Martedì, 09 Settembre 2014

"Una fabbrica di fatti" e un valanga di bit

Silvia Savorelli
Sezione Studi

Pubblichiamo un saggio illuminante di Silvia Savorelli, sulle nuove forme dei documenti audiovisivi nell'era del digitale, ringraziando l'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico per la disponibilità. Il contributo è edito in A. Giannarelli (a cura di), Il film documentario nell'era digitale, Annali 9/2006, Fondazione Aamod - Ediesse, 2007.

In calce il pdf del saggio.

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                        “Una fabbrica di fatti”[1] e una valanga di bit. Le forme del documentario

il cinema è un linguaggio

che può esprimere qualunque settore del pensiero

(A.  Astruc)

Camere-stylo e pellicole a due soldi 

Se Alexandre Astruc nel 1948, nell’articolo Naissance d’une nouvelle avant-garde[2] auspica una camera stylo, una macchina da presa utilizzata con la stessa facilità di una penna, in cui l’artista possa esprimere il proprio pensiero, fino ad arrivare anche alla costruzione di un pensiero astratto, Cesare Zavattini quattro anni dopo rivendicava una maggiore libertà espressiva in rapporto alle tecnologie definite troppo lente e pesanti. Noi oggi stiamo vivendo concretamente e sperimentando questa grande trasformazione: le camere-stylo sono le migliaia di camere digitali, strumenti di documentazione non solo di vita quotidiana e familiare, ma anche mezzi per riflettere e agire, per partecipare e condividere.

   Bisogna capire che il cinema fin qui è stato uno spettacolo. Questo dipende proprio dal fatto che tutti i film vengono proiettati nelle sale. Ma con lo sviluppo del 16mm e della televisione, non è lontano il giorno in cui ciascuno avrà a casa propria gli apparecchi di proiezione, e andrà ad affittare dal librario all’angolo film scritti su qualsiasi argomento, in qualunque forma, tanto critica letteraria, romanzo, quanto saggio di matematica, storia, divulgazione ecc. Di conseguenza non è più permesso parlare di un cinema. Ci saranno diversi cinema come oggi ci sono diverse letterature, perché il cinema come la letteratura, prima di essere un’arte particolare, è un linguaggio che può esprimere qualunque settore del pensiero. […] E’ così. Non si tratta di una scuola, neppure di un movimento, forse è semplicemente una tendenza. Una presa di coscienza, una certa trasformazione del cinema, un certo avvenire possibile, e il desiderio che abbiamo di affrettare quest’avvenire.

   […] è evidente che quando ci sarà la pellicola a due soldi e tutti potranno avere una macchina da presa, il cinema diventerà un mezzo espressivo libero e duttile come ogni altro…Per quanta fede io abbia nella immaginazione, ho più fede nella realtà, negli uomini[3]

            Sono passati quasi sessant’anni da quando Astruc e Zavattini consideravano questi cambiamenti come una presa di coscienza auspicabile e con vivo desiderio volevano affrettare il momento storico in cui il cinema sarebbe diventato non solo un mero spettacolo, ma una forma di comunicazione accessibile a tutti. Oggi che tutto questo è avvenuto, anzi che è andato anche oltre a ogni previsione ipotizzata, tanto che troviamo film non solo “dal libraio”, ma anche in edicole mediateche biblioteche archivi pubblici scuole, e soprattutto sul web: accessibili e visibili, nel pc nel proiettore nel televisore nel telefono, in schermi sparsi in ogni luogo. Le camere-stylo digitali, e con esse anche i software di montaggio, sono diffusissimi, ma soprattutto l’accessibilità dei mezzi di produzione (facilità nella tecnica ma anche per i bassi costi) e i sistemi di distribuzione e diffusione hanno portato a una enorme produzione dal basso di film di ogni genere forma e formato. Nascono e si diffondono nella rete e nei circuiti non ufficiali migliaia di immagini in movimento, film di ogni forma, che ci obbligano oggi a riflettere su questi cambiamenti e trasformazioni.

Rivoluzione digitale?

            In pochi altri momenti della storia del cinema l'evoluzione tecnologica ha costituito la materia essenziale del dibattito intorno all'estetica del film: tutte le volte che è accaduto (introduzione del sonoro e del colore, avvento dei sistemi di ripresa 16mm, o super8) si è adoperata, non sempre a proposito, la parola “rivoluzione”. Ricordando l'analisi di A.Masson[4] sulle presunte rivoluzioni in ambito cinematografico, ci si potrebbe anzitutto chiedere se e come l'avvento delle tecnologie digitali possa cambiare lo stato delle cose.

            Può la tecnologia digitale favorire un rovesciamento di ruoli e valori?

            La consistente diffusione di massa dei mezzi di comunicazione e di produzione filmica ha portato sicuramente a una grande forma di partecipazione e a un’enorme produzione culturale, di un cinema a bassissimo costo, praticato non più da un'élite culturale ma da una base eterogenea e non etichettabile di creatori di immagini, che per lo più hanno scelto la pratica del cinema documentario. Si è radicata inconsapevolmente la necessità di fare un “cinema subito” e un tipo di “cinema d’urgenza”, come auspicava Zavattini, avvicinandosi a una progressiva democrazia nella comunicazione “un cinema di tanti per tanti e non un cinema di casta per molti”[5].

            E in questo la diffusione dei mezzi di produzione crea i presupposti per una riflessione, non senza difficoltà, poiché si deve osservare e analizzare una materia così viva e pulsante, in continuo dinamismo. Ma soprattutto perché non si ha ancora la profonda consapevolezza di che cosa comporterà questa nuova trasformazione tecnologica, ancora nella sua fase iniziale. Se l'arte di una data epoca è dipendente e debitrice dai mezzi di produzione che le si offrono, allora il problema della smaterializzazione del cinema nell'epoca della sua riproducibilità digitale, estendendo il concetto di W. Benjamin, si colloca in un discorso storico inevitabilmente più ampio, che coinvolge la struttura economica della produzione culturale. A osservare da vicino le dinamiche produttive del cinema che sarà, in generale, senza distinzioni di forme e generi, è piuttosto evidente un certo tipo di cambiamento dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro e del processo produttivo: maggiori possibilità di girare con troupe ridotte, quindi con un contenimento dei costi in generale, e utilizzazione di software di montaggio ed edizione senza coinvolgere grandi studi. Ci si è avvicinati quindi verso il cinema di un solo uomo, ovvero un cinema che è la diretta emanazione delle sue protesi tecnologiche, un filmmaker autosufficiente e tecnologicamente autonomo.

             Infine il supporto tecnico: se ci stiamo avvicinando verso una definitiva eliminazione della pellicola, per abbracciare la tecnologia digitale, allora anche la fase della distribuzione del film subirà un drastico cambiamento? Ma quanto la libera circolazione delle immagini può portare un contributo reale a un'estetica del film?

  Certamente si pone il problema di organizzare un discorso critico intorno al cinema che sta cambiando.

