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Giovanna, di Gillo Pontecorvo. Un film sulla problematica lavorativa femminile nei documenti d'archivio
Venerdì, 11 Aprile 2014

Giovanna, di Gillo Pontecorvo. Un film sulla problematica lavorativa femminile nei documenti d'archivio

Silvia Pagni
Sezione Studi

In calce il saggio in pdf comprende alcune immagini.

Abstract

Il saggio ricostruisce la fase ideativa, nonché la realizzazione, di Giovanna (1956) di Gillo Pontecorvo, episodio della coproduzione internazionale La Rosa dei Venti, curata da Joris Ivens, attraverso l’analisi dei documenti conservati a Roma presso l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.

Analizzando la sceneggiatura di Franco Solinas, le interviste rilasciate dal regista e dai suoi collaboratori emergono gli elementi fondamentali della poetica di Pontecorvo: innanzitutto la fedeltà alla verità dei fatti e la fiducia in una resa realistica degli eventi e delle persone. Non essendo legato a vincoli di mercato, fin dall’inizio Pontecorvo escluse la possibilità di girare con attori professionisti andando alla ricerca di “facce vere”, di donne autentiche, che con la sola presenza potessero efficacemente rappresentare la  battaglia lavorativa. Sempre in ottemperanza alla “dittatura della verità” si scelse di girare il film in uno stabilimento industriale a Prato.

I documenti d’archivio relativi al film testimoniano la volontà di realizzare un’opera dal forte messaggio sociale, in grado di raccontare lo spirito delle lotte delle lavoratrici del  secondo dopoguerra, concentrando l’attenzione sulle autorganizzazioni spontanee che nascevano nelle fabbriche occupate.

Il film è visionabile sul canale YouTube della Fondazione AAMOD: http://www.youtube.com/watch?v=a5a4JsvGXZ8.

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This essay begins with the description of the creative and production phases of Giovanna (1956) by Gillo Pontecorvo, an episod of the international co-production La Rosa dei Venti, through the analisys of the documents kept in Rome, at the Audio-Video Library of the Democratic Labor Movement.

Going through the script by Franco Solinas and the interviews released by the director and his closest assistants, we can clearly see all the basic elements forming Pontecorvo’s philosophy: that is the faithfull representation of the facts and the genuinity of the caracters involved in the events. Pontecorvo was not conditioned by the movie industry market and, since the very beginning, he chose to work with non-professional artists, looking for faces of women who, through their features, would strongly represent their social status and working struggle. Furthermore, to be faithfull to his “dictatorship of the truth” he decided to film the movie in a real industrial plant (Prato).

All the documents in the archives, relative to the film, indicate the desire to make a film with a strong social message telling the spirit of the struggle of the working women after the war; concentrating on the self spontaneous organization that began in the occupied factories.

The film on YouTube AAMOD Channel: http://www.youtube.com/watch?v=a5a4JsvGXZ8.

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La genesi del film: La Rosa dei venti

Dopo un passato di comandante di una brigata partigiana, Gillo Pontecorvo[1] iniziò la sua carriera cinematografica come assistente dei registi francesi Yves Allégret e Joris Ivens.

 Al dopoguerra risale il suo incontro con Franco Solinas[2], quando lo scrittore era critico cinematografico del quotidiano «l’Unità» e proprio con Giovanna iniziò la stretta collaborazione fra Solinas e Pontecorvo che assieme sceneggiarono poi La grande strada azzurra (1957), Kapò (1959), La battaglia di Algeri (1966), Queimada (1969). Giovanna in particolar modo segnò l’inizio di un sodalizio contraddistinto dal comune impegno su tematiche di carattere politico e sociale.

All’epoca del loro primo incontro, Pontecorvo aveva circa quarant’anni, mentre Solinas dieci anni di meno, ma subito si sviluppò una forte empatia. Gillo lo descriveva come «un’anima incorrotta e spigolosa, impossibile da piegare ai compromessi, alle bugie»[3].

Nel 1954 si svolse a Berlino una riunione della Deutsche Film-Aktiengesellschaft, DEFA[4], associazione cinematografica della Repubblica democratica tedesca, nella quale si elaborò il progetto di un film a episodi sui problemi lavorativi delle donne. Il film era curato da Joris Ivens[5] e i singoli episodi diretti da un gruppo di registi internazionali oltre allo stesso Ivens, Cavalcanti, Viany, Gerasimov, Bellon, Vuo Kuo Yin. Lo scopo era quello di  raccontare la realtà delle donne in Francia, Brasile, Russia, Cina, Italia[6].

Come ricorda Ivens, che nella Rosa dei venti ricopriva il ruolo di direttore artistico:

non si trattava, come al solito, di un’abile combinazione commerciale fra capitale bancario e cinematografico, la cui garanzia viene rappresentata dalla collaborazione obbligatoria di attori di gran fama. La nostra coproduzione era una stretta collaborazione fra tutti i registi, che prendevano insieme le decisioni necessarie, per poi realizzarle di comune accordo[7].

Il progetto aveva chiari intenti politici, ma le rappresentanti della Woman’s International Democratic Federation e il Documentary Filmstudio della DEFA volevano evitare un’opera di aperta propaganda, si voleva far sì che dal confronto dialettico fra le vicende ambientate nei paesi socialisti e  quelle dei paesi capitalistici emergesse la necessità di portare avanti la lotta di classe anche attraverso il ruolo delle donne[8].

 In una lettera, la segretaria generale dell’organizzazione, la signora Marie Claude Vaillant-Couturier, esprimeva rammarico per l’episodio sovietico che, narrando la storia di una ragazza che parte per la Corea, aveva disatteso l’intento di non fare un film di aperta propaganda. Se il film parlava della Corea era probabile che il film venisse censurato proprio in quei paesi dove era più importante diffonderlo[9].

In particolar modo la segretaria sollecitava la necessità di rappresentare una donna che rivestisse un incarico lavorativo essendo al tempo stesso una madre di famiglia. Si sentiva l’esigenza di confutare quanto sostenuto dalla propaganda capitalistica in merito all’assenza in Unione Sovietica di una vera vita familiare.

Lo scopo che era stato disatteso era quello di dimostrare alle donne che la vita piena della donna cinese e della donna sovietica è nella lotta per i loro diritti, come nella felicità familiare che possono conquistare per i loro figli.

Anche se l’episodio sovietico non convinse, a Ivens, che coordinava il film, fu riconosciuto il merito di aver mostrato donne che lottano facendo affidamento solo su se stesse, senza diktat di partiti.

