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Le fonti filmiche per l'insegnamento della storia. Proposte didattiche
Giovedì, 03 Aprile 2014

Le fonti filmiche per l'insegnamento della storia. Proposte didattiche

Prof. Carlo Felice Casula
Sezione Studi

Carlo Felice Casula insegna all’Università degli Studi Roma Tre. Professore ordinario di Storia contemporanea, di Storia sociale, di Storia del lavoro e cinema.

Nel saggio, ripercorrendo la storia del cinema e illustrando l’importanza delle fonti audiovisive nel dibattito storiografico, l’autore propone un percorso per l’uso didattico dei film nell’insegnamento della storia del Novecento.

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Nei miei corsi universitari insegno da molti anni oltre storia contemporanea, anche storia sociale, storia del lavoro e storia della pace. Ne è conseguito un crescente interesse per le trasformazioni economiche, sociali e culturali, per l’evoluzione delle mentalità collettive. Ne sono scaturiti nuovi percorsi di studio e di ricerca e adeguati strumenti d’indagine.

Da questo punto di vista, il ricorso al cinema, al film (sia film documentario che film fiction) è imprescindibile: non solo come strumento didattico di straordinaria efficacia, ma anche come fonte documentaria per la storia del Novecento e anche dell’ultimo Ottocento. 

Negli ultimi due decenni dell’Ottocento ha inizio l’avventura del cinema, destinato a diventare, fra l’altro, l’occhio del Novecento, come recita il titolo del bel libro di Francesco Casetti (Milano 2005), che ha come sottotitolo: cinema, esperienza, modernità. Si afferma nella sua quarta di copertina, si pure con una certa enfasi: “Il cinema è stato l'arte che meglio ha saputo incarnare la grande svolta che il Novecento ha rappresentato nella Storia dell'uomo, non solo per la modernità tecnologica dei suoi mezzi, ma anche, e in senso più profondo, perché ha saputo dar voce e influenzare una nuova società con diverse esigenze estetiche. Alternando la rilettura di una quindicina di capolavori (da Quarto Potere a Blow Up, da Griffith a Ejsenstejn) a squarci di teoria degli anni venti e trenta (Benjamin, Kracauer, Delluc, Epstein), e a un'analisi di alcuni procedimenti tecnici tipici del linguaggio cinematografico, Francesco Casetti guida il lettore alla riscoperta del cinema e della modernità, chiarendo perché il cinema vada considerato l'autentico "L'occhio del Novecento”. Rivisitando gli ultimi decenni dell’Ottocento, ad esempio, non è superfluo ricordare che nel 1896, in Italia, non si registrano solo le reazioni, a livello di politico-parlamentare e a livello di pubblica opinione, per l’onta subita in Africa con la confitta di Adua, o il dibattito suscitato dalla pubblicazione di Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca sulla teoria delle élites, ma anche le emozioni per le prime proiezioni cinematografiche, nelle principali città dell'Italia settentrionale. A Torino, Milano, Genova, Bologna, si possono ammirare le Rappresentazioni straordinarie di Fotografie Animate con, ben evidenziato nelle locandine, Proiezioni ottenute col Cinematografo Lumière, ultima novità mondiale. Gli spettacoli, quasi sempre, avvengono nei maggiori Teatri cittadini al termine di una commedia o di un concerto.

Il cinema italiano segue, a grandi linee, le orme del cinema francese, sia nella ricerca di mezzi per stupire l'ingenuo pubblico del tempo mediante effetti speciali, trucchi, tecniche di ripresa ecc., sia nella struttura dello spettacolo.

Si chiamano, con lauti compensi, attori, tecnici, cineasti francesi strappandoli alle varie Pathé, Gaumont. Sono prodotti anche documentari su argomenti di notevole interesse giornalistico, quali corse di automobili come La Susa-Moncenisio o di altri avvenimenti spettacolari capaci di stimolare la fantasia degli spettatori, filmando i fatti dal vero o, in taluni casi, creando delle finzioni che sfruttano l'esperienza teatrale.

