Mercoledì, 19 Marzo 2014

Il dibattito storiografico sulle fonti filmiche. Una sintesi

Silvia Pagni
Sezione Studi

Abstract

Nel saggio si ripercorrono gli studi e le prospettive del dibattito storiografico sull’uso delle fonti audiovisive per la storia del Novecento. Vengono messi in risalto anche il ruolo degli archivi e l’importanza della documentazione cartacea correlata alla fase di progettazione di un film. 

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Fonti audiovisive e materiali documentari correlati

Prima di ripercorrere sinteticamente il dibattito in questione, ritengo utile una premessa.

Il metodo storico tradizionalmente  si è basato su una lettura esegetica ed ecdotica delle fonti e, quando lo si va ad applicare alle fonti audiovisive, indubbiamente si pone un problema di adattamento di tale metodologia e di approccio a materiali inediti quali soggetti o sceneggiature che sono espressione di un continuo work in progress.

Quando si analizza un documento filmico si pone la difficoltà di effettuare uno studio su due binari paralleli: da una parte il film o il documento filmico finito, dall’altro quel corpus di documentazione cartacea costituita da soggetti, sceneggiature, trattamenti, correlato alla fase di progettazione del documento audiovisivo stesso.

Per molto tempo questo materiale cartaceo è stato oggetto di scarsa attenzione forse per la mentalità che porta a privilegiare l’opera filmica come prodotto finito e pronto per la visione, ignorando quei materiali che documentano le fasi di realizzazione del prodotto[1], ma recentemente si è diffusa una nuova sensibilità volta alla valorizzazione e alla conservazione dei fondi documentari cartacei[2]. Negli ultimi anni si sono costituiti numerosi fondi archivistici volti a salvaguardare e promuovere questo enorme patrimonio.

 Nei fondi archivistici di recente costituzione tuttora permangono delle criticità, date soprattutto dalla mancata uniformità nel riordinamento delle serie archivistiche e dalle difficoltà di accesso alla documentazione.

Naturalmente le restrizioni d’accesso ai documenti di questo e di altri enti sono in gran parte riconducibili alle limitazioni legate alla normativa sul diritto d’autore. Molti archivi stanno comunque adottando ordinamenti e organizzando i fascicoli in modo rigoroso, con un occhio attento ai vincoli che legano i documenti, nel rispetto della loro provenienza.

Nonostante queste difformità e la complessità correlata alla catalogazione e alla descrizione di questo materiale, deve essere fatto un plauso a numerosi istituti che sono stati degli antesignani nella valorizzazione di questa documentazione nell’ambito della cultura nazionale. In particolar modo l’Arichivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, istituto che si caratterizza per l’intensa attività didattica e progettuale, a partire dal 1995 ha pubblicato una “Guida agli archivi audiovisivi in Italia”, successivamente aggiornata in diverse versioni, fino al 2005, inoltre ha tradotto le regole di catalogazione dei film, messe a punto dalla FIAF, con lo scopo di formulare un metodo condiviso nel trattamento di questo materiale.

Esplorando gli archivi che conservano materiale cinematografico, emerge anche una costante: il materiale cartaceo conservato è relativo in buona parte alla progettazione ideativa e creativa[3] del film (soggetti, trattamenti, scalette, sceneggiature), in parte a quella produttiva (piani di lavoro, preventivo dei costi, piano finanziario) e alla preparazione della realizzazione (elenchi dei cast di attori, studi per scenografia e costumi, definizione attrezzature tecniche).  Anche la fase di diffusione produce materiale cartaceo, basti pensare, oltre alla rassegna stampa, ai press book, ai flan sui giornali e ai cartelloni pubblicitari; si può ipotizzare che una parte di tale materiale giaccia  nei depositi di molte società di produzione o nelle case di qualche collezionista e che aspetti di essere riportato alla luce per essere analizzato e studiato.

Sorge sotto questo punto di vista un problema legato alla politica aziendale di queste società, che, se motivate a restaurare una vecchia pellicola per il tornaconto economico che ne può derivare, sono meno interessate a investire nella tutela di quei materiali cartacei prodotti durante le fasi di realizzazione di un film, per il semplice motivo che da questo materiale difficilmente si potrà trarre profitto.

Studiando in archivi diversi è possibile  constatare come la documentazione in questione sia in gran parte inedita, non ancora oggetto di analisi dettagliate e di studi monografici; questo apre prospettive davvero stimolanti e  interessanti per lo studioso che intenda addentrarsi in questo filone inesplorato di ricerche relative all’esplorazione dei giacimenti documentari cartacei della memoria del cinema.

Lo studio delle fonti cartacee si rivela molto utile e fruttuoso soprattutto per portare alla luce quel contenuto latente del film, che spesso invece serpeggia potentemente nel lavoro di sceneggiatura, nel suo “spoglio”, e nella produzione degli altri documenti soprattutto nella fase ideativa e di progettazione creativa. Credo che il recupero di tale documentazione e il suo uso potrebbero segnare delle prospettive nuove anche nel dibattito storiografico sull’utilizzo di queste fonti. Ricollegandomi al concetto di intenzionalità delle fonti, ritengo di poter sostenere che la documentazione cartacea racconti qualcosa che non possa scaturire dalla sola e semplice visione delle immagini, aiutando a rendere trasparenti le motivazioni, quando a non farle emergere altre, dei registi e delle opere che esaminiamo, afferrando quella che è la loro autentica, più ampia, Weltanschauung. 