La Rosa dei venti nella versione conservata dal Bundesarchiv di Berlino si apre con un prologo in cui Melene Weigel, moglie di Bertol Brecht, spiega il progetto del film mostrando su un mappamondo i luoghi dove si svolgeranno i fatti. L’episodio brasiliano ripercorre l’itinerario di poveri braccianti verso San Paolo; la giovane protagonista Ana induce i suoi compagni a ribellarsi al caporale e alla schiavitù del loro lavoro.

L’episodio sovietico, che in parte fu modificato accogliendo alcuni suggerimenti della Vaillant-Couturier, è basato sul contrasto amoroso fra Nadesha e Geisha: la giovane donna vuole imbarcarsi e abbandonare il suo kolchoz, il suo innamorato alla fine decide di seguirla.

L’episodio francese segue l’insegnante progressista Jeanine nella sua lotta per evitare che le povere famiglie dei suoi alunni  vengano sfrattate dalle loro case.

Dopo l’episodio italiano, segue quello cinese a chiudere il racconto. Chen Hsiu Hua è una giovane donna alla guida di una fattoria collettiva nella Cina socialista, gli uomini contestano questo suo ruolo dirigenziale, ma alla fine la donna ottiene un bel raccolto dimostrando le sua capacità[10].

Per questo progetto il regista Ivens non poteva contare sui finanziamenti di cui aveva beneficiato per Il canto dei fiumi e quindi si trattava di trovare aderenti all’iniziativa entusiasti del progetto e disposti a lavorare, a prescindere dai compensi.

Come testimoniato da una lettera datata, 3 marzo 1954[11], ben presto Ivens si mise in contatto con Alberto Cavalcanti, chiedendogli di dirigere l’episodio brasiliano. Dalla lettera emerge che erano in progetto due differenti film: uno di natura commerciale con cinque episodi e uno non commerciale in 16 mm, che avrebbe dovuto mostrare anche la parte organizzativa della Federazione internazionale democratica delle donne. Per ogni episodio era prevista una durata fra i dieci e i quindici minuti «una sorta di breve racconto in uno stile realistico fra fiction e documentario»[12].

Al di là degli scarsi mezzi finanziari, Ivens confidava nella generosità dei cineasti dei vari paesi partecipanti per realizzare un collettivo cinematografico internazionale. In maniera ottimistica Ivens credeva che in pochi mesi si sarebbe potuto completare l’opera e per l’autunno seguente immaginava un primo incontro a Berlino presso la società cinematografica DEFA, per visionare il girato dei film. Per questo invitava Cavalcanti a portare l’episodio nella sua forma finale, con la musica, per montarlo insieme agli altri. I tempi però si dilatarono parecchio e soprattutto la gestazione dell’episodio italiano fu laboriosa.

 In un primo momento Giuseppe De Santis doveva dirigere l’episodio italiano, poi la DEFA si mise in contatto con Giuliano De Negri ( futuro produttore dei fratelli Taviani), che si rivolse a  Gillo Pontecorvo.

In una lettera di Ivens, datata 11 dicembre 1955, apprendiamo quanto Ivens avesse a cuore l’episodio italiano e come avesse inviato in Italia Alberto Cavalcanti con pieni poteri per aiutare  Pontecorvo a finire il lavoro. [13]

L’episodio italiano: Giovanna

Al suo esordio nella fiction, Pontecorvo aveva la possibilità di girare senza compromessi e senza vincoli di mercato.  La troupe si riduceva a pochi collaboratori, legati da vincoli di amicizia, che lavorarono con grande affiatamento: l’ex critico cinematografico de «l’Unità», Franco Giraldi[14], come aiuto regista, Erico Menczer[15], al suo esordio come direttore della fotografia, Giuliano Montaldo[16], che fu assieme assistente alla regia e direttore di produzione e che proprio per gestire l’operazione fondò la Tirrenica film, destinata a terminare la propria attività proprio con Giovanna.

Pontecorvo lavorava a stretto contatto con Solinas, la mattina veniva discussa ogni scena minuziosamente e il pomeriggio lo sceneggiatore si metteva al lavoro sul copione secondo quanto stabilito, arricchendolo però di dettagli e spunti[17]. Il perfezionismo di Pontecorvo in parte rallentava le decisioni, la scelta di una scena o di una battuta, comportante l’esclusione delle altre alternative, rappresentava una scelta sofferta per il regista. Questo aspetto lo si evince da un confronto fra la sceneggiatura dattiloscritta conservata dall’Archivio del movimento operaio e democratico[18] e la sceneggiatura definitiva. Difatti, pochissime sono le battute eliminate, nessuna sequenza fu tagliata ma eventualmente solo modificata nei particolari[19].

In Giovanna sono già presenti gli elementi fondamentali della poetica di Pontecorvo: innanzitutto la fedeltà alla verità dei fatti e la fiducia in una resa realistica degli eventi e delle persone.

Fin dall’inizio Pontecorvo escluse la possibilità di girare con attori professionisti, andando alla ricerca di facce vere, di donne autentiche che con la sola presenza somatica potessero efficacemente rappresentare questa battaglia lavorativa. Si decise anche di non ricostruire i luoghi, ma di cercare una vera fabbrica in cui girare. La ricerca delle protagoniste e della fabbrica non fu facile e si protrasse per mesi; le prime riprese furono girate nell’autunno del 1955, fra metà ottobre e novembre.

Nonostante le difficoltà tutti lavorarono insieme in un clima di straordinaria dedizione alla causa. Pontecorvo inviava Franco Giraldi nei mercati a fotografare facce di donne singolari, espressive; in un’intervista l’aiuto regista  ricorda le sue ricerche:

devo dire che già allora Gillo aveva una specie di culto dell’autenticità del volto umano. A lui più che un attore interessava una faccia che esprimesse una luce, un segreto[20].

La protagonista del film, Armida Gianassi, ricorda come si trovasse un pomeriggio a ballare al circolo Rossi a Prato e di come fu avvicinata per un provino da alcuni signori che erano in compagnia del sindaco della città, Roberto Giovannini.

Armida era una ragazza dell’epoca appartenente alla classe operaia, una giovane donna che la mattina si alzava molto presto per andare a lavorare e che non aveva potuto studiare perché la sua famiglia non poteva permettersi di mantenerla agli studi, in questo senso una donna lavoratrice autentica che conosceva la fatica del lavoro, così come le molte lavoratrici tessili che fecero parte del cast del film e che furono scelte dal regista per interpretare le varie operaie[21].

Pontecorvo si rivolse ad Anna Fondi, allora segretaria dell’Unione donne italiane, UDI, per trovare le donne che dovevano partecipare al film. I soldi mancavano e la paga giornaliera offerta alle attrici era di 1500 lire al giorno, una cifra misera per l’epoca, ma numerose operaie accettarono con entusiasmo, in particolar modo donne che proprio per le loro battaglie sindacali erano state licenziate dalle fabbriche dove lavoravano[22].