Il torinese Vittorio Calcina, nel 1896, riprende in Vaticano, in interno e in esterno, con venti metri di pellicola Lumière, per una durata di quasi tre minuti, Leone XIII, sorridente e benedicente, consapevole che la sua benedizione è rivolta non solo urbi et orbi, ma anche alle future generazioni. La pellicola originale è stata ceduta dalla Cineteca Nazionale alla Santa Sede nel 1959, nel trentennale dei Patti Lateranensi e all'apertura della Filmoteca Vaticana, dove tuttora è conservata.

Grande importanza ha il documentario scientifico realizzato in moltissimi campi, anche quello medico. Si assiste a uno sviluppo giornalistico del cinema, tempestivo nel fornire le immagini, a volte anche solo 2-3 giorni dopo l'evento. Abbondano gli incontri di re, le inaugurazioni, i funerali, i disastri, le calamità naturali, le esplorazioni.

Per stimolare ulteriormente l'interesse della cittadinanza, vengono cineripresi avvenimenti locali, quali l'inaugurazione di un Monumento, l'intenso traffico stradale con tramway, automobili, carrozze, cavalli e pedoni; oppure l'arrivo del treno, il lavoro dell'officina.

Il cinema, anche a seguito della loro nuova invenzione del proiettore cinematografico, comincia a essere anche nuovo mezzo di promozione turistica. A Venezia, nel 1896,ad esempio, al Teatro Minerva (ex Teatro San Moisè), suscitano grande entusiasmo le proiezioni, che si succedettero per circa due mesi, di alcuni film girati proprio nella città lagunare: I piccioni di Venezia, I vaporetti a Rialto e L'approdo di una gondola a San Zanipolo. In quest’occasione si ha l’ulteriore innovazione delle riprese in movimento, la prima carrellata. I Lumière collocano una cinepresa a bordo di un vaporetto che, scivolando sull'acqua, permette una ripresa in movimento del Canal Grande e dei suoi palazzi. L’immagine dell’Italia nel mondo è rilanciata attraverso le bellezze artistiche e industriali: la locomotiva come Piazza San Marco e i piccioni.

È rappresentato nel cinema persino, per così dire, il primo dibattito esteso a un largo pubblico, sull’interpretazione del Risorgimento. Il primo vero film della storia del cinema italiano, La presa di Roma del 1905 di Filoteo Alberini, divenne un vero e proprio caso politico-culturale.

Si faceva riferimento, per così dire, al teatro, infatti, in una serie di scene c’era Vittorio Emanuele II, c’era Garibaldi, c’era Cavour e ci si aspettava che ci fosse anche Mazzini. In realtà non c’è Mazzini, ma c’è Francesco Crispi, mazziniano da giovane, poi diventato monarchico. Ci fu poi una sorta di rifacimento di questo film, in seguito ad una forte pressione di alcuni gruppi repubblicani di Roma, che chiesero di fare, come oggi diremmo, una nuova edizione del film, in cui collocare, giustamente, anche Mazzini, accanto agli altri padri della Patria.

Nella scuola, in molti paesi, da tempo si è usa il cinema. In Italia siamo molto indietro su questo terreno e non a caso, per quello che mi riguarda, la prima sollecitazione a usare il film nell’insegnamento e nella ricerca della storia mi è venuta da due studiosi, non italiani, ma francesi: Marc Ferro e, soprattutto, Pierre Sorlin, che hanno scritto libri, tradotti in molte lingue, sui rapporti e sulle interconnessioni tra cinema e storia. Ricordo solamente di Marc Ferro, Cinema e storia (Feltrinelli, Milano1980) e di Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato (Firenze 1984).

Non mi propongo in questa sede di svolgere una lezione teorica, bensì di dar conto di alcune buone pratiche e, tra queste, anche di quelle che io da molti anni porto avanti all’Università degli studi Roma Tre, dove insegno storia contemporanea e animo un laboratorio di storia e cinema.