          E in particolare il cinema documentario è al centro di questa mutazione. E’ stato investito totalmente da questi cambiamenti: dal proliferare di produzioni a basso e a bassissimo costo che il digitale consente, alla mutevolezza nelle forme che le nuove produzioni esaltano in contaminazioni di generi e formati. Ma anche per l’enorme diffusione che libera la circolazione, nei vari canali come ad esempio You Tube o MySpace[6], ecc., creando i presupposti per la nascita di comunità che si scambiano film e commenti e dove nascono anche collaborazioni e rapporti creativi a livello mondiale. Ma restano comunque da individuare i contorni di questo nuovo circuito: quanto c’è di “consapevolezza eversiva”, di volontà di opporsi a una logica produttiva anti-sistema in queste piccole produzioni dal basso, o forse è solo un modo per passare dall'autoproduzione in digitale alla grande produzione con un film per le sale e in pellicola[7]?

            Ma allora siamo solo agli inizi di cambiamenti e mutamenti che trasformeranno radicalmente il linguaggio filmico? Difficile rispondere. Siamo ancora troppo coinvolti nel processo in corso. Ma forse, potrebbe essere non priva di interesse una riflessione, restringendo il campo e soffermandosi ad analizzare direttamente il cinema documentario.

            Domandiamoci, allora: queste camere-stylo digitali come riescono a cogliere il reale nel momento del suo manifestarsi? Come lo rappresentano?

            Queste immagini riescono a essere anche pensiero?

            Sono anche una forma di analisi e critica del presente?

            Come rappresentano la condizione umana?

            Come possono essere strumenti per raccogliere diari e autobiografie?

            Il cinema documentario forse è diventato il miglior modo per cercare di comprendere quale potrà essere il percorso più interessante del linguaggio filmico e delle sue forme stilistiche. Ma appare evidente da subito che è possibile soltanto un’analisi parziale, in primo luogo perché non è possibile scrivere una classificazione delle forme del documentario, poiché non si conoscono e neppure si riescono a vedere tutti i film realizzati oggi, sono troppi e anche di difficile reperimento, in secondo luogo il cinema documentario è di difficile definizione poiché ogni giorno nascono nuovi film che contraddicono le analisi sulle forme linguistiche appena pensate. Siamo di fronte a una materia in piena trasformazione. Ma abbiamo volutamente tentato un’analisi delle forme, adottato le rare citazioni di film a scopo unicamente esemplificativo, per cercare di avere una maggiore chiarezza espositiva.

                        Il documentario, ovvero un cinema senza pregiudizi per le innovazioni tecnologiche

Cercare di definire il cinema documentario è come immergersi nella storia del genere, e delle sue teoriche, ripercorrendo il cammino dei fratelli Lumière, di Grierson, di Flaherty, di Vertov, di Ivens… Con il cinema documentario si riprende e si cattura la “vita vera”, poiché vi è la fiducia nelle enormi potenzialità che ha il cinema di guardarsi attorno, osservando e selezionando, trattando creativamente la realtà, i fatti, come li declama Dziga Vertov nel suo manifesto per il documentario come “fabbrica di fatti” che possono essere visti sia come “uragani di fatti” ma anche “piccoli fatterelli isolati”. E se Joris Ivens sottolinea come il cinema documentario possa essere l’unica forma di cinema sperimentale che si oppone al cinema dell’industria, che lotta contro l’espressione di una cattiva produzione incoraggiata dal cattivo gusto del pubblico, senza mai provocarne una reazione, Julio Garcia Espinosa supera la distinzione tra il cosiddetto cinema narrativo e il cinema documentaristico, e introduce una nuova dicotomia, che è poi una nuova definizione: quella tra cinema-finzione e cinema-azione. Un cinema documentario quindi che possa coinvolgere lo spettatore a tal punto da fargli assumere un atteggiamento di viva partecipazione di fronte alla realtà quotidiana, non accontentandosi di essere pura emozione e intrattenimento, o esaltazione della bellezza rappresentata, ma provocando le attività latenti del pensiero e le reazioni.

Il cinema documentario è stato per anni, e crediamo che continui ad esserlo, un luogo di grande sperimentazione. Se consideriamo le innovazioni tecnologiche, l’avvento della cosiddetta tecnologia leggera, come il 16mm, ma soprattutto la possibilità di registrare il sonoro in presa diretta, attraverso i registratori portatili a nastro magnetico, il famoso Nagra (realizzato nel 1953 da un polacco, che lo chiamò in quel modo perché nagra significa “registrerà”), hanno contribuito al diffondersi del cinema diretto, con le grandi potenzialità che svilupperà il cinema antropologico ed etnografico Ci si trova di fronte a un profondo cambiamento nelle forme e nel linguaggio del documentario: si entra direttamente con più facilità nella realtà filmata, la macchina da presa può essere al centro di una scena, provocare, disturbare, dialogare, in questo modo influisce drasticamente sull’avvenimento. Dal punto di vista del linguaggio, le inquadrature diventano più lunghe, si parla di pianosequenza, e il reale non lo si coglie nella sola immediatezza ma dal punto di vista in cui l’autore lo interpreta. Però sarebbe riduttivo considerare le innovazioni tecnologiche il solo motore dei cambiamenti, perché a queste si devono aggiungere le analisi teoriche di Zavattini in Italia e di Astruc in Francia. Il documentario conosce nuove forme grazie ai film realizzati da J. Rouch ed E. Morin, P. Leacock e D.A. Pennebaker, e in Italia con i film di Baldi, Di Gianni, Mingozzi[8] e contemporaneamente con le inchieste televisive di M. Gandin, e successivamente con altri film inchiesta televisivi che in quegli anni rappresentano un fenomeno di grande rilievo[9]. Un esempio di cinema diretto è sicuramente il film-inchiesta collettivo ideato da Zavattini I misteri di Roma[10]. In anni successivi altri film si ispirano al cinema diretto, un esempio è sicuramente Diario di bordo di A. Giannarelli e P. Nelli[11], un film che utilizza le tecnologie leggere per ricercare un linguaggio nuovo: la vita dei marinai di un peschereccio è mostrata con l’utilizzo di un sonoro in presa diretta e piani e campi particolarmente attenti ai corpi, ai volti e ai gesti ripetitivi e faticosi del lavoro.

In questa chiave è da considerare anche la nascita della tecnologia videomagnetica alla fine degli anni Settanta, con la possibilità di abbassare i costi di produzione e contemporaneamente di aprire le porte quindi alla produzione dal basso. Anche se con le pellicole amatoriali del super8 e del 9,5mm questa strada era già stata perseguita e sperimentata. Nascono così nuove tipologie di sperimentazione produttiva e si sviluppano anche nuove forme linguistiche nel genere documentario, i film di A.Grifi sono esemplificativi in questo senso.  Si manifesta qualche segno di una maggior democrazia nella produzione filmica, ma l’utopia della camera-stylo resta tale, fino all’avvento del digitale.

In questo cammino il cinema documentario è un precursore, sensibile alla realtà che lo circonda, e attento ai cambiamenti tecnologici, soprattutto perché non ha mai avuto pregiudizi né per i mezzi né per la forma.

Quindi tentare di definire il cinema documentario a partire dalle forme linguistiche, è anche un modo per cercare di capire la sua evoluzione e riflettere sul suo futuro. Insomma cercare di individuare i caratteri del documentario è come cercare di comprendere le progressive metamorfosi del grande insieme documentario[12].