I provini furono fatti in una stanza messa a disposizione dal comune di Prato principalmente senza macchina per risparmiare pellicola. Fu scelto di girare a Prato per la sua urbanistica caratterizzata da molte fabbriche di fine Ottocento davanti alle quali scorrevano spesso canali d’acqua. In realtà la cittadina toscana fu selezionata perché, visto lo scarso budget, si sperava che un’amministrazione di sinistra avrebbe rappresentato un punto di partenza favorevole. La costumista e scenografa Elena Mannini, allora studentessa diciassettenne dell’Istituto d’Arte di Firenze, racconta la grande generosità della popolazione pratese, che fornì tutto il necessario per il film. Il comune per esempio fornì le uniformi da carabinieri e le tute da officina[23].

Tutti si resero disponibili, per esempio quando Gillo cercava un bambino in fasce, Gracco Giustiniani, all’epoca segretario CGIL, si offrì col suo bambino. Il sindacato forniva anche panini a tutti coloro che lavoravano gratuitamente alla realizzazione del film in uno  spirito di aiuto collettivo[24].

La principale difficoltà fu quella di trovare uno stabilimento per girare il film, perché non c’erano i soldi per ripagare il proprietario dell’incomodo; qualche industriale  si illudeva di poter ricavare pubblicità dal film ma Giuliano Montaldo diceva chiaramente che il tema del film era l’occupazione di una fabbrica. Un giorno avvistarono una fabbrica tessile molto bella[25] e convinsero il proprietario a prestare la fabbrica anche con qualche piccola astuzia, per esempio raccontando che la trama del film era relativa ai rapporti lavorativi fra le operaie e alle loro piccole conflittualità quotidiane.

Pontecorvo e Solinas furono particolarmente colpiti dalla struttura della fabbrica che presentava un corso d’acqua e delle cancellate  davanti alle finestre e proprie queste finestre carcerarie potevano rendere bene il senso di emarginazione delle donne.

A riprese iniziate, il proprietario intuì che la storia del film era diversa, ma con grande generosità non solo prestò la fabbrica  senza pretendere alcun rimborso, ma consentì anche di utilizzare la corrente dei suoi contatori.

Il maggior problema del film fu la presa diretta, perché nei reparti dove non si girava i telai dello stabilimento erano in funzione e il rumore dei macchinari in sottofondo contrastava con le scene di occupazione delle operaie. Pontecorvo fu costretto a doppiare  quasi tutto il film, si mise alla ricerca di altre voci dall’accento toscano,  ma si dovette accontentare perché le risorse economiche erano scarse.

Franco Giraldi ebbe anche l’incarico di registrare i rumori dei telai in varie tonalità e i rumori di queste attrezzature con i loro tran-tran diventarono la colonna sonora del film, sottolineando i momenti più drammatici della storia[26].

Come raccontato in un’intervista da Pontecorvo, lo sciopero alla rovescia, ovvero l’occupazione di una fabbrica per evitare la sua chiusura, era una delle forme di lotta tipiche degli anni Cinquanta. Anche se il film non ricostruisce un episodio realmente accaduto, indubbiamente ricostruisce molto bene lo spirito delle lotte dei lavoratori del dopoguerra, in particolar modo le autorganizzazioni spontanee che nascevano nelle fabbriche occupate.

Nella stessa Prato vi era una notevole partecipazione delle donne alla vita politica e sindacale, molte donne furono licenziate per attività sindacale e una lotta clamorosa fu l’occupazione della Calamai Michelangiolo, dove molte donne fra settecento lavoratori, occuparono ad oltranza la fabbrica.

Nel dopoguerra, mentre gli imprenditori riorganizzavano l’apparato produttivo, il movimento operaio affrontava anni difficili, i cosiddetti “anni duri”, caratterizzati da licenziamenti, discriminazioni contro gli attivisti sindacali e repressione poliziesca. Molti imprenditori cercarono di indebolire il potere sindacale che si era sviluppato negli anni immediatamente successivi alla Liberazione e alla Resistenza, in molte fabbriche furono all’ordine del giorno licenziamenti di massa e quando il mercato rendeva necessaria una nuova forza lavoro si preferiva assumere giovani operai provenienti dalla campagna, perché maggiormente disposti ad accettare bassi livelli salariali, un aumento dei ritmi lavorativi e uno scarso controllo sulla sicurezza dei luoghi lavorativi. Tale fenomeno andò di pari passo con l’aumento del lavoro a cottimo svolto a casa dalle donne, sempre più duramente penalizzate nelle loro condizioni lavorative.

Questo era il periodo della ristrutturazione delle fabbriche, dei licenziamenti con gli industriali che davano i telai a domicilio. La parità salariale  era ancora un miraggio, le donne che lavoravano ai telai ricevevano in media il 20% in meno del salario dei loro compagni di lavoro e nella scala dei valori professionali erano inquadrate contrattualmente nelle categorie più basse del mansionario; la maternità non era tutelata. Questi erano i tempi di  Scelba e della dura repressione antioperaia e anticontadina.

La CGIL, tramite Giuseppe Di Vittorio, cercò di fronteggiare questa emergenza occupazionale proponendo un articolato “Piano del Lavoro” (1949-1950) che sulla base di un programma di spesa pubblica cercava allo stesso tempo di creare occupazione dotando il paese di infrastrutture e di opere di pubblica utilità. Ma né il governo, né tanto meno il patronato in posizione di vantaggio volevano accettare un nobile progetto proveniente dal mondo sindacale[28].

In questo quadro di disoccupazione di massa e miseria dilagante deve essere collocato ed analizzato il film Giovanna. In particolar modo è utile ricordare che Pontecorvo nel momento in cui girava Giovanna era  uscito dal PCI. Il regista, iscritto al partito da molto tempo, ricorda l’evento:

Non volli uscire clamorosamente come fecero altri. Ero iscritto al partito dal 1941, in epoca clandestina. Comunicai la mia decisione alle persone con le quali ero in rapporto maggiore di amicizia, Giancarlo Paletta e Enrico Berlinguer. Non mi trovavo d’accordo soprattutto per la questione dell’Ungheria e poi sul centralismo democratico. Uscivo restando amico, come sempre sono rimasto tanto da essere candidato come indipendente nelle liste del PCI. Però uscivo[29].

Inoltre, in un momento in cui il cinema, abbandonati gli slanci del neorealismo guardava sempre più ad esigenze commerciali, è l’epoca del neorealismo rosa, di film come Pane, amore e fantasia (1953), quello di Pontecorvo era un film diverso, caratterizzato da una  forte militanza politica.