Rilevo, pur tuttavia, per fare solo un esempio, che quando, nel 1992, uscì Malcom X, film cult della black identity americana, che ripercorre la biografia politico-culturale e anche religiosa del leader afroamericano, Spike Lee invitò per la prima del film gli studenti di un centinaio di scuole di aree urbane disagiate, inviando loro un libro guida di questo suo film e sollecitò più volte, pubblicamente, a marinare la scuola e ad andare al cinema per poterlo vedere. “Chi l'ha detto – dichiarò in un’intervista -  che l'unico luogo di apprendimento sia tra le quattro pareti di un'aula? In quarta elementare il nostro maestro ci ha portato a vedere Via col vento perché stavamo studiando la Guerra di secessione. E se era plausibile che io vedessi quel film in quarta elementare, credo proprio che i ragazzi di oggi debbano vedere Malcolm X”.

Prima ancora di Spike Lee, uno dei padri fondatori del cinema mondiale, David  Wark Griffith, che nel 1915 realizzò il primo film colossal della storia del cinema, Nascita di una nazione, sosteneva, con grande forza e convinzione che, progressivamente, i libri di storia sarebbero stati sostituiti dai film.

La profezia di Griffith, a ben vedere, si è realizzata, anche se non si sono tirate tutte le conseguenze. D’altronde, anche in questo caso, questo film, Nascita di una nazione, non solo ebbe un successo travolgente, ma ha contribuito, non poco, a creare quella strana, paradossale, identità americana, che nasce da una guerra civile: anche se sembra assurdo e paradossale, l’identità americana, infatti, ha avuto proprio nella Guerra di secessione del 1860, il proprio incunabolo e la nazione americana in essa più che nello sbarco dei mitici Padri Pellegrini, rievocato nel Thanksgiving Day, ha la sua origine vera.

Non c’è dubbio che il film documentario e, ancor più, fiction, e, più in generale il mezzo audiovisivo (la televisione ha contribuito non poco a diffondere e rendere generalizzato la fruizione del cinema), con la sua straordinaria capacità evocativa e suggestiva, diffonda la conoscenza della storia. Ne permette la conservazione nella memoria, che è tanto più efficace, in quanto, spesso, è inconsapevole.

Nell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (AAMOD), grazie anche alla lezione di Ansano Giannarelli, l’assunto Griffith-Spike Lee è diventato senso comune condiviso, con il corollario importante della non distinzione tra film documentario e film fiction.

Ne ho fatto personale e formativa esperienza nel 1984, quando come consulente storico, assieme a Camillo Brezzi, Andrea Riccardi e Simona Colarizi, ho collaborato con Ansano Giannarelli per la realizzazione del film Roma occupata, prodotto dall’Istituto nazionale Luce.

Giannarelli ci convinse tutti, coinvolgendo me anche nel lavoro di montaggio, della necessità di ricorrere a brani di film documentari e film fiction per ricostruire e narrare i dieci terribili mesi dell’occupazione nazista, tra l’8 settembre 1943 e il 4 giugno del 1944, con le convulse giornate successive all’armistizio, i primi bombardamenti, la deportazione degli Ebrei romani, la strage delle Fosse ardeatine, l’esplosione di gioia per l’arrivo degli Angloamericani, ma anche la ricerca affannosa della sopravvivenza nella generale situazione di fame e paura.

Verificammo che nei documentari dell’Istituto Luce, dove lavorammo molto, guardando alla moviola decine di cinegiornali, c’erano poche immagini delle borgate e, addirittura nessuna di quelle con le cosiddette case minime, che il regime non poteva certo esibire come una grande realizzazione.

Immagini belle e nitide erano presenti, invece nel film fiction, Il gobbo di Carlo Lizzani, del 1960. Nel film, nel quale recita una piccola parte anche Pier paolo Pasolini, sono ricostruite la vita, le imprese e la morte di Giuseppe Albano, ribattezzato Alvaro Cosenza, detto il Gobbo del Quarticciolo, giovane diseredato che nella Roma occupata prende le armi contro i Tedeschi e, a liberazione avvenuta, contro gli Americani, diventando un bandito.