                        Insieme, genere, forma

In questa osservazione analitica del cinema documentario dal punto di vista della sua multiformità, forse occorre partire da una considerazione: il cinema documentario, inteso come corpus di film, non lo si può considerare un genere, alla stregua dei generi della fiction, ma un insieme, composto da film di forme e generi diversi. Se consideriamo la definizione di genere fornita da C. Metz: quando per "gruppo di film" s’intende un ampio testo collettivo che attraversa diverse frontiere interfilmiche, si suppone che fra questi film vi sia una parentela profonda e globale, una certa omogeneità che concerne le strutture generali di ogni film, e che corrisponde quindi necessariamente – anche se magari in gradi diversi – a una certa unità d’impressione, a un’"aria di famiglia" che aleggia sull’insieme e che si percepisce direttamente, insomma a una rassomiglianza nel senso più corrente della parola"[13].

Il cinema documentario, nel tentativo di definirlo, è stato spesso suddiviso in generi, le cui classificazioni si basavano unicamente sul contenuto: ed è molto evidente come i tentativi appaiano incerti e a volte anche contradditori. Ci troviamo di fronte a una suddivisione in alcuni casi eccessivamente dogmatica e scolastica[14] oppure vaga e superficiale[15]. L’Enciclopedia dello Spettacolo, nel 1954, definisce il cinema documentario a partire da tre grandi macrogeneri: film che trattano il tema della natura e dell’uomo, film che trattano la vita contemporanea e infine quelli a carattere propagandistico. In dettaglio, nel primo caso, i migliori esempi di questa corrente sono incentrati “sulla vita della gente semplice e vertono su istanze primordiali e universali – la lotta per il cibo, la battaglia contro gli elementi – che non sono ancora adulterate dal contatto con la civiltà moderna”. Evidentemente qui si fa riferimento a un film fondamentale della storia del cinema documentario, ovvero Nanook of the North di R. Flaherty[16]. Nel secondo caso si tratta di film legati al naturalismo, trattano la vita quotidiana e contemporanea, ma non analizzano criticamente i problemi. Sono i film sperimentali che si ispirano alle scene della città per creare “forme e immagini filmiche”, e anche i film che prendono spunto dai”mali della vita moderna, pur rifuggendo dal commento e dalla critica”. Ci si riferisce, senza mai citarli, ai film sulle sinfonie urbane[17]. E infine, la terza corrente, è quella propagandistica, intesa nella sua accezione più vasta, “qui non vi è evasione, ma la dichiarata intenzione di usare il cinema per criticare, commentare e persuadere”. Lo sviluppo di questa corrente è strettamente connessa al fattore economico, che sponsorizza la produzione, con scopi che vanno dalla propaganda alla promozione umanitaria. Pensiamo al cinema propugnato da Grierson mediante l’azione di sostegno del cinema documentario attraverso una base istituzionale, prima al Government Post Office[18], poi all’estero con il National film board of Canada[19], fondando una comunità di professionisti, e realizzando film che sperimentano nuove e precise forme linguistiche, sponsorizzate dai governi.

Il rapporto con la realtà è al centro dell’esame che ne fa Grierson, che considera i film costruiti con materia realistica (le attualità in tempo di pace, le rassegne di curiosità di tipo giornalistico, e i cortometraggi strutturati come illustrazione puramente descrittiva per immagini senza forma drammatica) come generi inferiori, ma di categoria superiore quelli al contrario che trattano creativamente la realtà. Nonostante l’evoluzione del documentario, crediamo che Grierson abbia compreso appieno le difficoltà che il cinema documentario poi avrebbe affrontato in futuro: la finta oggettività e la dipendenza dalla realtà rappresentata restano confini di discrimine forte per comprendere i film documentari.

Il valore del punto di vista e la scelta creativa della realtà da rappresentare e da interpretare pongono anche i documentaristi di oggi di fronte a nuove sfide. Rispetto agli anni in cui Grierson scriveva, è cambiato però drasticamente lo scenario: ora è la televisione che fa ricorso alle attualità e ai servizi giornalistici illustrativi, quasi “radiofonici” e mai audiovisivi. Si è anche impossessata degli ambiti dell’inchiesta e del reportage, non sempre con esiti interessanti. Resta comunque il documentario che osserva, interpreta, analizza, prende posizione, coinvolge e a volte fa riflettere.

Nel corso degli anni, si creano altri film e altre analisi teoriche si soffermano ad analizzare il cinema documentario, sempre nel tentativo di definirlo e di comprenderlo. Di volta in volta, per categorizzare il documentario si adottano pertinenze tematiche, contenutistiche ma anche tecniche, come la lunghezza/durata del film: corto-medio-lungometraggio. P. Rotha e R. Griffith suddividono i generi in base alle aree tematiche: documentari geografici, scientifici, sociologici, poi aggiungono i documentari a soggetto e i film di attualità e archivio. Nascono, in alcuni casi, festival specializzati sui generi del documentario, presupponendo in questo modo l’esistenza di uno specifico che distingue un genere dall’altro: documentario turistico, industriale, sportivo, il documentario d’arte, e anche il film di montaggio[20]. Questa suddivisione in generi permane anche oggi, e progressivamente si aggiungono altre specificazioni. R. Nepoti[21] arricchisce la classificazione: attualità (cinegiornali, newsreels), documentario antropologico (etnografico, etnologico), documentario industriale, documentario scientifico, film di famiglia, film sull’arte, film-inchiesta, semidocumentario (definito anche docu-drama o film narrativo).

Riteniamo però che questa classificazione in generi non riesca a comprendere e a approfondire gli sviluppi attuali del documentario, essendo basata unicamente sugli aspetti contenutistici. Inoltre siamo fortemente critici sulla definizione di “documentario narrativo” (usata per il documentario che utilizza le pratiche della ricostruzione), poiché non riteniamo che la narratività sia un presupposto unico della fiction o in ogni caso della “ricostruzione”, come in questo caso si lascia intendere, stabilendo in tal modo gerarchie di valori. Film-inchiesta come quelli di R. Moore non sono basati su uno sviluppo drammaturgico? O i documentari di W. Herzog non sono costruiti secondo i canoni della narratività? Il genere del “semidocumentario”, o docu-drama o del docu-fiction, fa parte della storia del documentario: si è sempre fatto ricorso alle ricostruzioni, citiamo solo alcuni esempi celebri della storia del cinema documentario: oltre al già citato Nanook of the North, ci riferiamo a due esempi significativi come Man of Aran e Delta padano[22].

            Lo studio di B. Nichols[23] parte da una combinazione degli stili espositivi e degli aspetti contenutistici, per un’analisi delle diversità del film documentario, distinte in sei modalità prevalenti:

-            la modalità poetica, che pone una particolare enfasi sulle associazioni visive e sulle qualità di tono e di ritmo, sui passaggi descrittivi e sull’organizzazione formale; questa modalità ha forti legami con il cinema sperimentale, personale o d’avanguardia;

-              la modalità espositiva, basata fortemente sul commento verbale della voce off e sulla logica argomentativa, ed è quella che comunemente è definita come cinema documentario;

-              la modalità osservativi, che cerca un coinvolgimento diretto con la vita quotidiana dei soggetti osservati, ma con un’attenta discrezione della camera che non vuole mai essere troppo invasiva;

-              la modalità partecipativa, al contrario, è basata sull’interazione tra soggetto e regista, tanto che è composta per lo più da interviste e da materiali di archivio;

-              la modalità riflessiva richiama l’attenzione sul linguaggio filmico e cerca di aumentare la consapevolezza che la realtà rappresentata è una “fabbricazione” e non verità o racconto oggettivo e neutrale degli avvenimenti;

-              la modalità interpretativa, infine, che privilegia l’aspetto personale e soggettivo, tanto che ci si riferisce per lo più in questo caso ai film sperimentali o biografie o diari filmici, con un forte impatto emotivo sul pubblico.