Analisi dei personaggi femminili

Giovanna è sicuramente il primo film italiano in cui tutte le protagoniste sono donne, impegnate nella difesa coraggiosa del loro posto di lavoro. Dall’analisi del film e della sceneggiatura è possibile mettere in evidenza le principali protagoniste della lotta per tracciare un’immagine della donna operaia abitante in un contesto urbano in espansione e trasformazione quale poteva essere Prato negli anni Cinquanta.

Il film si apre col colloquio fra la protagonista Giovanna e suo marito Antonio, la donna apprende dall’uomo, amico del caposervizio della fabbrica, che vogliono licenziare alcune operaie ed espone al marito il progetto di occupare la fabbrica.  Il marito si albera e intima alla moglie di desistere dai  suoi intenti: «Cosa? Mi raccomando, non fare stupidaggini, se no questa è la volta buona che ti licenziano sul serio» e alla moglie che ribatte «Ma se fossimo tutte d’accordo» replica «Si, figurati…. Cento donne tutte d’accordo! Ma come è mai possibile? Comunque, qualsiasi cosa succeda, tu te ne torni a casa tua, dove c’hai un bambino»[30]. Giovanna annuisce ammutolita dai rimproveri del marito.

In questa prima sequenza  vediamo già come il marito consideri la donna in posizione subordinata richiamandola al suo dovere di mamma nell’accudire il bambino. Da secoli alle donne sono state riconosciute inferiori capacità cognitive e Antonio sembra allinearsi a questo convincimento disconoscendo capacità organizzative e di lotta alle  donne operaie. In questo confronto fra marito e moglie è possibile intuire come ancora negli anni Cinquanta il lavoro delle donne fosse caratterizzato da una serie di luoghi comuni e pregiudizi quali la naturale debolezza fisica e la fragilità emotiva che le rendeva inadatte a svolgere certe mansioni  intellettive, quali la militanza politica e sindacale. È come se la rivendicazione dei diritti fosse esclusivo monopolio di un mondo maschile, ben intenzionato a precludere certe forme di lotta alle donne, pur di conservare una tradizionale gerarchia.

Pontecorvo stesso racconta di aver voluto raccontare questa difficoltà del mondo maschile a confrontarsi col processo di emancipazione femminile

Dovendo fare la storia di una donna italiana, essendo io e Franco Solinas della stessa posizione politica ed avendo gli stessi interessi, abbiamo discusso cosa poteva essere più interessante e più utile fare. E discutendo è venuta fuori l’idea di fare una storia femminista ante-litteram, e ci sembrava che quella fosse una maniera interessante per parlare della condizione della donna allora. Perché noi avremmo potuto rappresentare una donna nella Resistenza, o nei suoi rapporti quotidiani casalinghi, ma ci sembrava utile raccontare la storia di una donna che deve vincere anche le resistenze degli ambienti che erano o che avrebbero dovuto essere più vicini a favorire il suo allacciarsi alla scena politica e sociale. E così abbiamo pensato alla storia di Giovanna, operaia tessile moglie di un metalmeccanico, comunista per di più, che malgrado l’opposizione del marito e contro questa opposizione partecipa attivamente ad un’occupazione di fabbrica[32].

Dopo il confronto con il marito, Giovanna si reca sul posto di lavoro vergognandosi quasi della sua tranquillità, perché convinta di non essere nell’elenco delle venti operaie licenziate. Molte operaie sono invece allarmate c’è chi crede che licenzieranno le più anziane perché incapaci di sottostare a condizioni lavorative più pesanti, chi fra le giovani pensa invece che le vecchie saranno più tutelate perché se le licenziano spetterà loro la liquidazione. Armida, operaia fra le più anziane, propone di occupare la fabbrica e chiede la solidarietà di Giovanna, che subito espone le sue difficoltà visto l’incomprensione del marito. Arriva il direttore di fabbrica che freddamente affigge l’elenco con i nomi delle persone licenziate. Antonietta, una donna in stato interessante, leggendo il proprio nome ha un malore e allora Giovanna vedendo la sofferenza dell’amica  strappa l’elenco e invita le colleghe ad entrare in fabbrica.

All’interno della fabbrica le operaie, guidate da Teresa, preparano un documento per invitare la Direzione a ritirare i licenziamenti e decidono di trascorrere lì la notte  procedendo all’occupazione dello stabilimento.

Il direttore rimane sconcertato dalla decisione clamorosa delle sue sottoposte e con fare maschilista esclama «Che siete impazzite?». Quando sopraggiungono i mariti delle operaie occupanti molti uomini sono spiazzati perché non sono abituati a prendersi cura dei figli  e delle faccende domestiche, per questo le donne si raccomandano ai loro uomini dando anche istruzioni pratiche tipo «chiudi il pipigas, prima di andare a letto. E la mattina ricordati il secchio della mondezza».

Antonio incontra la moglie facendole leggere la lista delle licenziate nella quale lei non figura per riportarla a casa e per l’ennesima volta ribadisce il suo convincimento circa  l‘incapacità da parte delle donne di portare avanti una lotta per il lavoro: alle parole di Giovanna «Come faccio, Antonio? Son tutte amiche mie… Sarei l’unica!» controbatte «Ma se, fra due giorni, non ce ne sarà rimasta più nessuna, qui dentro. Queste cose non sono fatte per le donne, Giovanna….».

Mentre Antonietta abbandona la fabbrica per il suo stato di maternità, impegnandosi ad aiutare le compagne da fuori con la raccolta dei viveri, Giovanna non sa che fare, ha un’ulteriore esitazione ma poi decide di rimanere per aiutare le sue compagne di lavoro.

Nel film c’è una bellissima sequenza nella quale Pontecorvo è riuscito a rendere benissimo il dissidio che anima la protagonista. Giovanna attraversa il cortile interno della fabbrica in senso contrario alle altre lavoratrici che salutata Antonietta rientrano dentro, Giovanna sa che il marito si aspetta  che lei torni a casa dal bambino, ma decide di non oltrepassare il cancello semiaperto della fabbrica e anzi di chiuderlo a tripla mandata, quasi a voler tenere distante il mondo là fuori. Giovanna ha preso la sua decisione ma fortissimo è il dissidio interiore che la anima dato dall’aspettativa sociale che la circonda.

In particolar modo il marito l’ha richiamata ai suoi doveri di moglie e madre e si aspetta da lei un atteggiamento mite e accondiscendente ma emerge l’esigenza altrettanto forte di essere solidale con le sue compagne, perché in fondo nella rivendicazione del lavoro c’è anche l’esigenza di opporsi ad un sopruso, affermando il diritto al lavoro.