Il dibattito storiografico

Il dibattito storiografico intorno al cinema nasce già nell’Ottocento con la diffusione del nuovo mezzo di comunicazione. Nel 1898 un giovane fotografo e cineoperatore polacco di nome Boleslaw Matuszewski, in Une nouvelle source del’Histoire: Création d’un Dépot de Cinematographie historique, guarda con approccio positivista al nuovo medium, per cui se la storia è una scienza basata su fatti realmente accaduti, documentati e documentabili, allora il cinema, che riproduce la realtà in maniera obiettiva, ne dovrà divenire la fonte privilegiata[4]. Matuszewski considera le immagini in movimento come dei veri e propri documenti, degni di essere conservati in specifici archivi. Addirittura si spinge a ipotizzare la costituzione di un organismo, aperto al pubblico, dove le immagini in movimento siano sottoposte ad un deposito legale obbligatorio, nell’ottica di favorire la conservazione dei negativi originali delle pellicole in tutti i paesi[5]. 

Le riflessioni di Matuszewski riscuotono un’accoglienza tiepida, ma si inseriscono in un momento in cui è in atto un fervido dibattito culturale entro cui nasce e si sviluppa la storia come disciplina moderna e i grandi paradigmi che l’animeranno per tutto il Novecento.

Al di là di quella che è la fiducia positivista nel rapportarsi col nuovo mezzo, ben presto emerge in molti critici l’osservazione che il cinema possa fornire una visione distorcente della realtà. Infatti, i principali dubbi metodologici che sono sollevati nello studio del cinema dalla storiografia possono essere riassunti in tre punti: vi è una difficoltà nel tradurre il linguaggio iconico in  linguaggio verbale e nell’esaminare le immagini con gli strumenti verbali; nel cinema non vi può essere verità assoluta perché tutta una serie di elementi sono sempre manipolabili tramite la messa in scena e il montaggio; nei film vi è sempre anche una intenzionalità non sempre facilmente individuabile, ovvero la disposizione soggettiva di un determinato autore.

Il cinema è stato quindi, e continua ad essere guardato con diffidenza, a volte considerato addirittura  una sorta di macchina della menzogna, comunque uno strumento di per sé di finzione. 

Siegfried Kracauer

 A Siegfried Kracauer[6] va riconosciuto il merito di aver fondato la moderna sociologia cinematografica aprendo nuove prospettive di studio e sviluppando un’indagine critica sul cinema tedesco con lo scopo di approfondire la conoscenza della Germania pre-hitleriana. 

Nel suo originale lavoro, Da Caligari a Hitler, una storia psicologica del cinema tedesco (1954), il sociologo tedesco argomenta che il cinema riflette in modo più diretto di altri mezzi artistici la mentalità di una nazione per due motivi. Primo: il film non è mai il prodotto di un individuo, ma esiste una dimensione collettiva nella realizzazione di un’opera cinematografica. Secondo: i film si rivolgono alla folla anonima e l’attraggono soddisfacendo effettivi desideri di massa.

Scrive Krakauer: «i film rispecchiano, non tanto espliciti credo quanto disposizioni psicologiche, quei profondi stati della mentalità collettiva che giacciono più o meno sotto la stato di coscienza»[7]. 

In un film spesso i primi piani rivelano gesti trascurabili che divengono i geroglifici dell’invisibile dinamica dei rapporti umani e questi geroglifici sono proiezioni interne di esigenze interiori.

Kracauer è attento studioso e ammiratore di Erwin Panofsky e della sua lettura iconologica della storia dell’arte. In particolar modo l’Espressionismo viene letto come ritorno a forme primordiali dell’istinto primitivo e come maschera artistica dietro cui si nasconde il volto tedesco. Attraverso questo metodo d’indagine, analizzando temi cinematografici, Kracauer si propone di studiare la mentalità tedesca subito dopo la Prima guerra mondiale: i film, riflettendo su un universo immaginario, fanno luce su nascosti processi mentali. Il ceto medio tedesco è innanzitutto il riferimento esplicito della trattazione e la tesi centrale di Kracauer è che la resa al nazismo del ceto medio fu dettata più da una fissazione emotiva, che da una reale presa di coscienza politica.

Gli storici spesso trascurano la psicologia dei popoli, ma per spiegare la follia collettiva che portò all’ascesa di Hitler non è sufficiente effettuare una ricostruzione delle cause economiche e sociali conseguenti alla Prima guerra mondiale.

Già nel 1913 nell’opera di avanguardia Der Student von Prag del regista Paul Wegener, Kracauer, parlando di presentimenti, individua un tema che poi sarebbe divenuto ossessivo per il cinema tedesco: l’attrazione paurosa e profonda per le basi segrete dell’Io.

  La nascita del cinema tedesco è legata da una parte alla fondazione dell’UFA- Universal Film Aktuelle Gesellschaft, che sarebbe divenuta lo strumento principe per le autorità tedesche per “educare” l’opinione pubblica, dall’altra anche al fermento culturale e intellettuale espresso dallo stato d’animo definito col termine Aufbruch. Per i giovani tedeschi l’Aufbruch voleva dire distacco da un mondo in frantumi, per costruire una nuova società basata su concetti rivoluzionari. Grazie a questo Aufbruch, molte energie creative furono attratte dall’arte cinematografica, con il convincimento che il cinema potesse aiutare nella realizzazione di questa palingenesi sociale. Di conseguenza l’arte espressionista, con la sua ricerca dell’emozionale che circonda l’individuo, divenne molto popolare in Germania e in Russia[8].