            Nichols, in questa suddivisione, ne individua anche una sorta di percorso storico lineare, anche se tra una modalità e un’altra non vi è un progressivo superamento e un abbandono di una modalità per un'altra. Peraltro, tutte e sei le modalità sono praticate ancora oggi, e prese in considerazione dagli autori di film documentari. Crediamo sia una suddivisione eccessivamente rigida e che non considera la possibilità che anche in un film documentario possano coesistere più modalità contemporaneamente.

Vorremo a questo punto riprendere l’interessante analisi di Odin, che affianca alla tradizionale suddivisione in generi quella dei sottoinsiemi, definendo il corpus dei film documentari come un insieme. I sottoinsiemi sono definiti in termini di sistemi stilistici e pertanto racchiudono al loro interno i generi del documentario, ma questa suddivisione tenta di prendere in considerazione il linguaggio e i suoi codici, ricordando che la riconoscibilità o l’appartenenza a un sottoinsieme dipendono non tanto dalle “figure stilistiche in sé, ma dal loro agganciamento dalla loro combinatoria”[24]. Odin, per esempio, analizza due sottoinsiemi: il film pedagogico e il reportage. Nel primo caso i carattere essenziali sarebbero la presenza di un narratore e la visualizzazione della teoria astratta mediante l’uso di grafici e schemi, ecc. Nel secondo caso, il reportage è caratterizzato da elementi tecnico-linguistici come la camera a mano, l’empiricità dei raccordi, il sonoro in presa diretta, l’uso di interviste; il sottoinsieme reportage ingloba quindi al suo interno i film documentari etnografici, quelli di attualità, i reportages di guerra e anche film di famiglia[25]. Non tutti i film di un medesimo genere appartengono allo stesso sottoinsieme stilistico: certi reportage etnografici non si presentano come tali, bensì come film pedagogici.

Questa categorizzazione ci è sembrata particolarmente interessante perché è uno dei rari esempi di analisi delle forme, o sottoinsiemi, che partono da presupposti linguistici e non di contenuto.

Dal nostro punto di vista, riteniamo che occorra analizzare le forme del documentario, per comprendere quanto l’evoluzione tecnologica ha poi influito sullo sviluppo dell’”insieme documentario”, partendo dall’analisi dei codici tecnico-linguistici. In particolare, stiamo lavorando per definire il concetto di “forma” di un documentario attraverso l’esame del processo produttivo, e più precisamente la fase della “raccolta di materiali” (registrazione di nuove immagini accompagnate da suoni di presa diretta, o reperimento di immagini di archivio). Questo è un primo passo per una riflessione che necessita di successivi studi e approfondimenti, ma siamo convinti che quella proposta sia una chiave che può produrre risultati utili. .

            Sinteticamente, individuiamo sette diverse forme:

film documentario come documentazione di un evento unico e irripetibile, senza possibilità di intervenire su di esso;

film documentario come documentazione di più eventi simili che si ripetono, ma anche in questo caso senza possibilità di intervenire su di essi;

film documentario come documentazione di azioni con apparati di registrazione non visibili ai protagonisti delle azioni stesse;

film documentario di intervista-testimonianza;

film documentario di ricostruzione storica:

film documentario di ricostruzione contemporanea;

film documentario a base totale o parziale di archivio.

            In concreto, tentiamo di definire una per una queste varie forme di film documentario:

Documentazione di un evento unico e irripetibile

            In questo caso, si agisce in una situazione di “documentarismo filmico integrale”; gli eventi hanno una dinamica del tutto indipendente da chi li registra, e quindi chi li registra non ha alcuna possibilità di “costruire”, “ricostruire”, “far ripetere” l’azione registrata. [E’ deduzione logica che “costruire”, “ricostruire”, “far ripetere” l’azione registrata sono pratiche usate soprattutto nella realizzazione filmica di finzione].

            Un esempio significativo in quest’ambito è il film documentario lungometraggio distribuito anche nel circuito delle sale in Italia con il titolo Lo specialista[26], che è il resoconto del processo a uno dei più efferati criminali della persecuzione antiebraica del nazismo, Otto Adolf Eichmann: il film fu realizzato utilizzando le registrazioni originali e integrali del processo che si tenne a Gerusalemme nel 1961.

            Un fenomeno dove questa forma di documentazione si è sempre manifestata in maniera evidente è quello della guerra. Il rapporto tra i media audiovisivi (cinema e televisione) e la guerra presenta nella storia una serie di casi, anche molto complessi, che riguardano il controllo della documentazione, la sua manipolazione, intromissioni pesantissime dei grandi apparati, casi apparenti di documentazione su azioni di guerra commissionate e remunerate (le riprese di cecchini), addirittura azioni belliche eseguite in funzione della loro rappresentatività televisiva a livello internazionale, ecc.[27] Nella realtà effettiva, gli eventi bellici sono sempre irripetibili: ma nella loro rappresentazione filmica può avvenire il contrario; c’è un caso emblematico (per la notorietà di chi vi fu implicato) di evento non ripetibile - lo sbarco in Tunisia degli anglo-americani nel 1943, durante la II guerra mondiale - descritto in un film presentato come “documentario”, cioè come la “cronaca vera” dell’evento, che invece era stato integralmente “ricostruito” con un linguaggio tipicamente documentario[28].

Documentazione di eventi che si ripetono senza intervento registico su di essi

            Tutte le situazioni, le attività, gli eventi che hanno un carattere continuativo, nel senso che si ripetono nel tempo, sostanzialmente simili, possono essere documentati audiovisivamente senza interferire nel loro svolgimento; il loro carattere ripetitivo consente però più occasioni di riprese, così da poter effettuare la documentazione da più punti di vista, raccogliendo il materiale necessario per il montaggio.

Documentazione di azioni con apparati di registrazione non visibili

            E’ questa una forma di documentazione filmica, che dà luogo a prodotti finiti, in cui l’azione registrata avviene senza consapevolezza da parte dei soggetti “ripresi” di essere davanti all’obiettivo di una “camera” e con microfoni nascosti. E’ il fenomeno noto come candid camera, diffusissimo in tutto il mondo, utilizzato da quella tendenza cinematografica definita come cinema-verità e che anche in Italia ha avuto una forte notorietà, fin dalla trasmissione televisiva di N. Loy Specchio segreto (1964). In questa pratica, l’”invisibilità” dell’apparato di registrazione si accompagna spesso a interventi “registici” sulla situazione registrata: modalità frequenti sono pesanti “intromissioni” provocatorie di un “attore”, oppure la predisposizione di una situazione nella quale c’è la complicità di uno dei suoi protagonisti.