Nonostante l’intervento di Lizzani, la casa produttrice del film Il gobbo, per cedere anche solo alcuni minuti del film chiese una somma molto elevata e si dovette rinunciare. Come ho avuto modo di constatare, in tante proiezioni per uso didattico, lo spettatore, anche quello avveduto, spesso non riusciva a distinguere tra le immagini in movimento provenienti da film documentari e film fiction.

Nella mia attività didattica e formativa da molti anni pratico la sperimentazione dell’uso del cinema, con la collaborazione di Giandomenico Curi e Antonio Medici, acquisendo la consapevolezza della necessità di attivare nuovi insegnamenti come cinema documentario e semiologia del cinema e degli audiovisivi, al fine di fornire agli studenti, destinati nel loro futuro professionale, in molti casi, a diventare insegnanti o educatori, strumenti e metodi per decodificare e interpretare i documenti filmici.

Il film, secondo la magistrale lezione di Pierre Sorlin, costituisce quasi sempre un doppio tuffo nel passato. Da una parte serve a conoscere quanto in esso è narrato, dall’altra a comprendere la temperie culturale, politica e ideale del momento in cui il film è stato realizzato. Questa seconda funzione spesso è trascurata, mentre, invece, è fondamentale.

Un film esemplare in questo senso è Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Mancini, del 1972, che concerne la storia italiana e, segnatamente, la formazione dello Stato unitario.

Coprodotto dalla Rai e dalla jugoslava Histria film, era stato ideato come uno sceneggiato televisivo in tre puntate di 165 minuti, ma non fu mai messo in onda in questa versione. Ebbe ampia circolazione cinematografica in una versione ridotta di 110 minuti. Nella prima messa in onda televisiva, nel settembre del 1974, fu visto da oltre dieci milioni di spettatori.

L’episodio della rivolta popolare di Bronte, paese sulle falde dell’Etna, sull’onda dell’avanzata vittoriosa di Garibaldi in Sicilia e dell’imprevista, feroce, repressione da parte di un reparto di garibaldini comandato da Nino Bixio, nonostante il sottotitolo del film, è molto noto. Nella sceneggiatura di Vancini, che si avvale anche della collaborazione di Leonardo Sciascia, si fa riferimento, non a caso, a una nota novella di Giovanni Verga, Libertà.

In un laboratorio di storia e cinema dedicato al Sessantotto, Bronte, cronaca di un massacro, può essere a pieno diritto, inserito in un elenco di film esemplari su quella straordinaria stagione dei movimenti giovanili, magari dopo Fragole e sangue di Stuart Hagmann, del 1970, che narra la dura repressione degli studenti di San Francisco, dopo l’occupazione della Columbia University.

È un film che rinvia, in forma esemplare, alla temperie culturale e politica, persino umorale di quella stagione, nella quale il Risorgimento era rivisitato come il movimento della Resistenza, entrambi ritenuti tarpati delle potenzialità di cambiamento rivoluzionario a causa del tradimento dei gruppi dirigenti.

Il personaggio più radicale del film Bronte, il carbonaio Gasparazzo, si rifuta di accogliere pacificamente Nino Bixio, quando entra nel paese ribelle per ristabilire l’ordine, e fucile in spalla, sale in montagna, evocando con il suo gesto i partigiani della Resistenza. Non a caso nel quotidiano Lotta continua, il personaggio di una striscia, che impersona i giovani e combattivi operai massa della Fiat, per lo più immigrati meridionali, si chiama Gasparazzo e ha le sembianze proprio del personaggio di Bronte.