Un altro shock, lo studioso lo individua nei drammi storici di Ernst Lubitsh, perché se poteva sembrare normale che in un periodo di crisi nazionale il popolo fosse sensibile alla rappresentazione di grandiosi periodi storici, meno consueta risultava la visione nichilista che si dava della storia: 

si veda la spietata inflessibilità con cui i film di Lubitsch mandano a morte sovrani, ma fanno perire anche giovani amanti… la storia appare un cosa priva di senso, un’arena per lo scatenarsi di istinti ciechi e feroci, un prodotto di macchinazioni diaboliche[9]. 

Lubitsch sviluppò un talento per le scene di massa e, grazie al taglio psicologico della storia, si soffermava su dettagli apparentemente insignificanti per sottolineare la drammaticità degli eventi.

  Il primo film indicato come veramente rivoluzionario da Kracauer fu Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene, su soggetto di Hans Janowitz e Carl Mayer; in questo racconto dell’orrore, il dottor Caligari, uno psichiatra che ipnotizza le persone costringendole a commettere orribili delitti, personifica l’autorità illimitata che per soddisfare la sua smania di potere, viola ogni diritto umano fino a giungere all’omicidio. Questo era un tema caro al pacifista Janowitz che vedeva nelle vittime di Caligari il prototipo dell’uomo comune, costretto dall’autorità statale al servizio militare obbligatorio e addestrato ad uccidere per non essere ucciso. Caligari è una premonizione di Hitler in quanto «usa il potere ipnotico per piegare al suo volere il suo strumento, tecnica che anticipa per contenuti e per scopi quella manipolazione dello spirito Soul che Hitler per primo esercitò su larga scala»[10].

  Questa esplosione anarchica di istinti e passioni, la ritroviamo come principale leitmotiv in Nosferatus di F. Murnau, in Der müde Tod e in Die Nibelungen di F. Lang. Tali film ispireranno il regime nazista nell’emulazione della rappresentazione ornamentale delle masse.

Kracauer insiste molto sulla massa come ornamento, visione  che prefigurava una nuova sacralità e la necessità di un ritorno all’ordine, le figurazioni di massa sono considerate sintomatiche della perdita di individualità in analogia con l’emergere dei processi produttivi capitalistici. La geometrizzazione dell’umano, ben analizzato nei Nibelunghi di Lang, viene visto in chiave molto negativa nel senso di una pericolosa spersonalizzazione dell’individuo.

Con l’inizio del piano Dawes (1924), la fisionomia del cinema tedesco mutò e abbandonati i toni cupi e tenebrosi ci si rivolse a film realistici, al documentario e alle sinfonie metropolitane inaugurate da Berlin Sinfonie einer grosses Stadt di Walter Ruttmann. Il contenuto psicologico era rimasto, anche se paralizzato e latente. Il cinema tedesco continuò a essere ossessionato da mostri discendenti da Caligari, veri e propri tiranni emblemi del terrorismo nazista.

Kracauer è stato sicuramente l’antesignano di un florido filone di studi, anche se oggi le sue riflessioni ci colpiscono per la visione schematica e deterministica. Molti storici del cinema hanno preso le distanze dall’idea che si possa leggere la storia del cinema come spiegazione delle disposizioni psicologiche di un popolo in uno specifico momento storico. Indubbiamente, Kracauer risente della teoria del rispecchiamento estetico del marxismo, nell’accettazione che l’arte abbia un valore conoscitivo e che sia rappresentativa della realtà, «i film rispecchiano l’ideologia di una società in decomposizione»[11].

Molto duro con Kracauer è stato lo storico Pierre Sorlin che ha respinto con forza il cosiddetto modello mimetico del sociologo tedesco, ossia un modello costruito sull’idea che un’immagine sia sempre una copia, una riproduzione dell’universo sensibile. Sorlin ritiene che lo stesso Kracauer spingendo oltre la sua tesi l’abbia in qualche modo disinnescata… «la maggior parte di coloro che si sforzano di indicare i legami che uniscono il cinema alla realtà, si circondano di prudenti riserve»[12], un film non descrive mai una realtà bruta, ma ne propone sempre un’interpretazione.

Peppino Ortloleva ha cercato di contestualizzare l’opera di Kracauer riconoscendo che  

se leggiamo Kracauer con la mente sgombra da pregiudizi, il punto di vista da lui assunto non è propriamente quello di uno storico, che cerca attraverso le sue fonti, incluso il cinema, di giungere a vedere e  leggere una società non sperimentata di persona. Al contrario, lo studioso tedesco aveva non solo conosciuto la società su cui riflette nel suo studio, ma ne era stato osservatore, se ne era fatto […] antropologo, con gli strumenti di una sociologia descrittiva di ispirazione fenomenologia di cui era stato uno dei massimi esponenti[13]. 

 Marc Bloch

Se a Kracauer va riconosciuto il merito di aver fondato la storiografia cinematografica, aprendo molteplici chiavi di lettura alla storia del cinema, per arrivare a un punto cruciale nel rapporto fra cinema e storia è necessario giungere a una vera e propria assimilazione di quella che era stata la riflessione metodologica di due grandi storici francesi, Marc Bloch e Lucien Febvre. I due fondatori della rivista Annales d'histoire économique et sociale,con la loro critica alla histoire événementiel, ossia a una storiografia basata unicamente su fatti, avvenimenti politici e militari, hanno rimesso in discussione il valore delle classiche fonti documentarie scritte. Nell’Apologia della storia o Mestiere dello storico (uscito postumo nel 1949)Bloch propone una bipartizione dei materiali in due grandi gruppi: da un lato le testimonianze volontarie come le fonti narrative, dall’altro lato i testimoni loro malgrado, cioè le testimonianze involontarie: «più la ricerca si sforza di raggiungere fatti profondi, meno le è permesso di sperare chiarezza se non da raggi convergenti di testimonianze molto diverse per natura»[14]. Anche le testimonianze, loro malgrado, possiedono la generale insicurezza del materiale storico e vanno quindi vagliate con dubbio metodico.