Intervista-testimonianza

            L’intervista-testimonianza – oltre a essere una componente del film inchiesta e del reportage – ha una sua autonomia formale, come dimostra tra l’altro la diffusione crescente nel mondo di raccolta di grandi quantità appunto di videotestimonianze di persone su eventi di particolare interesse storico. Un caso dei più importante è certamente il lavoro di raccolta di testimonianze realizzato da C. Lanzmann, realizzando l’opera monumentale Shoah (1985)[29] Il regista, mentre intervista molti dei sopravvissuti, ne riprende i loro volti e le loro espressioni, intercalate da sequenze girate oggi sui luoghi che un tempo videro gli avvenimenti dello sterminio: l’opera di Lanzmann è considerata fondamentale, sia per il rigore documentario ma anche perché rompe molte convenzioni sul cinema di memoria.  Ricordiamo anche il progetto, tra i più noti, per il rilievo che ha assunto nei media del mondo, e promosso da S. Spielberg con la Shoah Foundation, per raccogliere i racconti audiovisivi dei superstiti ebrei dei campi di sterminio nazisti. Il progetto parte dalla consapevolezza che tra non molto scompariranno tutti i testimoni diretti dell'Olocausto (sono passati ormai 50 anni dalla liberazione dei campi). Obiettivo della ricerca è rintracciare tutti i testimoni ancora viventi, intervistarli e filmarli, in maniera da avere documentazione su ogni particolare possibile riguardante lo sterminio.

Film documentario di ricostruzione contemporanea

            Il documentario di ricostruzione contemporanea è tra quelli più diffusi nella produzione audiovisiva. Per “ricostruzione contemporanea” devono essere considerati eventi, situazioni, personaggi esistenti al tempo in cui avviene la registrazione filmica.

            E’ una forma che assume via via nel tempo nomi diversi, che indicano la contiguità con altre discipline (film sociologico, film scientifico, film didattico, ecc.), oppure la committenza che li produce (film industriale, film di propaganda, ecc.).

            La pratica dominante è quella della descrizione o narrazione di situazioni reali con i personaggi reali, negli ambienti reali, ma applicando la pratica linguistica della “ricostruzione”.

            I personaggi reali sono utilizzati come “attori”, interpreti di se stessi, guidati dalla regia in base alle esigenze della ripresa, chiedendo loro di seguire le indicazioni operative necessarie per esigenze tecnico-linguistiche, e quindi ricorrendo anche alla pratica della ripetizione.

            Gli ambienti reali sono utilizzati come “set”, non dissimili dal “teatro di posa” dove tutta la scenografia è ricostruita: ma qui gli spazi e gli arredamenti sono “autentici”.

            In questa forma di “documentario di ricostruzione contemporanea” si usano sia dialoghi in presa diretta che commenti parlati fuori campo. Ricordiamo, esclusivamente a titolo esemplificativo, quattro esempi tra i tanti film documentari di questo tipo: La canta delle marane, Zavattini e ... il campo di grano con corvi di Van Gogh, N.U. Nettezza Urbana, Delta padano[30].

             I codici linguistici di questa forma sono stati utilizzati frequentemente da esperienze di film di finzione di particolare valore e connotati da una sperimentazione e da una ricerca che li rendono opere molto significative. Per dare una sola indicazione di alto valore, La terra trema di L. Visconti (1948) [che tra l’altro ha un’origine progettuale documentaria] utilizza gli abitanti di un paese siciliano identificato, Acitrezza, come protagonisti di una vicenda ispirata al romanzo “Malavoglia” di L. Verga, ma ambientata nell’anno della sua produzione, che può essere “scambiata” per la documentazione di un evento realmente accaduto.

Film documentario di ricostruzione storica

            Il documentario di ricostruzione storica ha come tematica prevalente appunto la storia, e di solito si ricorre a questa forma quando non esistono documenti filmici di repertorio con i quali realizzare appunto un film a base totale o parziale di archivio (come si definiscono tecnicamente queste due forme: si veda più avanti).

            Elemento comune in questi casi è il ricorso ai luoghi degli eventi ricostruiti, ricercando ambienti che abbiano una coerenza storica con l’epoca rappresentata.

             C’è un esempio significativo di come questa forma presenti aspetti problematici, sotto il profilo della sua definizione. La battaglia di Algeri, di G. Pontecorvo (1966), sull’inizio della lotta per l’indipendenza del popolo algerino dalla dominazione coloniale francese, in molti paesi del mondo è stato a lungo considerato come un film documentario, e proprio in quanto tale proibito da molte censure per la sua verosimiglianza.

            Tutto il cinema neorealista italiano ha un carattere stilistico nel filmare la realtà fortemente improntato a uno spirito “documentaristico”: un elemento strutturale costante è l’uscita definitiva dai teatri di posa, la scelta di “set” reali, il frequente ricorso ad attori non professionisti. Questo carattere complessivo del neorealismo ha indotto alcuni storici del cinema a ritenere che l’assenza di una “scuola italiana del documentario” in quegli anni dipenda proprio dall’”occupazione” che il cinema di finzione ha fatto dell’ambito di competenza tradizionale del film documentario. Paisà (1946), di R. Rossellini, è un film a episodi in cui ciascuno di essi ha un prologo montato con materiali d’archivio, al quale si ispirano poi le riprese effettuate da Rossellini.

Film a base totale o parziale di archivio

            Il concetto di film a base totale di archivio è chiarissimo: si tratta di un prodotto realizzato con documenti filmici di repertorio; in prevalenza si ricorre a documenti filmici provenienti dalle forme “giornalistiche” (cinegiornali, telegiornali, “attualità”, servizi audiovisivi giornalistici e di cronaca, ecc.), ma senza escludere anche il ricorso a sequenze tratte da film di finzione.

            Uno dei primi film di questo tipo è del 1927, La caduta della dinastia dei Romanov, di E. Šub: racconta la vita della corte zarista alla vigilia della rivoluzione d'ottobre. Una sua particolarità deriva dalla possibilità che la regista ebbe di utilizzare, tra le fonti primarie, le pellicole che lo zar Nicola II (o qualcuno dei personaggi del suo seguito) girava all'interno della sua famiglia, mostrando come vivevano, anche in rapporto con l'alta nobiltà russa. È un prezioso documento storico, oltre che una rilevante opera cinematografica. Un autore che realizza film a base totale di archivio, concentrandosi in particolare sugli archivi privati e familiari, è P.Forgàcs[31], per costruire in quindici anni di ricerca personale circa una ventina di film, ridefinendo il linguaggio del film a base di archivio. Sono preziosi documenti, basati su un’attenta ricostruzione storica degli avvenimenti e con l’utilizzo dei codici linguistici del fermo immagine, dei ralenty, delle accelerazioni, degli ingrandimenti, ecc. che aprono il campo anche all’analisi critica, contemporaneamente coinvolgendo anche emotivamente lo spettatore per poi lasciare lo spazio interpretativo aperto. Ricordiamo anche altri autori che si muovono in questo settore: Y. Gianikian e A. Ricci Lucchi, H. Farocki e M. Kuball.