Pierre Sorlin, dianzi citato, ha ragionato molto intorno alle interpretazioni cinematografiche del Risorgimento. Si è soffermato in particolare su Senso e Il Gattopardo, di Luchino Visconti, rispettivamente del 1954 e del 1963, entrambi con la sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico, a partire, il primo da un racconto di Arrigo Boito e il secondo dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Pierre Sorlin, in consonanza con Guido Aristarco, ritiene che Luchino Visconti abbia superato il neorealismo per sperimentare una nuova forma di realismo, attento alle dinamiche psicologiche dei personaggi descritti nei film, oltre che alla maniacale ricostruzione dei contesti storici e ambientali.

In questa luce, Sorlin, per comprendere le dinamiche della Rivoluzione francese, suggerisce agli insegnanti la visione del film europeo di Ettore Scola, Il mondo nuovo (La nuit de Varennes, nella versione francese), del 1982. Lo spettatore, sia esso studente liceale o studente universitario ha la possibilità di verificare come anche nei momenti di radicale cambiamento politico, sono in molti a non percepirle. Nel film di Scola, che è ambientato, ovviamente nella Francia rivoluzionaria del 1791, durante la fuga del re Luigi XVI e della regina Maria Antonietta a Varennes, gran parte dei personaggi del film, da Restif de la Bretonne, a Giacomo Casanova, a Thomas Paine, non capiscono nulla di quanto sta accadendo. Ognuno è preso dai propri interessi particolari e l’unico scopo è andare avanti, finire il viaggio. Era anche lo scopo del Re, ma, in questo caso, c’era la preoccupazione per la conservazione del suo trono e anche della sua vita.

Un altro percorso di storia e cinema che ho proposto ai miei studenti ha riguardato i mutamenti profondi, pervasivi e rapidi della società italiana nei decenni Cinquanta e Sessanta, per i quali ho fatto ricorso alla categoria interpretativa della grande trasformazione di Karl Polanyi. Periodo durante il quale in Italia, senza che il Paese nel suo insieme impazzisca, una persona su tre, cambia residenza, cambia lavoro, cambia modo di vestirsi, di mangiare e spesso anche modo di pensare.

Ho fatto ricorso in questo percorso di studio e riflessione sulla grande trasformazione dell’Italia repubblicana unicamente a film fiction che descrivevano e interpretavano quella che, allora, si chiamava la provincia italiana, ovvero le varie realtà dell’Italia, anche le realtà radicalmente altre, come la Sardegna.

I film selezionati, presentati sempre con schede informative, senza mai prevedere il dibattito finale, di fantozziana memoria, che molto spesso mortifica le emozioni e le suggestioni che la visione del film ha suscitato, erano I Vitelloni di Federico Fellini, del 1953, Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta, del 1961, Divorzio all’italiana di Pietro Germi, del 1962, Romanzo popolare, di Mario Monicelli, del 1974, che ha concluso la rassegna.

Prima dell’incontro, nell’ultimo caso, ho interpellato Mario Monicelli e lo sceneggiatore, suo amico fraterno, Furio Scarpelli, che conoscevo personalmente. Mi rispose con il suo abituale tono burbero e provocatorio: “Ma che ci capisci tu di Cinema? Insegna la Storia e lascia perdere il Cinema”. Io gli feci avere una breve scheda del film, in cui scrivevo che Romanzo popolare era una rappresentazione esemplare di quella della prima vera identità condivisa, la nuova koinè nazional-popolare del nostro Paese. I personaggi del film, sono, da questo punto di vista, esemplari, dall’operaio lumbard, fino a giovane poliziotto meridionale uscito anch’egli trasformato uscito trasformato dalle grandi lotte operaie e sociali della lunga stagione dell’autunno caldo.

Il personaggio più positivo, quello che in qualche modo prefigura il futuro, è una giovane donna (Ornella Muti), quasi una ragazza, anch’essa meridionale, amata e contesa dal sindacalizzato combattivo operaio lumbard (Ugo Tognazzi) e dal poliziotto del Sud (Michele Placido).