Se in un prima fase storica, il cinema, puntando l’attenzione su grandi avvenimenti,  sembrava ripercorrere i passi della histoire événemntiel, focalizzando la propria attenzione su grandi battaglie, sulle gesta dei re e mostrando scarsa attenzione per gli umili e la gente comune, successivamente, iniziando ad occuparsi della storia sociale, il cinema si è rivelato un ottimo testimone involontario, che consente di afferrare la mentalità collettiva degli uomini, in quanto prodotto dell’uomo.

In particolar modo, la riflessione dei fondatori della rivista Annales ha rappresentato una svolta metodologica, non solo ampliando enormemente il campo dei documenti utili per la ricerca storica e riconoscendo la dignità a fonti diverse da quelle scritte, ma anche  ridefinendo la natura della fonte che appare l’oggetto di un vero e proprio interrogatorio da parte dello storico. In quest’ottica tutte le fonti sono lecite se lo storico ha la capacità di interrogarle.

Applicando la celebre similitudine  di Bloch, ovvero che come l’orco della fiaba sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda, così lo storico che si appresta a confrontarsi col cinema, lo analizzerà secondo una determinata direzione indicata dal suo istinto e dal suo desiderio di interrogarlo come fonte “nuova”.

 La nascita del dibattito storiografico contemporaneo 

Secondo lo storico francese Marc Ferro un punto di svolta che ha significato la definitiva introduzione del documento audiovisivo fra le fonti storiche è stato la realizzazione del film L’anne17, nel 1967, un documentario sulla Rivoluzione Russa nel quale lo storico francese ha utilizzato materiali inediti. Dopo questa esperienza, Ferro è divenuto responsabile dei film prodotti dalla Hachette- Paté (Immagini della Storia).

In particolar modo, Ferro è stato il primo a parlare di scrittura filmica della storia in complementarità ed opposizione a una lettura storica del film. La costruzione del racconto storico attraverso il montaggio, attraverso la ricomposizione di materiali preesistenti può portare a una ricostruzione del passato che, anche se soggettiva, possiede un forte valore conoscitivo, estremamente utile per la didattica e la ricerca storica.

  La storiografia anglosassone invece, in particolar modo lo storico Anthony Aldgate, colloca l’ingresso del film come documento storico negli anni Settanta quando presso l’International Congress of the Historical Sciences fu istituita una Iconographical Commission[15].

Secondo R. Phiton, in Cinéma et histoire: bilan historiographique, tre sono le principali scuole di pensiero, per quanto concerne una lettura storica del cinema: quella anglosassone, quella di ascendenza Kraucheriana identificata con la riflessione di Marc Ferro e quella di tipo semiotico che ha avuto in Christian Metz e in Pierre Sorlin i principali rappresentanti. 

  L’approccio anglosassone 

La storiografia anglosassone ha seguito uno specifico campo d’indagine riaprendo la discussione sul film come documento storico, tali studi hanno trovato spazio nelle pubblicazioni legate allo Iamhist - The International Association for Media and History e alla sua principale rivista, «Historical Journal of Film Radio and Television»[16].

Paul Smith ha cercato nel cinema i frammenti di realtà catturati dalla cinepresa, ecco quindi che il campo d’indagine preferito diventa quello dei film di documentazione, cinegiornali e documentari, mentre l’oggetto d’indagine deve essere possibilmente il materiale grezzo non montato. Aldgate ha preso spunto dai newsreels realizzati in Gran Bretagna, in occasione della Guerra Civile Spagnola, per studiare la manipolazione attraverso cui il girato viene montato per influenzare fortemente l’opinione pubblica.

  In parallelo alla storiografia anglosassone, Antonio Mura ha affrontato il problema di una critica delle fonti mirata al riconoscimento del documento autentico e veridico, al di sotto della manipolazione. Quella di Mura appare come una vera e propria enunciazione programmatica: 

Noi siamo oggi nella condizione: a) di poter documentare filmicamente avvenimenti del presente; b) di poter analizzare criticamente i documenti filmici prodotti dall’ultima decade del secolo scorso fino a oggi; c) di poter filmare tracce visibili di sé hanno lasciato alcuni fatti umani accaduti precedentemente alla nascita del cinema. Il che vuol dire, in altre parole, che noi possiamo avere, di un breve periodo di storia, film come documenti storici, e di tutto il resto della storia umana film come documenti di documenti storici[17]. 

Mura invita a restringere il cerchio intorno a quei documenti filmici che mostrano fatti realmente accaduti e senza finzione scenica, perché li considera ideali per rivedere gli avvenimenti nell’interezza e nella minuziosità della loro evoluzione, superando la capacità visiva dell’individuo.

Il paradosso di questa lettura, che contrappone al materiale grezzo quello manipolato, è che per leggere storicamente un documento audiovisivo si dovrebbero sopprimere proprio quegli aspetti che rendono fruibile e attraente questa forma di comunicazione. 