Per questa sua scelta Giovanna paga il prezzo più alto, il marito in qualche modo la rinnega e la punisce non andando mai a trovarla e nemmeno mandandole il bambino in visita, a differenza di quanto fanno gli altri mariti che tutte le sere vanno a portare rifornimenti alle mogli che occupano la fabbrica. Dopo vari giorni di andirivieni dei famigliari alla fabbrica per  portare viveri e sostegno morale alla causa, il proprietario è riuscito tramite i carabinieri a bloccare l’ingresso alla fabbrica proibendo ogni passaggio.

La disperazione delle operaie è affidata alla voce narrante  di Giovanna:

Venticinquesimo giorno. Resistevamo ancora. Anche se i carabinieri continuavano a presidiare la strada. Anche se mangiavamo poco, perché solo di notte, quando diminuiva la sorveglianza, era possibile farci arrivare qualche provvista. Resistevamo ancora anche se la direzione si rifiutava ostinatamente di ricevere la commissione sindacale. Cominciavo a sentirmi sola,… disperata.

Il padrone fa togliere l’elettricità alla fabbrica per impedire che le operaie lavorino, intanto anche fuori la situazione si fa critica per esempio il droghiere Leonardo si rifiuta di dare cibo  facendo credito ai figli e ai mariti di molte operaie nella paura che siano licenziate e che quindi non possano pagare.

I familiari, guidati da Antonietta, si organizzano con un camioncino dotato di megafono in modo da portare conforto a distanza grazie all’utilizzo di un microfono. Anche in quella occasione Giovanna è l’unica donna a non ricevere alcuna parola di affetto e solidarietà da parte del marito. Solo Antonietta, immedesimandosi nella solitudine di Giovanna, le rivolge un accorato appello a resistere, la informa che il suo bambino sta bene e che devono resistere perché il padrone è sull’orlo di cedere.

Nonostante il conforto offerto dai familiari, molte operaie sono esauste dopo trentatré giorni di occupazione e una di loro Elena, una giovane sposa, dopo aver sentito la voce del marito scappa dalla fabbrica, la sua fuga viene amplificata dalle grida delle compagne che le danno della crumira.

Dopo l’abbandono di Elena e dopo trentatré giorni di occupazione dello stabilimento, scoppiano i primi contrasti fra le operaie e si verificano i primi cedimenti; alcune operaie non vogliono più continuare la lotta e vogliono sapere i nomi delle licenziate incolpando l’operaia Teresa di voler continuare la lotta ad oltranza perché consapevole di essere stata licenziata. Giovanna si fa avanti in suo soccorso tirando fuori la lista delle licenziate dalla sua tasca del grembiule e zittendo le titubanti mostrando che proprio loro sono state licenziate e che quindi hanno tutto l’interesse a proseguire la battaglia.

Al di là della disperazione, Giovanna non si dà per vinta e visto che il proprietario della fabbrica ha deciso di staccare l’elettricità per impedire alle  operaie di lavorare ai telai decide di rivolgersi a una cooperativa locale la “Cooperativa cementi”, per un allacciamento provvisorio. Giovanna parla al cuore degli operai della cooperativa che sono dubbiosi in merito alle difficoltà di realizzare di notte un allaccio di fortuna con circa cinquecento metri di cavo e tenta di convincerli dell’urgenza dell’operazione perché molte operaie avvilite non resistono più.

Suo marito Antonio osserva e ascolta  la donna mentre è appoggiato allo stipite di una porta e alle parole di Giovanna «E dovete capirci. Sapeste cosa vuol dire per una donna stare là chiusa, senza neanche il conforto del figlio, del marito» capisce di aver sbagliato nel non supportarla nella sua battaglia. Mentre Giovanna, col suo bambino in braccio,  torna alla cooperativa per prendere nuovi accordi con gli operai, Antonio le viene incontro deciso ad aiutarla ad allacciare la corrente. La riconciliazione col marito viene sigillata da un abbraccio fra i due coniugi, finalmente la donna non è più sola perché suo marito ha compreso il senso e il valore della sua lotta. Da marito affettuoso Antonio la invita a non portare il bambino in fabbrica perché c’è troppa umidità, facendole capire che glielo porterà lui in visita.

Lo stacco della corrente non consente alle operaie di lavorare, ma alcune ballano, altre lavorano all’uncinetto, altre ancora leggono romanzi ad alta voce alle amiche, tutte in fondo cercano di sentirsi utili e vive.

L’indomani mattina, alle ore 11, le operaie stanno perdendo nuovamente la fiducia visto che l’allaccio ancora non è stato fatto e in questa situazione ricevono la visita del direttore della fabbrica che annuncia che la direzione ha ridotto il numero delle licenziate e tenta un ricatto per mettere le lavoratrici le une contro le altre «Le prime trentacinque, che usciranno di qua e che si presenteranno in ufficio saranno riassunte. Riceveranno anche la paga di questi giorni subito. Subito!».

Armida donna sola e non più giovane, madre di quattro figli, si distacca dal gruppo delle operaie, una compagna la chiama e lei si volta disperata, stringe i pugni e gridando «Ma cosa devo fare» fugge via, fuori dalla fabbrica. Fuori dall’edificio incontra i suoi quattro figli, la donna piange e si dispera,  mentre i figli la abbracciano mormora «Come potevo fare?». Armida anche se tradisce le sue compagne non appare come un personaggio negativo, abbandona le sue compagne di lotta, ma lo fa per tornare dai suoi figli rimasti senza guida.

Vi è un brevissimo fermo immagine sul volto addolorato di Armida che ci fa provare commozione per questa mamma. Tutte le operaie rimaste  sono ammutolite, anche se deluse dalla scelta della loro compagna. Nessuna osa pronunciare la parola crumira che era invece stata rivolta alla giovane Elena. Adele, un’altra operaia anziana col marito disoccupato, è tentata di seguire Armida, ma Giovanna le stringe la mano invitandola a restare.

All’improvviso le donne sono richiamate dal rumore dei motori delle macchine e dei telai  che riprendono a funzionare, le operaie contente corrono a riprendere il loro lavoro abbracciando Giovanna, la cui voce narrante chiude il documentario: «Trentaquattresimo giorno. Resistevamo ancora e nessuna avrebbe più abbandonato la lotta, ormai. Nessuna! Sino alla fine!».

Giovanna è un personaggio inventato ma sicuramente autentico nel raffigurare una donna degli anni Cinquanta divisa fra lavoro e famiglia, una donna dal doppio lavoro visto che nel dopoguerra tutta un serie di servizi sociali cui oggi siamo abituati non esistevano.