Scarpelli lesse la mia scheda e con un tono sempre burbero ma affettuoso, mi disse: «Hai ragione tu; non ci avevo pensato neanche io, ma è proprio così, anzi, se m’inviti, vengo».

Vennero sia lui che Monicelli, dopo avere avuto la certezza che non ci sarebbero stati né giornalisti, né autorità accademiche. Fu un incontro memorabile, che abbiamo anche filmato. I due padri del cinema italiano, due grandi e vivacissimi vecchi, nati a ridosso della Prima guerra mondiale, per due ore hanno trasmesso una stimolante visione concreta e personale della storia italiana di tutto il Novecento a centinaia di studenti che l’aula magna non riusciva quasi a contenere.

Ho riportato quest’aneddoto per vanità personale, ma anche per sottolineare che nei percorsi di storia e cinema è quanto mai stimolante e proficuo per gli studenti confrontarsi con i registi, gli sceneggiatori, gli attori stessi, anche perché dalla loro testimonianza emerge, quasi sempre, la loro peculiare natura d’intellettuali, che rivendicano con orgoglio la loro condizione di artigiani del cinema e la loro abitudine a lavorare e creare non in solitudine, ma in gruppo, essendo il film sempre un’opera d’arte, nel senso letterale del termine, collettiva, mai individuale.

Ai fini di possibili percorsi di storia e cinema può essere utile dar conto di un’altra esperienza condotta all’interno dei corsi di storia contemporanea e di storia della pace, la cui positività è stata testata anche in corsi di formazione e di aggiornamento per insegnanti. Punto di partenza è stata la consapevolezza della connotazione antinomica del Novecento, della quale ho dato ampia delucidazione nel libro Novecento. Il secolo delle antinomie (Roma 2011).

Tra le antinomie, soprattutto quella più tragica e determinante, tra pace e guerra. Il Novecento è stato il secolo delle guerre e anche dei genocidi e delle violenze di Stato. Su questi ho costruito un percorso di studio e ricerca con schede informative e proiezioni cinematografiche, facendo, preliminarmente i conti con il nodo di difficile soluzione dell’unicità della Shoah. Se essa, infatti, costituisce un potente argine contro le variegate forme di negazionismo e riduzionismo, che la dissolvono negli infiniti eccidi che hanno caratterizzato la storia umana o anche solo nel generale contesto di violenze e di morte della Seconda guerra mondiale, per l’altro può indurre a pensare che il genocidio si esaurisca nello sterminio degli Ebrei e possa essere confinato nella Giornata della memoria.

Proprio la Shoah, invece, nella sua ideazione, programmazione e attuazione ha fornito al giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin, suggestioni e indicazioni per codificare, dal punto di vista giuridico internazionale, la nuova fattispecie giuridica delitto di genocidio.

Le Nazioni Unite, a partire dalla Risoluzione 96 dell’11 dicembre 1946, che dichiara il genocidio «crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile  (…) che in tutte le epoche ha inflitto gravi perdite all’umanità», ha adottato, il 9 dicembre 1948, la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, entrata in vigore il 12 gennaio 1951.

Il percorso ha inizio con il primo genocidio moderno, quello degli Armeni, consumato negli anni della Prima guerra mondiale, nell’Impero Ottomano, ormai in grande decadenza. I Giovani turchi, filo-occidentali, laici, pensano di costruire lo Stato nazionale turco sul modello europeo, negando l’esistenza di altre nazionalità, come quella dei curdi e sterminandone un’altra, come quella degli Armeni. In questo caso il film cui io ho fatto riferimento è La masseria delle allodole, del 2007, diretto dai fratelli Taviani, adattando liberamente l'omonimo romanzo di Antonia Arslan. Il film è stato prodotto in Italia, ma anche in Bulgaria, Francia, Spagna e Regno Unito. Questo riferimento a più paesi produttori non è superfluo, perché rende immediatamente comprensibile la frequente connotazione internazionale della produzione cinematografica, ma aiuta anche a comprendere come, in alcuni casi, l’interesse non sia solo di tipo finanziario. Nel caso specifico del film dei Fratelli Taviani, il coinvolgimento della Francia rinvia alla consolidata presenza nel suo territorio di una numerosa e influente  comunità armena, sfuggita per gran parte al genocidio.