Marc Ferro 

Marc Ferro, storico legato alla Scuola delle Annales ha cercato nei suoi studi di mettere in evidenza le molteplici interferenze fra cinema e storia, concentrandosi sul cinema come agente della storia. Ferro ha analizzato film di propaganda diretta, da quelli del nazismo a quelli sovietici, passando per quelli bellici americani. Secondo le sue coordinate metodologiche, uno studio della ideologia sovietica o americana non può quindi non concentrarsi su una serie di film e documentari andando alla ricerca dei loro tratti comuni. Sotto la copertura della rappresentazione, quei film indottrinarono e glorificarono, ma qualunque film «per il suo contenuto trabocca e sfugge, tanto al censore tanto a colui che fissa le riprese»[18], nessun cineasta è in grado di cogliere tutti i significati della realtà da essi rappresentata.

Per Ferro è possibile una lettura storica del cinema e una lettura cinematografica della storia. Nel primo caso il cinema si rivela un ottimo strumento per mettersi ad ascoltare la società, andando alla ricerca del contenuto latente che si cela al di là del contenuto apparente. I film spesso svelano zone della storia fino a quel momento rimaste invisibili, mettendo a nudo aspetti falsificatori della tradizione storica[19]. Nel caso di una lettura cinematografica della storia, si pone per lo storico il problema della propria lettura del passato: «grazie alla memoria popolare e alla tradizione il cineasta storico può restituire alla società una storia di cui l’istituzione l’ha privata»[20]. 

  L’applicazione della semiotica al cinema Metz e Sorlin 

Un ulteriore filone ha visto l’applicazione delle teorie della semiotica al cinema, in particolare Christian Metz è stato il primo ad applicare la linguistica di Ferdinand De Saussure al cinema, interrogandosi su quale tipo di linguaggio ci fosse dietro il cinema e se eventualmente ci fosse una grammatica specifica.

Nel suo  primo contributo, del 1964, l’articolo Le cinéma, langue ou langage, apparso sulla rivista «Communications» e nel successivo lavoro, Essais sur la signification au cinéma del 1968, ripartendo dalla distinzione teorica che Saussure aveva introdotto fra langue (sistema di convenzioni e segni, cioè di codici che costituiscono la lingua di una comunità) e parole (l’utilizzo che il singolo individuo fa della lingua per comunicare i propri messaggi), Metz giunge alla conclusione che quello audiovisivo è un linguaggio senza lingua in quanto non fa riferimento a una componente segnica prestabilita; nel linguaggio cinematografico è presente solo il suo aspetto riproduttivo[21].

Pierre Sorlin ha proseguito questo filone di studi, sostenendo che i film vanno studiati ed analizzati mettendo a punto un metodo che tragga ispirazione anche da procedimenti adottati in altre discipline, quali la letteratura, l’arte e la linguistica. In particolar modo, concentrandosi sulla coppia sema-rappresentazione, lo storico francese si domanda se non esistano delle rappresentazioni che si formano e si evolvono in una manifestazione sociale senza mai tradursi in espressioni significanti: «accanto a ciò che viene detto, su cui ci informano i testi, non bisognerà far posto al non detto e il cinema non è forse sotto questo aspetto un documento privilegiato?»[22].

La semiotica si rivela un utile strumento  ausiliario nelle ricerche sul cinema, ma il problema non è tanto classificare i segni visivi raggruppandoli all’interno di una stessa categoria, ma chiedersi a quale uso rispondano. Per la sua tendenza a generalizzare, la semiotica si rivela distaccata dalla storia, ma lo storico non può ignorarla e non entrare in questo campo di indagine, visto che il cinema è un linguaggio non codificato o codificato in maniera “insufficiente”. Allo storico si impone di superare l’astoricità di altri studi, instaurando un dialogo critico con altri approcci e operando una “riconversione” del proprio metodo.

Nel cinema, un livello di difficoltà di analisi è dato dal fatto che spesso l’accoglienza riservata a un’opera è data da reazioni affettive ed emotive e dal piacere che provoca la visione del film.

Difatti, è richiesta una disposizione particolare nel visionare un film diversa da quella che esige un testo scritto: 

 è assurdo lavorare sul cinema se si è insensibili al piacere che provoca la visione di un film […] Il ricercatore che sia insensibile all’effetto cinema si pone all’esterno del film nel  territorio familiare del testo scritto[23]. 

Tutti coloro che assistono alla proiezione di un film non possono non provare delle emozioni, si parla di identificazione proiettiva per indicare quel processo in base al quale gli spettatori trasferiscono i loro timori, le loro aspettative sul film e costruiscono i personaggi in base a quello che desiderano per se stessi. 

Il film è una messa in scena anche per la relazione che stabilisce costantemente con lo spettatore; che sia chiaro o che sia oscuro, si rivolge ad un pubblico che cerca di sedurre o di stravolgere […] l’universo del film si organizza di fronte allo spettatore di cui cerca, fosse anche negativamente, la complicità[24]. 

Per Sorlin due sono le linee estreme  di analisi di un documento audiovisivo: da un lato rintracciare nel film ciò che è semplicemente «documentario e analizzarlo come materia prima»[25], dall’altro considerare le realizzazioni cinematografiche come insiemi in cui l’inserimento di ogni elemento ha un significato e «tentare  di cogliere gli schemi che hanno presieduto alla correlazione, all’organizzazione delle diverse parti che costituiscono il film»[26].

