno, rivedere alcuni filmati d’epoca, molti dei quali presenti nel documentario di Gongora, e rendersi conto proprio della forza comunicativa che i fautori della campagna per il NO avevano messo in atto attraverso la propaganda di messaggi positivi, ottimistici, al’insegna dell’allegria e della pace.
Davvero suggestivo è poi Zalumose – Vivere tra le erbe, 2012, di Ramune Rakauskaite, forse il documentario che, meglio di tutti, in questa rassegna, ha saputo spiegare il legame tra essere umano e la terra. In Lituania, tra i campi e le foreste, si aggirano un gruppo di donne alla ricerca di erbe e piante di ogni tipo, che in quei territori abbondano. Queste donne sono le cosiddette “streghe”, come vengono etichettate un po’ da tutti quelli che le conoscono, in quanto, attraverso le erbe che raccolgono dal primo mattino, curano alcuni disturbi e sintomi, anche malattie gravi, come la leucemia e il cancro.
Ramune Rakauskaite gira un cortometraggio davvero accattivante, e lo fa in modo estremamente semplice, cercando una relazione con queste donne, che non hanno impegni familiari, perché le “streghe” sono guardate con sospetto dagli uomini, che si tengono ben alla larga da esse, e, per questa ragione, non possono pensare a legarsi ad un uomo e ad avere una famiglia. Queste donne praticano la magia buona, e, dunque, utilizzano le erbe solo ed esclusivamente per scopi terapeutici (nei casi dei parti difficili, ad esempio, o per curare la tosse, la mancanza d’appetito), e hanno un legame molto particolare, e per certi aspetti invidiabile con la natura, che salutano ogni giorno (“Salute a te, mia verde foresta”) con la quale parlano e che rispettano più di ogni altra cosa. Le erbe sono considerate come un salutare sostitutivo delle medicine, perché più sicure e innocue, calmanti efficaci, ma mai invasive, utili anche per rasserenare neonati capricciosi e persone particolarmente nervose. Attraverso Zalumose entriamo nelle stanze delle erbe, dove cioè vengono essiccate le piante, e dove le donne ci spiegano i diversi trattamenti ai quali ogni pianta è sottoposta. Sorprende, infine, l’armonia con la quale queste donne vivono con la natura, la loro unica ragione di vita.
Indimenticabile, per la prepotenza e la bellezza visiva che lo permea, è Winter Light (Vinterlys), 2011, di Skule Eriksen, che racconta, in forma poetica, la storia dell’arcipelago di Lofoten, che, d’inverno, si colora si atmosfere gotiche e suggestioni indescrivibili, sognanti ed eteree, fino alla fine dell’inverno, quando il sole riappare e illumina il paesaggio.
Va menzionato, infine, L’età del cemento, 2011, di Mario Petitto, che racconta il preoccupante consumo di suolo che sta interessando la Lombardia, in particolare il basso bresciano e il bergamasco, intaccando anche la Pianura Padana, costringendo la natura ad arretrare in favore di una urbanizzazione che porta alla costruzione di edifici sempre più numerosi e, paradossalmente, poiché invenduti, vuoti.
Il Festival delle Terre, dopo la felice permanenza al Nuovo Cinema Aquila, passerà in rassegna nel mese di Luglio a Cagliari, nella cornice di Villa Muscas, e poi a Carloforte, nell’Isola di San Pietro.