Il genocidio degli Ebrei e dei Rom d’Europa, la Shoah e il Porrajmos-Samudaripen, è il più noto (molto meno, perché dimenticato e rimosso quello dei Rom) è quello più conosciuto dagli studenti, anche per le molte iniziative promosse in occasione della giornata della memoria. Film di riferimento quasi obbligato è Train de vie-Un treno per vivere di Radu Mihăileanu, del 1998 . Un film straordinario, anche da un punto di vista didattico, prodotto in Francia, Belgio, Israele e Romania. La Romania è il paese natale del regista, anch’egli di origine ebraica, ma molto attento e sensibile nei confronti della storia e della cultura dei Rom e, non a caso, la musica del film è di Goran Bregović.

Il genocidio cambogiano si protrae per tre anni, dal 1975 al 1978, nell’indifferenza della pubblica opinione internazionale e, ancor più delle cancellerie, con gli Stati Uniti, la Cina e la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite che continuano a riconoscere come governo legittimo quello dei Kmer Rossi di Pol Pot.

Il film di riferimento è Urla del silenzio di Roland Joffè, del 1984, prodotto dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Il titolo originario del film e del libro da cui era tratto (The Killing Fields), rinvia immediatamente agli aspetti peculiari di questo genocidio, definito talvolta come autogenocidio, in cui carnefici e vittime appartengono allo stesso popolo e i carnefici sono, molto spesso, dei bambini. La morte più frequente delle vittime, rappresentata nel film con asciutta crudezza, è uno straordinario impasto di tradizione e modernità: canne di bambù usate per bastonare fino allo sfinimento e buste di plastica il soffocamento finale.

L’ultimo genocidio, il genocidio etnico del Ruanda, che vede i Tutsi come vittime e gli Hutu come carnefici, si consuma in brevissimo tempo, dall’aprile al luglio del 1994, a partire da contrasti e conflitti interetnici, che il colonialismo e il neocolonialismo europeo avevano alimentato ed esasperato. Il film di riferimento è Hotel Rwanda di Terry George, del 2004. Tra i paesi produttori, oltre al Canada, la Gran Bretagna, l’Italia, è presente il Sud Africa di Nelson Mandela, quasi a significare come la sua classe dirigente tenda a farsi carico dei drammi complessivi del continente.

Il percorso si conclude con due casi esemplari di violenze di Stato: la dittatura militare e, segnatamente la tragedia dei desaparicidos in Argentina e l’Apartheid in Sud Africa. I due film di riferimento sono rispettivamente, Garage Olimpo di Bechis, del 1999, coprodotto dall’Argentina e dall’Italia e In my Country di John Boorman, del 2004, coprodotto, invece da Gran Bretagna, Irlanda e Stati Uniti.

Cosa hanno in comune questi film, per questo percorso su un aspetto del Novecento difficile da insegnare, sia a studenti universitari e, ancora di più, a studenti delle superiori? Sono tutti film molto recenti e anche film disponibili sul mercato, che possono essere acquistati anche dagli studenti. Sono film le cui durate li rendono inseribili all’interno di un modulo, ad esempio, di due ore, sufficiente non solo per la proiezione, ma anche per la presentazione del film, che non dovrebbe mai essere suddiviso in più incontri e, soprattutto, non seguito dal dibattito, come da sempre valido insegnamento di Nanni Moretti. 

Il ricorso ai film, specie in questo percorso sulle tragedie del Novecento, può essere un valido aiuto a non arrendersi di fronte alle difficoltà che tanti insegnanti hanno nell’insegnare la storia del secolo appena trascorso, costituite soprattutto dalla tentazione di cancellare e/o rimuovere la memoria di orrori e tragedie che hanno contrappuntato il Novecento. 

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