 Sorlin opta per questa seconda direzione ricorrendo al concetto di rappresentazione  della società: i film veicolano diversi tipi di rappresentazione e sono un modo che la società dispone per mettersi in scena, «l’interesse del film non sta nell’avere senso ma nel costruire molteplici linee di senso»[27].

Il messaggio iconico è un linguaggio polisemico che stabilisce col reale una molteplicità di relazioni semantiche e ciascun film costruisce il proprio codice di segni, organizzando i sistemi di relazione di cui è portatore.

Attraverso l’analisi del cinema italiano degli anni ’40, lo storico francese tenta di dimostrare come il cinema non sia solo il prodotto di chi lo gira, ma sia principalmente espressione ideologica di un certo gruppo sociale. Analizzando un film come Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948) Sorlin ritiene che la rappresentazione della disoccupazione in Italia nel dopoguerra non sia meno veritiera di quella che emerge dai libri. Le immagini di Roma nel 1947 ci offrono forse dei dettagli in più rispetto ad un testo scritto, in quanto riescono a rievocare l’atmosfera in cui viveva la gente, le immagini sono rivelatrici e partecipano ad una rappresentazione complessiva dei disoccupati nella città[28].

Proprio l’accostamento di codici diversi consente di introdurre quella che rappresenta la pietra miliare del metodo lanciato da Sorlin ossia il concetto di visibile, il visibile è ciò che appare fotografabile e presentabile sullo schermo in un dato periodo. Infatti, i cineasti sviluppano una visione dell’ambiente in cui si svolge l’azione che non riproduce il modo sensibile così com’è, ma con la lente attraverso la quale lo vedono i suoi realizzatori. Allo stesso tempo, gli spettatori  percepiscono il mondo attraverso le loro attese e mentalità.

«Le immagini di un film contengono ciò che è visibile per i contemporanei, o ciò che invisibile fino ad allora, sta per divenire visibile»[29]. Il non visibile  è ciò che è nascosto dietro il senso manifesto; lo si trova là dove il visibile si offusca e dove il film cambia direzione improvvisamente, ovvero il non visibile può essere definito come ciò che viene percepito, ma non riconosciuto. La società infatti è pronta solo a cogliere alcuni aspetti di una determinata rappresentazione, altri elementi saranno percepiti solo nei decenni successivi. È importante tenere conto di questo peculiare aspetto nel processo di ricezione/perceizone, perché spesso un film viene letto a partire da una conoscenza di quel tempo postuma, differente da quella dei primi spettatori.

Sorlin per primo si è interrogato anche sull’utilizzo dell’audiovisivo nella didattica della storia. Lo storico considera il cinema non solo come oggetto di interpretazione del passato, ma anche come potenziale strumento di trasmissione delle conoscenze. Nel suo contributo, Il Risorgimento italiano: 1860, Sorlin attraverso l’analisi del film 1860 di Alessandro Blasetti dimostra come la funzione dei film storici sia subordinata agli interessi del momento.

1860, realizzato nel 1934,  rievoca la spedizione dei Mille di Garibaldi descrivendo la Sicilia sotto la tirannia dei Borboni, l’aiuto chiesto a Garibaldi e la vittoria dei Mille attraverso gli occhi della società contadina. All’interno di questa folla contadina, emergono due personaggi: il sacerdote, responsabile della chiesa parrocchiale e Carmeliddu, il giovane pastore che sarà inviato da Garibaldi come messaggero.

1860 è un caso simbolico proprio perché è possibile verificare come la propaganda ufficiale fascista avesse grande effetto sull’opinione pubblica, anche se il film fu prodotto senza sovvenzioni governative da un gruppo di cineasti indipendenti. Il film non mira a fare propaganda, ma indubbiamente aderisce alle idee di Mussolini. Infatti, in tutta l’opera lo sguardo diffidente rivolto agli stranieri è in linea con la politica xenofoba fascista. Sorlin parla di consonanza cognitiva per sottolineare questa corrispondenza fra i temi sviluppati. Gli italiani degli anni Trenta considerarono normale che i siciliani fossero poveri e che un prete si mettesse alla guida dei contadini sottomessi alla dominazione straniera. Sorlin ricorda come il film possa essere utilizzato per una filosofia della storia, proprio perché la pellicola è stata prodotta durante il fascismo, che ha sempre guardato con un certo imbarazzo al processo di unificazione italiana. Molti leader fascisti erano repubblicani, perlomeno fino a quando il Duce riconobbe al Risorgimento il merito di aver iniziato la rinascita italiana. Non è un caso che il film nella versione originale si chiudesse con l’immagine di camicie rosse garibaldine e camicie nere fasciste[30]1860  ha sicuramente una dimensione politica e proprio per questo può rivelarsi molto utile ai fini didattici, per spiegare gli avvenimenti politici degli anni Trenta. 

 Il dibattito storiografico italiano: Peppino Ortoleva e Giovanni De Luna 

Nel dibattito recente si fa strada la necessità di considerare il cinema in quanto tale, non preoccupandosi della natura ambigua o contraddittoria della fonte, proprio per indicare questo cambio di rotta si parla di laicizzazione del dibattito[31].

 Peppino Ortoleva, ricostruendo il dibattito metodologico, invita a superare sia la visione positivistica del cinema come fonte veritiera, sia il carattere di documento ricostruito, manipolato: 

Attraversare la duplicità del cinema, la sua doppia natura di reale e fantastico è, invece, essenziale per ogni ricerca  che voglia tenersi, per così dire all’altezza del cinema […] il che ci mette di fronte ad un problema di metodo: quello di costruire  procedure di lettura della fonte capaci di attraversare l’ambiguità senza farsene schiacciare o disorientare[32] . 