Pochissimi erano gli asili nido e per poche privilegiate, le scuole materne erano solo religiose, il doposcuola non esisteva e anche per gli anziani non esistevano strutture di sostegno, le donne si occupavano degli anziani. Questo tessuto di donne che si occupavano di tutta la gestione familiare emerge all’inizio del documentario: nel momento in cui le operaie hanno deciso di occupare la fabbrica, molto uomini sono spiazzati e si rivolgono a madri o a sorelle per occuparsi dei bambini, non essendo abituati ad accudirli. Ci sono poi bambini che la miseria ha privato precocemente della spensieratezza della loro infanzia, per esempio i figli di Armida sono abituati a cavarsela da soli e il più grande cerca di fare il capofamiglia dando istruzioni ai fratelli più piccoli, ma è proprio il più piccolo che con un escamotage riesce a farsi consegnare un filone di pane dalla moglie del droghiere per sfamare la sua famiglia.

In questa prima esperienza cinematografica forte è l’interesse di Pontecorvo per la realtà della condizione umana, quell’interesse che ne La battaglia di Algeri (1966) diverrà  “la dittatura della verità”, ossia un vero e proprio manifesto poetico di uno stile documentaristico dalla forte valenza emotiva.

Già questo primo mediometraggio di Pontecorvo costituisce un esempio di coraggioso documento civile per il forte impegno comunicativo nel narrare le lotte per il lavoro.

Nel 1978 il regista dichiarava in un’intervista:

Il cinema mi interessa per la stessa ragione per cui mi interessava il giornalismo: una maniera di avvicinarsi alle cose, alla gente, di grattare oltre la superficie, di scoprire quello che normalmente uno non incontra altro che in occasioni eccezionali[33].

La rassegna stampa

Il film fu proiettato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1956 e riscosse molti consensi favorevoli dalla critica, in particolar modo la critica francese parlò di «purissimo stile neorealista» proprio per il ricorso a luoghi e facce vere[34].

Nel mediometraggio è presente sicuramente una divisione manichea fra le operaie e il padrone della fabbrica, questo riflette una dialettica, una visione costante di forze opposte che in parte affonda le sue radici nell’ideologia politica di Solinas[35].

La critica italiana in ogni caso apprezzò Giovanna.

Renzo Renzi vedeva nel finale una soluzione socialista perché si mostrava come l’unica via d’uscita fosse il possesso da parte degli operai degli strumenti di lavoro e plaudeva al risultato felice di un esperimento produttivo a basso costo: il film era costato solo dodici milioni di lire[36].

Claudio Bertieri lodava la critica sociale presente nel film e il tema anticonformistico dell’azione sindacale portata avanti dalle operaie, reso maggiormente efficace da un gruppo di operaie che avevano interpretato la storia con schiettezza sorprendente[37].

In un suo incisivo intervento, Umberto Barbaro, registrando la crisi del cinema dopo la stagione del neorealismo, imputava la colpa dell’impoverimento dell’ispirazione alla faziosità della censura e alle assurdità presenti nella legge sulla cinematografia. In questo clima Barbaro scorgeva un modello positivo e una via possibile di uscita da questo empasse della creatività in Giovanna, in quanto il regista era riuscito a raccontare la lotta operaia e l’amore per la giustizia con scene semplici e vere, senza ricorrere a crimini o a travolgenti passioni per interessare gli spettatori[38].

Recentemente Tullio Masoni che già negli anni Ottanta aveva lodato l’ideologia rafforzata dal gusto della verità presente nel film[39] ha scorto in Giovanna una vera e propria opera di transizione nella misura in cui si supera lo stile neorealista: 

la sua purezza, al di là di ogni significativa apparenza, è purezza di sintesi, dove la tradizione resta irrinunciabile e la novità supera quasi l’intento consapevole degli autori[40].

Nel film fu riconosciuto un forte influsso del cinema sovietico e non solo dal punto di vista dei contenuti: colpì la scelta delle facce, certe anziane operaie con i loro sguardi ricordano le donne del regista russo Pudovkin, e l’individuazione di un protagonista corale, l’insieme delle lavoratrici tessili con le loro famiglie.

Massimo Ghirelli vede qualche ingenuità nella descrizione del direttore paternalista, grasso e ben pasciuto o nel fatto che Giovanna sia l’unica a non sapere che il suo nome non è nella lista delle licenziate. Ma al di là di qualche difetto vi scorge l’efficacia di una ricostruzione realistica dei fatti e delle persone[41].

Nonostante il successo di critica  e il nome prestigioso di Ivens, il film per esigenze commerciali (durava soli quarantacinque minuti) non uscì sugli schermi italiani e questo aspetto comportò l’oblio su questo capolavoro di Pontecorvo.

Per quanto concerne la censura, il film ottiene il nulla osta numero 22266 il 07/08/1956 dietro questa condizione: revisionato il film il giorno 01.08.1956, «si esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico a condizione che vengano eliminate le esclamazioni il "vigliacco" pronunciate da Giovanna e dalla operaia all'indirizzo del ragioniere (pass. 70 e 71 del copione di censura)».

L’esclamazione «Vigliacco, vuol metterci le une contro le altre» fu sostituita con «Guardalo, vuol metterci una contro l’altra»[42].

La recente fortuna di Giovanna

La storia di Giovanna è stata a lungo dimenticata perlomeno fino alla fine degli anni Ottanta[43].

Giuseppe Maddaluno, presidente della Commissione Cultura della Circoscrizione Prato Est, nel 1991 è stato regista di un video documentario Giovanna. Storia di una donna. Il suo interesse per il documentario emerge negli anni Ottanta. Il professore  ricorda che quando gli fu richiesto di reperire una copia di Giovanna numerose furono le difficoltà. Alla fine riuscì a reperire una pellicola piuttosto malandata in possesso di Gastone Predieri, una pellicola così fragile che si sgretolava negli ingranaggi del proiettore.

Negli anni Novanta a Maddaluno venne in mente di scrivere un film su Giovanna

un film che fosse tutto incentrato sulla figura di Giovanna ma senza di lei, perché ormai tutti la davano per dispersa e qualcuno addirittura per morta…   Il film che doveva chiamarsi alla ricerca di Giovanna cambiò titolo e cambiò inevitabilmente anche struttura. Lo chiamammo Giovanna. Storia di una donna perché nel corso delle riprese ci accorgemmo che eravamo attratti dal personaggio cinematografico, ma eravamo ancor più attratti nei confronti della donna che avevamo di nuovo scoperto, che avevamo come dire di nuovo portato alla luce[44].

Il documentario prodotto da Azione Sindacale e Coordinamento donne CGIL di Prato si compone di interviste e di immagini di repertorio che mirano a ricostruire l’evoluzione urbanistica della città di Prato da città fabbrica fino al recente smantellamento produttivo.

Nell’ottica di un recupero della memoria storica e audiovisiva numerosi sono i filmati in superotto realizzati da dilettanti di cui si è servito il professor Maddaluno.