            Il film a base parziale di archivio è invece un prodotto che utilizza i materiali di repertorio filmico come elemento strutturale, articolandoli con riprese contemporanee (interviste e/o testimonianze, riprese di luoghi, di documenti iconografici e fotografici, di videografica, ecc.): due esempi di film, anche se molto diversi, Fahrenheit 9/11 [32], ricco di materiali d’archivio soprattutto di origine televisiva, che è la base per l’inchiesta svolta dal regista sulla figura del presidente degli Usa George Bush, e Grizzly Man[33] che racconta la vita di Timothy Treadwell, ambientalista e studioso di animali, che per scelta personale viveva diversi mesi l’anno in Alaska, a contatto con i grizzly, i temibili e pericolosi orsi grigi. Il film è basato soprattutto sulle riprese video realizzate dallo stesso Treadwell, che sono analizzate e commentate dallo voce off di Herzog, contrappuntate poi con le interviste più recenti alle persone che conobbero e amarono l’ambientalista.

            A fianco a queste sette forme, vogliamo ancora ricordare tre diverse tipologie di cinema documentario, che si manifestano anche numerose, e che sono difficilmente inseribili nelle forme sopra esposte, perché sono spesso trasversali a quasi tutte le forme, oppure perché hanno una forte specificità: i film-inchiesta, i film metalinguistici e i film sperimentali.

Inchiesta-reportage[34]

            Questa forma di film documentario è tra le più diffuse dai primi decenni del cinema. Proprio per la sua importanza e centralità, proprio perché in essa sono presenti le ricerche più significative, proprio perché è in questa forma che si sperimentano le modalità più significative della “natura documentaria” del linguaggio filmico, anche in rapporto ad altre discipline socio-antropologiche.

            E’ evidente che l’elemento connotante un’”inchiesta” sia appunto la “ricerca approfondita”; ma ci preme chiarire che essa non implica automaticamente - come talvolta si è indotti a pensare - l’”obiettività”: anzi, proprio come ricerca, esprime il punto di vista di chi la conduce, e le conclusioni che trae sono a nostro avviso tanto più valide se si traducono in una messa a disposizione di tutti degli elementi rintracciati, delle possibili diverse versioni dei fatti, permettendo pertanto a ciascuno di farsi la propria opinione. E’ altresì evidente che il termine inchiesta è passato dal giornalismo al cinema e alla televisione (insieme ad altri, come reportage o “servizio”); e ciò è avvenuto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, allorché sulla scena delle cosiddette “comunicazioni di massa” è apparsa la televisione. Poi, in particolare negli anni ’50-’60, quando si è voluto accentuare l’aspetto linguistico delle immagini in movimento, sono state coniate altre espressioni: cinema-diretto, cinema-verità ecc. Con l’avvento del digitale, questa forma di documentario si è diffusa enormemente, e un’evidente dimostrazione di questo sono i tanti film reportage in particolare nei paesi in via di sviluppo o nelle zone di guerra. La tecnologia digitale consente una maggiore mobilità e anche troupes composte da due o anche una sola persona, pertanto si accrescono le potenzialità produttive, con un notevole ridimensionamento dei costi, ma anche un approccio alla realtà molto più vicino e diretto, con un atteggiamento di critica e di denuncia nei confronti delle povertà, delle disuguaglianze e delle guerre. ABC Africa di A. Kiarostami è un film del 2001, girato con due camere digitali in sette giorni, ed è un film importante perché non si compiace delle immagini di disperazione e di povertà, ma che utilizza la metonimia e la metafora per colpire direttamente con la denuncia la visione dello spettatore.

Film documentari metalinguistici

             Sono film che analizzano e raccontano con lo stesso linguaggio filmico il cinema: i processi produttivi filmici, i backstage, i diari di lavorazione, i film biografici sugli autori, fino ai film che analizzano il linguaggio cinematografico. Qualche esempio. Il film bio-autobiografico che W. Herzog dedica all’attore-feticcio del regista tedesco, Klaus Kinski. Il film al confine tra il documentario e la messa in scena nel quale W. Wenders ricostruisce, con l’aiuto degli allievi di una scuola di cinema, i film muti dei pionieri tedeschi del cinema. Un film in cui K. Fulton e L. Pepe raccontano come sia difficileper il regista Terry Gilliam realizzare un film su Don Chisciotte, anche se si ha un budget di milioni di dollari. Un “diario cinematografico” di J.L. Godard, che si snoda attraverso anni: è un esperimento estremo – come sempre accade con Godard - vicinissimo alla videoarte, nel quale la  memoria del cinema è recuperata mescolando citazioni consistenti in sequenze di film, quadri, musiche, passaggi sonori e scritte sullo schermo[35].

Documentari sperimentali

            Sono film che sfuggono a una categorizzazione per il carattere innovativo, sperimentale, della struttura costruita, dove il linguaggio mescola generi di finzione e pratiche documentarie.

            Con A propos de Nice (1930), J. Vigo inventa una formula che è ancora valida: il phamplet di critica sociale, innovando profondamente il linguaggio filmico, e dichiarando l’assurda pretesa di neutralità del cinema documentario. Assieme a Boris Kaufman, fratello di Vertov, scrive la sceneggiatura e gira la fatuità della vita turistica di Nizza: il casinò, il carnevale, la spiaggia, i bar con i tavolini al sole, mettendo in rilievo, attraverso un montaggio incalzante, le profonde differenze tra ricchi e poveri e accostando immagini provocatorie grottesche e irreali. Il film, secondo Vigo, vuole mostrare "quanto siano diffuse quelle volgari voluttà poste sotto il segno del grottesco, della carne e della morte e che costituiscono gli estremi sussulti di una società che rinnega sé stessa fino a provocare in te la nausea e la voglia di una soluzione rivoluzionaria"[36].

            Un altro esempio molto significativo di questa categoria “eccezionale” è F for Fakes (1975), di O. Welles, che non casualmente affronta il tema del “falso” nell’arte, partendo da quella pittorica, ma allargandosi poi ad altri settori. Molti anni prima, nel 1942, sempre Welles aveva cercato di ridisegnare i confini tra il documentario e la finzione in un film purtroppo mai terminato[37].

Infine

Crediamo che la cosiddetta rivoluzione digitale non sia tale, bensì siamo di fronte a cambiamenti trasformazioni e mutazioni, ma non a radicali stravolgimenti linguistici e di forma del cinema documentario. Il digitale, proprio come il sonoro e il colore, non deve essere considerato una rivoluzione, ma un'evoluzione del linguaggio cinematografico.

L'apparenza avveniristica delle moderne tecnologie digitali applicate al cinema non nasconde, anzi esalta l'essenza finzionale-spettacolare del cinema di finzione in particolare. Tutte le innovazioni tecnologiche quindi risultano essere alla fine solo dei mezzi accessori che non possono aggiungere molto a quello che è l’essenza: il linguaggio del cinema stesso.

La vera trasformazione si muove su due livelli dal nostro punto di vista.