Lo studioso invita anche a superare l’equivoco che per molto tempo ha portato a separare il documentario dal film di finzione, per il semplice fatto che tutto il cinema è insieme ricostruzione narrativa e riproduzione fotografica. Alla rinuncia all’invenzione, che è propria del documentario, pare corrispondere nel racconto di finzione un’analoga rinuncia ai riferimenti alla realtà storico-sociale, ben esemplificata nelle avvertenze dei titoli di coda di molti film, dove si sottolinea che «ogni riferimento a fatti realmente accaduti, a persone o a cose realmente esistenti è puramente casuale».

Ricollegandosi alla lezione di Sorlin, Ortoleva sottolinea come il film non vada interpretato come rispecchiamento di una realtà che rischia di essere mitica, ma come parte di un insieme di fonti che si costruiscono a vicenda.

Ortoleva vede però un pericolo nella proposta di metodo di Pierre Sorlin, proposta in cui il punto di partenza è un singolo film o un gruppo di film su cui si compie un percorso di lettura parallelo a quello del critico cinematografico. Se condotto in questo modo, il lavoro rischia di essere interminabile perché, scandagliando un testo cinematografico, sarà sempre possibile rintracciare informazioni relative a numerosi campi d’indagine.

È quindi fondamentale definire un’ipotesi preliminare di ricerca ovvero: 

l’esplicitazione preliminare delle ipotesi, l’evidenziazione del dialogo fra lo storico e la fonte, è essenziale per uscire dal dilemma fra una concezione dell’atto interpretativo come percorso obbligato, vincolato al rispetto di regole oggettive e univoche, e una concezione dell’atto interpretativo come lettura assolutamente arbitraria e soggettiva[33]. 

Per Ortoleva, a seconda della ipotesi storiografica da cui si parte, si giungerà a letture diverse e proprio per questo l’interpretazione delle fonti audiovisive va vista non come risultato definitivo, ma come un momento di un processo in cui si analizzano le fonti, si tracciano delle prime conclusioni e dietro il sorgere di ulteriori interrogativi si aprono nuove piste.

Nell’età contemporanea, in cui si è bombardati da numerosissime informazioni, lo storico è obbligato ad effettuare una selezione creando un corpus di fonti, magari non rigido, da implementare piano piano mantenendo la ricerca aperta.

Quando si analizza storicamente i film, è importante anche stabilire una divisione di campo rispetto a quella che è la storia del cinema di impronta critico-estetica, che tiene conto di gerarchie di valori quali il successo commerciale di un’opera cinematografica nel selezionare i film del grande cinema.

 Lo storico dovrebbe rimanere immune da selezioni di tipo estetico, in quanto qualsiasi film anche minore può rivelarsi utile per raccontare la società. La divisione di campo non deve essere eccessiva per il pericolo di giungere a una rigida separazione del lavoro fra una ricerca qualitativa tipica della storia del cinema e una ricerca seriale propria del metodo storiografico, nonché a una netta divisione fra cultura popolare e cultura alta.[34]

Il compito forse più arduo è quello di riuscire a dare una lettura non anacronistica, riuscendo a collocare la fonte nel suo tempo. Infatti, nel riconsegnare un film alla propria epoca, bisogna necessariamente ricordare che il nostro punto di vista è sicuramente differente da coloro che ne furono i primi destinatari e spettatori.

Si impone quindi un doppio processo: in primo luogo contestualizzare storicamente un testo filmico che diviene oggetto di discorso storico, in secondo luogo analizzare lo stesso testo come fonte storica. Nella prima fase è il testo stesso che assorbe informazioni e si fa interpretare a partire da una serie di dati che lo inseriscono nel suo tempo, nella seconda fase è il testo stesso che crea informazioni e diviene produttore di conoscenze del suo tempo.

Ogni lavoro di analisi presuppone che il singolo testo filmico sia preso in considerazione come unità, per poi essere smontato e ridotto a unità minori. In questo processo, per Ortoleva si evidenzia la differenza metodologica fra il critico cinematografico e lo storico, se il primo sottolinea al massimo le differenze fra singoli testi filmici per dare un giudizio estetico, lo storico invece cerca di stabilire delle connessioni.

Ortoleva propone un superamento dei due maggiori approcci metodologici, l’uno volto a considerare la fonte audiovisiva come proiezione di mentalità collettiva e quindi come soggetto passivo, semplice ricettore di un soggetto collettivo, l’altro volto a vedervi un vero e proprio agente, attore storico, oggetto attivo nei confronti di una massa passiva.

L’approccio metodologico di Peppino Ortoleva può essere sintetizzato  come superamento di questa dialettica nell’ottica di un doppio movimento. Il testo filmico può contemporaneamente agire sulla società contribuendo a modificare il pensiero collettivo, dall’altro può essere uno specchio fedele della società, dei suoi bisogni ed aspirazioni, le due letture non potranno che essere complementari ed integrarsi a vicenda.

Giovanni De Luna, storico contemporaneo nei suoi saggi L’occhio e l’orecchio dello storico (1993) e La passione e la ragione (2001) si è concentrato sull’uso pubblico della storia, un uso visto positivamente in quanto favorisce una democratizzazione profonda del consumo e della produzione storiografica. Oggi ogni storico si trova di fronte alla sfida avvincente di questo nuovo uso pubblico della storia e per rispondere efficacemente deve abituarsi a un nuovo rapporto dialettico con i mezzi di comunicazione.