Contemporaneamente è stata portata avanti un’operazione di restauro della pellicola grazie ad un’iniziativa dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico con il contributo economico del Comune, della Provincia di Prato, di Benetton, Gucci e Unipol.

Paola Scarnati, responsabile allora dell’Archivio Aamod, ricorda come fu salvato Giovanna ripercorrendo i suoi rapporti con Gastone Predieri, che nei primi anni Ottanta era il conservatore e direttore della cineteca Italia-Urss. In un incontro volto a salvaguardare i film documentari prodotti dal movimento operaio, Paola Scarnati fu colpita favorevolmente dalla visione di Giovanna  e subito dopo aver preso atto che la copia del film era un positivo 35 mm ordinò un controtipo negativo del film in modo da avere pronta una matrice per eventuali riproduzioni[45].

Mario Musumeci, curatore del restauro del film Giovanna, spiega la filosofia  del restauro che ha comportato il recupero dell’insieme dei valori espressivi e narrativi dell’opera senza occultare alcuni guasti del tempo. Nei quarantacinque anni trascorsi dopo la sua realizzazione, nonostante il film non fosse entrato nel normale circuito del noleggio, non erano sopravvissuti i negativi originari. L’unica copia superstite figlia dei negativi originali era quella ritrovata da Paola Scarnati e Gastone Predieri.

Il Bundesarchive di Berlino conservava una copia negativa di Windrose ma l’episodio italiano era stato tagliato e la colonna sonora rimixata, esisteva anche una copia positiva olandese identica a quella berlinese nei contenuti. I guasti presenti nella copia dell’Aamod sono stati emendati ricorrendo alle copie berlinese e olandese di Windrose e con un lavoro certosino è stato possibile restituire al meglio l’unità espressiva dell’opera[46].

Dopo il restauro Giovanna è stato proiettato a Prato il 21 marzo 2002 alla presenza di tanti protagonisti dell’epoca con grande commozione e soddisfazione reciproca.

Giovanna è un ottimo documento per recuperare la  memoria storica, per trasmettere un senso del passato che è alla base del presente e  può essere utilizzato come straordinario strumento di riflessione per analizzare il ruolo della donna nella società d’oggi. Rispetto a quel periodo numerosi sono stati i traguardi e i passi avanti che sono stati fatti, ma forse si sono perse un po’ per strada la solidarietà e la compartecipazione di tante battaglie che sono state alla base dell’identità della classe operaia.

Ritengo che Giovanna dovrebbe essere uno di quei documenti educativi da proiettare nelle scuole o in occasione di ricorrenze quali la festa della donna o la festa dei lavoratori perché appartenente alla storia del movimento operaio italiano; inoltre la visione della storia che vede protagonista una donna tenace e solidale come Giovanna può rappresentare un indubbio modello positivo per le attuali e future generazioni.

*** 

[1] Gillo Pontecorvo (Pisa, 19 novembre1919- Roma, 12 ottobre 2006) è stato un regista e compositore italiano. Per una sua biografia cfr. M. GIRELLI, Gillo Pontecorvo, Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1978.

[2] Franco Solinas (Cagliari, 19 gennaio 1927- 14 settembre 1982) è stato uno sceneggiatore italiano. Per la sua attività cfr. < http://www.mymovies.it/biografia/?s=6930>, u.c. marzo 2014.

[3] Cfr. I. BIGNARDI, Memorie estorte a uno smemorato, vita di Gillo Pontecorvo, Milano, Feltrinelli Editore, “Serie Bianca”, 1999, p.83.

[4] La DEFA era sorta a Berlino nel 1946  nella Repubblica democratica tedesca ed era la società cinematografica di stato. Si trovava sotto il controllo dell’amministrazione militare sovietica. Sulla storia della DEFA si confronti <www.Defa.de>, u.c. marzo 2014.

[5] Joris Ivens (Nimega, 18 novembre 1898-Parigi, 28 giugno 1989) è stato un grande documentarista del XX secolo. Per una sua biografia cfr. V. TOSI Joris Ivens. Cinema e utopia, Roma, Bulzoni, 2002.

[6] Il modello doveva essere un precedente documentario girato sulle rive dei sei più grandi fiumi al mondo Il canto dei fiumi.

[7] Io Cinema. Autobiografia di un cineasta di Joris Ivens, a cura di V. TOSI, Milano, Longanesi, 1979, p.173.

[8] Cfr.  Giovanna: storia di un film e del suo restauro/Gillo Pontecorvo, a cura di A. MEDICI, Roma, Ediesse,  2002, pp.17-23.

[9] Cfr.  Lettera di Marie-Claude Vaillant-Couturier in Giovanna: storia di un film e del suo restauro/Gillo Pontecorvo, a cura di A. MEDICI, Roma, Ediesse, 2002, p.18.

[10] Ibid., pp.17-23.

[11] Lettera di  Joris Ivens a Alberto Cavalcanti in A. MEDICI, op. cit., pp.189-190.

[12] Ibid.

[13] Cfr. «Ivens: solleciti internazionali», in Bianco e Nero, n 3/4, 2002, p.167.

[14] Franco Giraldi (Comeno, 11 luglio 1931) è uno sceneggiatore italiano. Per la biografia cfr. L. DE GIUSTI, Franco Giraldi, lungo viaggio attraverso il cinema, Torino, Kaplan Edizioni, 2006.

[15] Enrico Menczer (Fiume, 8 maggio 1926- Roma , 10 marzo 2012) ha diretto la fotografia di oltre cento film. Per la sua biografia cfr. <http://www.imdb.com/name/nm0578801/>, u.c. marzo 2014.

[16] Giuliano Montaldo (Genova, 22 febbraio 1930) è uno sceneggiatore e attore italiano. Cfr. <http://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Montaldo>, u.c. marzo 2014.

[17] Cfr. Gillo Pontecorvo: la dittatura della verità. Primo piano sull’autore, XVII Rassegna del cinema italiano, Assisi, Cinema Teatro Metastasio, 23-28 novembre 1998, ANCCI, p25.

Presso l’Archivio AAMOD è conservata la sceneggiatura dattiloscritta (segnatura archivistica UTF/PD/I.2.5.) che testimonia questo lavoro certosino di rifinitura del copione, numerose sono le note manoscritte a margine che forniscono dettagli su come dovevano essere girate le scene.

Rispetto al film, nella sceneggiatura erano indicati alcuni simboli della C.G.I.L e del P.C.I, quali per esempio un ritratto di Giuseppe Di Vittorio o una bandiera rossa, che poi nel film non saranno presenti. Tale cancellazione fu forse dovuta dal desiderio di dare universalità alla lotta operaia, al di fuori delle appartenenze politiche.  Anche qualche espressione più brusca, tipo quella di Armida, che, compreso che il padrone aveva fatto staccare l’elettricità allo stabilimento, sbraitava «Ci ha tagliata la corrente quel porco» fu modificata in «Ci ha tagliato la corrente quel disgraziato!»