Un aspetto formale che è investito dalle tecnologie digitali è quello relativo alla distinzione tra film finito e film non finito. La stessa natura della “documentazione filmica”, coincidente nel passato con il film non finito, acquista un nuovo status. Questa distinzione – sempre esistita – un tempo comportava la conseguenza che i film non finiti non erano visti (se non negli archivi, e da parte di ricercatori). Le potenzialità delle tecnologie digitali rimettono fortemente in discussione questa categoria. Già esisteva una contraddizione nella concezione del film non finito, quando si rifletteva sulle documentazioni di famiglia, girate in formati come il super8 o affini. I materiali girati dai cine-amatori hanno un valore a sé stante, sono film che si fermano alla fase di ripresa, effettuando il cosiddetto montaggio in macchina. Hanno pertanto un valore e una possibilità di circuitazione autonoma. Sono al contempo preziosa fonte di storia e memoria, ma anche altro, e lo dimostrano l’interesse e le nuove sperimentazioni nell’ambito della forma che abbiamo definito film a base parziale o totale di archivio. Con le tecnologie digitali questo è ancora più vero. Da un esame sommario dei film presenti sul web, per esempio su YouTube o MySpace, emerge il dato di un’amplissima produzione e diffusione sia di film finiti che di film non finiti: il film non finito diventa una forma autonoma che si autolegittima e si autopresenta in quanto tale. 

Un secondo aspetto: il cinema digitale mette in discussione il concetto di Godard di verità a ventiquattro fotogrammi al secondo? W.J. Mitchell  richiama la nostra attenzione su ciò che definisce la "mutabilità intrinseca" dell’immagine digitale, partendo dall’analisi della fotografia digitale[38].

La caratteristica essenziale dell’informazione digitale è che può essere manipolata facilmente e molto rapidamente. Si tratta solo di sostituire nuovi bit a quelli vecchi... Gli strumenti che i computer utilizzano per trasformare, combinare, alterare e analizzare le immagini, sono essenziali per il programmatore quanto i pennelli e i pigmenti per un pittore.

            Forse quello che cambia è proprio il rapporto tra realtà e finzione?

Il connubio informatica e cinema porta a generare immagini prive di una matrice fisica. A differenza del cinema tradizionale, ma anche della fotografia, l’immagine digitale si presenta come una pura astrazione matematica, algoritmica, che per essere credibile deve fare i conti con la realtà da un lato, e dall’altro con le rappresentazioni artistiche create dall’uomo. Inoltre, il rapporto di fiducia che si instaura tra lo spettatore e il film che sta vedendo, è stato finora basato su un affidamento e un patto: ciò che mi è mostrato è verosimile e appartiene al mondo reale, per cui definisco documentario quanto vedo. Ma con le immagini digitali questo può esser messo in discussione. L’immagine proiettata ha un rapporto diretto con le immagini “reali”, ovvero che vedremmo se fossimo realmente presenti; ma con il cinema digitale tali immagini si possono creare artificialmente e possono essere trattate dai software, costruite meccanicamente, come se fossero state riprese dalla realtà, ma non è così. Non si può garantire che le immagini che vediamo siano le stesse che avremmo potuto vedere se fossimo stati realmente presenti. Quando crediamo che ciò che vediamo rispecchi il mondo, fondiamo su questa certezza le nostre idee e azioni all’interno di questo mondo. Ma se tutto questo è messo in discussione dalle tecnologie digitali? Qual è il nuovo patto che si instaura tra lo spettatore e il film documentario?

            Crediamo che la fiducia e il patto debbano essere continuamente ridisegnati e ridefiniti. E ci aspettiamo questo dal cinema documentario che verrà.

Se il cinema documentario persegue in questo percorso di sperimentazioni, senza pregiudizi di forme e tecnologie, allora potrà trasformarsi in un luogo senza confini standardizzati, in una “fabbrica di fatti”che rielabora le immagini trasformandole in simboli, in pensieri astratti, per permetterci di creare un nuovo rapporto con una contemporaneità in piena contraddizione e trasformazione.


[1]              D. Vertov: “Una fabbrica di fatti. Una ripresa di fatti. Una selezione di fatti. Una diffusione di fatti. Una agitazione dovuta ai fatti.Una propaganda coi fatti. Una valanga di fatti. Fulmini di fatti. Moli di fatti. Uragani di fatti .E anche piccoli fatterelli isolati.(…)” da Ejzenstejn, Feks, Vertov, Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS, a cura di P. Bertetto, Feltrinelli, Milano 1975.

[2]           A. Astruc, “Naissance d’une nouvelle avant-garde”, “L’’Ecran français”, n. 144, 30 marzo 1948.

[3]              C. Zavattini, “Alcune idee sul cinema, in Rivista del cinema italiano, Fratelli Bocca Editori, dicembre 1952, pp. 5-19. Si tratta di idee “raccolte dalla viva voce di Zavattini in una conversazione che Michele Gandin ha avuto con lui”.

[4]           A. Masson, L'image et la parole, Parigi , La Différence, 1989 (citato in J.L. Leutrat, Il cinema in prospettiva: una storia, Genova, Le Mani, 1997, p.74).

[5]              Queste dichiarazioni Zavattini le pronunciò in un’intervista filmica del 1968, che appartiene alla Fondazione Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.

[6]              You Tube è un sito che ospita video amatoriali realizzati dagli iscritti e condivisi con gli altri utenti. Nato nel 2006 come evoluzione del blog, si è in pochi mesi affermato in modo esponenziale come nuova forma di fruizione amatoriale non a pagamento del video. Dai primissimi video fatti di riprese fisse realizzati con videofonini o webcam, si è arrivati a una varietà incalcolabile di contributi, molti dei quali sono girati appositamente e montati, in modo sempre amatoriale. You Tube permette di produrre e distribuire a costo zero i propri film, ed è una tappa fondamentale del cammino evolutivo della rete Internet, confermata dal recente acquisto del sito da parte di Google per la somma di 1,65 miliardi di dollari, il più grande motore di ricerca mondiale.Oggi You Tube è il sito Internet che presenta il maggior tasso di crescita. L’azienda ha comunicato che quotidianamente sono visualizzati circa 100 milioni di video, con 65.000 nuovi film aggiunti ogni 24 ore. L'azienda di analisi Nielsen/NetRatings valuta che il sito ha circa 20 milioni di visitatori al mese.

                MySpace è una comunità virtuale nata nel 1998. Offre ai suoi utenti, oltre ai blog, profili personali, gruppi, foto, film video musicali. È attualmente il sesto sito più popolare al mondo, il quarto tra quelli in lingua inglese e il terzo negli Stati Uniti. Grazie a questo spazio su Internet, molti gruppi musicali sono diventati famosi ancora prima di mettere effettivamente sul mercato i loro dischi.

[7]              Un esempio emblematico è il film La rieducazione del collettivo Amanda Flor, presentato al Festival di Venezia (T.Fabiani, “Venezia, arriva al Festival il sogno d quattro ragazzi di periferia”, «La Repubblica», 01/08/06, http://www.repubblica.it/2006/a/sezioni/scuola_e_ universita/ servizi/giovaniarte/film-rieducazione/film-rieducazione.html.

[8]              Per citarne soltanto alcuni: La casa delle vedove, di G. V. Baldi, 1960; La taranta, di G Mingozzi, 1962; Il male di san Donato, regia di L. Di Gianni, 1965.

[9]              Tra i documenti audiovisivi che la Rai conserva ma di cui è assai difficile la consultazione, ci sono tantissime inchieste; ne citiamo soltanto qualcuna, significativa per i temi e per i nomi, come i “viaggi” di M. Soldati (Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, 12 puntate nel 1957-58; e Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno, 7 puntate, 1959-1960); o di V. Sabel (Viaggio nel Sud, 10 puntate, del 1958) o di U. Zatterin (Viaggio nell’Italia che cambia, 1963), che realizza anche le 8 puntate de La donna che lavora, nel 1959.