[18] L’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico nasce nel 1979 come associazione, con la denominazione di Archivio storico audiovisivo del movimento operaio (ASAMO). L’archivio eredita il patrimonio filmico del Pci e della Unitelefilm, società di produzione cinematografica, evoluzione della Sezione Stampa e propaganda del Partito Comunista italiano. L’archivio si costituisce su richiesta di intellettuali e esponenti del cinema italiano  al fine di  promuovere la costituzione di una memoria collettiva  dei movimenti sociali, tramite gli audiovisivi. Cesare Zavattini è stato per alcuni anni primo presidente dell’archivio. Nel 1983  il patrimonio dell’archivio viene dichiarato dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio di “notevole interesse storico”. E' il primo archivio audiovisivo italiano, che grazie alla consistenza e importanza del suo patrimonio, riceve questa notifica. Nel 1985 l’Archivio muta persona giuridica e viene riconosciuto come Fondazione, per la necessità di tutelare al meglio il suo patrimonio, assumendo l’attuale denominazione: Fondazione Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico (AAMOD). Attualmente il patrimonio dell’Archivio audiovisivo si può suddividere nelle seguenti aree: “Filmoteca”, “Audioteca/Nastroteca”, “Fototeca”, “Archivi cartacei”, “Archivi ospiti”.  Oltre  all’ingente patrimonio filmico proveniente dall’Unitelefilm e alle fonti audiovisive prodotte dall’AAmod dal 1979 ad oggi, l’archivio custodisce fondi provenienti dalle società di produzione Reiac Film (1964-1990), Tecnomedia (1987-1992), Albedo Cinematografica (1969-1975), depositi di autori e filmmaker (Fondo Libero Bizzarri, Giuseppe Ferrara, Giampiero Tartagni), depositi da associazioni (ACLI, ARCI, Centro di Cultura Popolare), film amatoriali, di famiglia, depositi di film di filmmaker impegnati nella documentazione dei movimenti, raccolta di documentazione particolare (per esempio immagini filmiche relative al G/8 di Genova). Attualmente l’intero patrimonio filmico ammonta a oltre 5.000 ore (pellicola), 5000 ore (videonastri), 3.000 ore sonori in presa diretta. La consultazione del materiale d’archivio avviene previo appuntamento. (Descrizione tratta dalla relazione esposta da Letizia Cortini al convegno Gli archivi del presente. Dal documento tradizionale al documento digitale (Milano, 2-3 dicembre 2004).

[19] Quando l’episodio italiano fu inserito ne La rosa dei venti furono tagliati invece circa quindici minuti e ciò comportò un inevitabile indebolimento della resa corale della lotta operaia; su questo aspetto cfr. Antonio Medici, op. cit.

[20] Cfr. Giovanna di Gillo Pontecorvo e gli anni ’50 a Prato. Testimonianze e ricordi, a cura di G. RIVENNI, Mediateca della memoria, Comune di Prato, 2002, p.11.

[21] Ibid., pp.15-16.

[22] Ibid.,  p.18.

[23] Intervista a Elena Mannini, in Azione Sindacale, novembre 1990.

[24] Ibid., p.24.

[25] La fabbrica tessile La Romita, di proprietà della famiglia Vannini in zona via Carlo Marx.

[26] Franco Giraldi, Come fu girato Giovanna in  Filmare il lavoro, a cura di A. MEDICI, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Annali n.3, 2000, pp.130-132.

[27] Immagini gentilmente concesse dall’Aamod.

[28] P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Milano, Einaudi scuola, 1996, pp.144-148.

[29] Cfr. Azione sindacale, gennaio 1991, p.40.

[30] Per la pubblicazione  della sceneggiatura si confronti A. MEDICI, op. cit.

[31] Per la lista delle sequenze cfr. Giovanna storia di un film e del suo restauro  (a cura di Antonio Medici), Ediesse, Roma, 2010.

[32] Cfr. Giovanna di Gillo Pontecorvo e gli anni ’50 a Prato. Testimonianze e ricordi, a cura di G. RIVENNI, Mediateca della memoria, Comune di Prato, 2002, p.6.

[33] Cfr. M- GHIRELLI, Gillo Pontecorvo, Firenze,Il Castoro Cinema, La Nuova Italia,  1978, p. 24.

[34] Gillo Pontecorvo: la dittatura della verità. Primo piano sull’autore, XVII Rassegna del cinema italiano, Assisi, Cinema Teatro Metastasio, 23-28 novembre 1998, ANCCI, pp. 26-7.

[35] Cfr. J. MICHALCZYK, Franco Solinas: the dialectic of screenwriting, in Cineaste Archive, 1984, 13, 2, p.30.

[36] Cfr. R. RENZI,  «La guerra degli esclusi» in Cinema, n 90-91, anno 1956, p.151.

[37] Cfr. C. BERTIERI, « I film fuori mostra», in Filmcritica: mensile di studi cinematografici, v.VII, n 62-63, sett-ott. 1956, p.261.

[38] Cfr. U. BARBARO,  «In film (Pontecorvo) la verità di Giovanna», in Vie Nuove, 42, 20 ottobre 1956.

[39] Cfr. T. MASONI, «Il vecchio Continente alla prova delle nuove tecnologie», in Cineforum, 239, novembre 1984.

[40] Cfr. T. MASONI, «Giovanna di Gillo Pontecorvo» in Cineforum: quaderno mensile, v.XLII, n8 (418), ottobre 2002, p.61.

[41] Cfr. M. GHIRELLI, Gillo Pontecorvo, Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia,1978, pp. 36-37.

[42] Cfr. visto di censura conservato presso AAMOD e progetto Italiataglia, progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia, promosso da MiBAC (DGC) e Fondazione Cineteca di Bologna, <www.italiataglia.it>, u.c. marzo 2014.

[43] Giovanna fu nuovamente proiettato a Rimini nel 1984 in occasione di Europa Cinema.

[44] Cfr. Giovanna di Gillo Pontecorvo e gli anni ’50 a Prato. Testimonianze e ricordi, a cura di G. RIVENNI, Mediateca della memoria, Comune di Prato, 2002, pp.4-5.

[45] Cfr. P. SCARNATI, «Come fu salvato Giovanna», in Filmare il lavoro, a cura di A. MEDICI, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Annali n.3, 2000, pp.133-135.

[46] M. MUSUMECI, Il restauro di Giovanna  in Gillo Pontecorvo, Giovanna Storia di un film e del suo restauro, a cura di A. MEDICI, pp.167-174.

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