[10]            I misteri di Roma, soggetto e sceneggiatura di C. Zavattini, regia G. Bisiach, L. Bizzarri, M. Carbone, A. D'Alessandro, L. Del Fra, L. Di Gianni, G. Ferrara, A. Giannarelli, G. Macchi, L. Mazzetti, M. Mida, E. Muzii, P. Nelli, P. Nuzzi, D.B. Partesano, G.Vento, 1963.

[11]            Diario di bordo di A. Giannarelli e P. Nelli, 1967.

[12]            Invece del termine “genere”, utilizzo consapevolmente quello di “insieme”, adoperato da Roger Odin, e non “genere” perché ritengo sia utile rifarsi alle sue analisi teoriche (R. Odin, Film documenaire lecture documentarisante, in Cinémas et Réalités, Univérsité Saint-Etienne, CIEREC, 1984).

[13]            C. Metz, Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977, p. 64.

[14]            Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le maschere, 1954.

[15]            L’Oxford English Dictonary, definisce il documentario a partire dalle sue forme; “film che tratta una vicenda naturale, archeologica, industriale, di viaggi, o di soggetto similare, generalmente accompagnata da una narrazione esplicativa fuori campo”, Oxford, Claredon, 1933.

[16]            Nanook of the north, di Rober J. Flaherty, 1922.

[17]            Come per esempio, Dinamiche di una metropoli di Laszlo Moholy Nagy, 1922; Moskwa di Michaele Kaufman (fratello e collaboratore di Vertov), 1926; Nient’altro che le ore di Alberto Cavalcanti, 1926; Berlino sinfonia di una grande città regia di Walter Ruttmann, 1927.

[18]         L’esperienza compiuta nella sezione cinematografica di un organismo pubblico di controllo sui prezzi nell’impero britannico (l’EMB, Ufficio di controllo dei prezzi dell'impero britannico)e poi in un ufficio delle poste inglesi (il GPO), lo portò a realizzare lui stesso film d’inchiesta sociale e a coordinare il lavoro di un gruppo di registi (oltre lo stesso Flaherty, con lui collaborarono Alberto Cavalcanti, Paul Rotha, John Taylor, Basil Wright e tanti altri) che condividevano il suo progetto e le sue idee.

[19]            La stessa ispirazione è alla base dell’impostazione produttiva del National Film Board in Canada, che Grierson diresse a partire dal 1939, e che è diventato uno dei centri di produzione del cinema documentario più importanti nel mondo, con una ricchissima produzione di veri e propri film-inchiesta.

[20]            G.P. Bernagozzi analizza in dettaglio questi generi nel libro Il cinema corto, il documentario nella vita italiana 1954 – 1980, Firenze, La casa Usher, 1979.

[21]            R. Nepoti, Storia del documentario, Bologna, Patron Editore, 1988, p.164.

[22]            Man of Aran (L’uomo di Aran), di R.J. Flaherty, 1934, Delta padano di F.Vancini, 1951.

[23]            B. Nichols, Introduzione al documentario, Milano, Il Castoro, 2006.

[24]            R. Odin, Film documenaire lecture documentarisante, in Cinémas et Réalités, cit. pp.272.

[25]            “Nulla distingue per esempio a livello stilistico i film di famiglia dagli altri tipi di reportage; la differenza ad esempio non è neppure a livello dei contenuti veicolati (…), ma in condizioni pragmatiche particolari:la lettura dei film di famiglia si fa in riferimento a una dieresi anteriore al film (i ricordi del vissuto…” (R. Odin, Film documentaire lecture documentarisante, in Cinémas et Réalités, cit.pp 271).

[26]            Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne, di Sivan Eyal, produzione Momento, Israel/France/Allemagne/Autriche/Belgique, 1999, durata 2h08.

[27]            Si veda, sulla guerra in Iraq del 2003, il volume a cura di A. Medici Schermi di guerra – Le responsabilità della comunicazione audiovisiva, Annali 2003 dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Ediesse, Roma.

[28]            E’ lo stesso autore di questa “mistificazione” - il regista nordamericano John Huston - a raccontarla nella sua autobiografia Cinque mogli e sessanta film, Roma Editori Riuniti, 1982, pp. 129-131. 

[29]            Shoah, di C. Lanzmann, Francia. 1985, durata 570' divisi in due parti di 263’ e 307’. E’ un film-documento imponente per durata, e si configura come la risposta europea alla omonima fiction seriale della tv Usa, scartando la ricostruzione e basandosi invece sulle testimonianze dei protagonisti.  Il tema è il genocidio degli ebrei europei nel corso della seconda guerra mondiale. Tre anni e mezzo di ricerca condotta in quattordici paesi, dieci periodi di ripresa tra il 1976 e il 1981, 350 ore di materiale filmico raccolto: un impegno eccezionale per realizzare quella che a tutt’oggi è considerata l’opera fondamentale per la comprensione della Shoah. E’ basata esclusivamente su riprese contemporanee dei luoghi ma soprattutto di testimonianze delle vittime, degli spettatori e dei carnefici, che ricostruiscono, incalzati dal regista, un passato che non può essere rappresentato. E’ dall’apparizione del film che si è imposto il termine “Shoah” per indicare la tragedia dell’olocausto (ndr).

[30]            N.U. regia di M. Antonioni, 1948; Delta padano, di F. Vancin, 1951; La canta delle marane, di C. Mangni, 1960; Zavattini e ... il campo di grano con corvi di Van Gogh di L. Emmer, 1972.

[31]            Per la biofilmografie del regista: Private Europe: il cinema di Péter Forgács, a cura di Luca Mosso, Milano 2003, e anche il saggio di Archeologia della memoria privata. La ri-contestualizzazione filmica di Péter Forgács di Paolo Simoni.

[32]            Fahrenheit 9/1, di M. Moore, 2004.

[33]            Grizzly Man, di W. Herzog, 2005.

[34]            Non ci soffermiamo nella descrizione di questa forma, perché è nota a tutti ed è parte della storia dell’insieme cinema documentario. Ricordiamo solo alcuni film, anche molto diversi tra loro: Tire die, di F. Birri, 1958; Comizi d’amore, di P.P. Pasolini, 1963; The fog of war, di E. Morris, 2003, Capturing the Friedmans (Una storia americana), di A. Jarecki, 2003.

[35]         Kinski - Mein Liebster Feind (Kinski - Il mio nemico più caro), di W. Herzog, 1999  I fratelli Skladanowsky (Die Gebruder Skladanowsky), regia di W.Wenders, 1995; Lost in La Mancha, di L. Pepe e K. Fulton, 2002; Histoire(s) du cinema, di J.L. Godard, 8 puntate, 1988-1997.

[36]            La frase di J. Vigo è in http://www.girodivite.it/antenati/cinema/_vigo_j.htm.

[37]            It’s all true, girato nel 1942 da O. Welles, poi rimontato e terminato nel 1993 da R. Wilson, B. Krohn, M. Meisel.

[38]         William J. Mitchell, The Reconfigured Eye, Visual Truth in the Post-Photographic Era, MIT Press. 1992.

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