In particolar modo, nel primo testo, del 1993, De Luna ha evidenziato come i media si leghino alla storia non solo per raccontarla, oggi la televisione racconta in diretta la storia attuando un processo di democratizzazione  della diffusione della conoscenza storica, al cui interno i cittadini possono controllarne il funzionamento e l’uso pubblico. 

La televisione può costruire una comunità la cui dimensione è potenzialmente illimitata, coincidendo con quella segnata dalle immense risorse tecnologiche dei media; sia quelli dell’occhio - cinema, televisione - che quelli dell’orecchio - radio, dischi - lavorano incessantemente a un processo di progressiva uniformazione delle forme dell’esistenza quotidiana, intervenendo così direttamente nel determinare le coordinate complessive al cui interno si realizza la storia contemporanea, intesa come vicenda collettiva dell’umanità[35].

 

 Nel volume successivo, La Passione e la ragione,De Luna approfondisce la sua ricerca, mettendo in evidenza come i media abbiano avuto un impatto fortissimo sullo statuto disciplinare della storia, in quanto hanno comportato una riconversione della scala gerarchica delle fonti, ma anche nuovi interrogativi relativi al diverso profilo di quelli che sono i nuovi depositi di memoria collettiva. Per quanto riguarda le fonti digitali, la distinzione fra la copia e l’originale viene a perdere senso nell’ambito elettronico.

De Luna si ricollega al pensiero del filosofo berlinese Walter Benjamin e in particolar modo al volume L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica  (1935), acuta riflessione sui mutamenti in atto nello statuto e nella fruizione dell’arte in seguito all’elaborazione di nuove tecniche di riproduzione e di trasmissione, quali la fotografia e il cinema. Per Benjamin, queste tecniche hanno portato a una riproduzione del visibile prima impensabile e di fronte a tale rivoluzione copernicana, si impone una ridefinizione dello statuto stesso dell’arte nella sua forma tradizionale.

Per quanto concerne la problematica relativa alle fonti, la verifica dell’intenzionalità si compone in realtà di due fasi distinte: primo, riconoscere le intenzioni dell’autore, il suo progetto politico e culturale; secondo, riuscire a far parlare il testo filmico scavalcando l’intenzione dell’autore facendo emergere quegli elementi intenzionali che sono rimasti impigliati al di fuori della capacità di controllo degli autori[36].

 Collegandosi alla lezione di Ortoleva, De Luna parla di mediazione fra la creazione estetica e sociale, «il film è un crocevia fra due sensi di marcia da un lato preleva dei materiali dall’universo sociale, li lavora, li riformula… dall’altro utilizza questa pratica  per comunicarli, per renderli intelligibili dai suoi spettatori»[37].

De Luna rilancia il tema del film come agente di storia, oltre che come fonte per la conoscenza storica, analizzando un film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. Quest’opera cinematografica rispecchia il cambiamento che si è verificato nel dibattito storiografico, in quanto alla dimensione epica del racconto storico dell’antifascismo e della Resistenza è subentrata la dimensione privata ed intima. Infatti, nel film di Benigni il dramma dell’Olocausto viene raccontato attraverso la vita di un giovane libraio toscano.

Per De Luna il film è un capolavoro in quanto riesce a comunicare negando e, sviluppandosi tutto «intorno alla coppia individuo stato, alla contrapposizione fra la buona volontà come risorsa strategica per gli individui e l’ottusa indifferenza burocratica degli stati»[38], il film riesce a trasmettere la memoria popolare, mostrando ai giovani ciò che è successo senza traumatizzarli, perché non mostra l’orrore della Shoah.

De Luna si è concentrato molto anche sulle potenzialità dei media, a supporto dell’insegnamento della storia. In particolar modo, per gli studi di storia contemporanea, la radio, le riprese fotografiche e televisive costituiscono un repertorio vastissimo di informazioni con le quali lo storico non può fare a meno di confrontarsi. Al confronto non è chiamato solo lo storico di professione, ma anche gli insegnanti che non devono dimenticare il potere di attrazione che i media esercitano sulle giovani generazioni.

Se è vero che in una prima fase il cinema, la radio, la televisione sono stati visti come nemici della didattica tradizionale, c’è stata poi una presa di coscienza delle enormi potenzialità di questi strumenti. Le immagini hanno una capacità di emozionare ed evocare superiore ad altri mezzi, soprattutto per il loro impatto immediato e per la loro capacità di sintesi.

Su tutta una serie di tematiche, i documenti filmici sono in grado penetrare passioni e sogni della società con una profondità che è sconosciuta ad altre fonti, vi è quindi un valore aggiunto nei nuovi media per quanto concerne la didattica della storia e tale valore «suggerisce che lo storico abbandoni la forma scritta senza che da questo derivi un irreparabile vulnus epistemologico alla propria disciplina»[39].

Nell’ultimo secolo, intercorso fra l’opuscolo di Matuszewski e i contributi della recente storiografia, il dibattito si è evoluto facendosi sempre più approfondito. Riprendendo una terminologia cara a Marc Ferro, si può dire che oggi gli storici non possano fare a meno di considerare l’universo audiovisivo sia come fonte che come agente di storia e tale dibattito ha finalmente acquisito uno statuto di scientificità e una sua specifica ermeneutica.

Lo storico oggi è meno intimorito quando si tratta di abbandonare una lettura filologica dei documenti basata sulla prova della loro autenticità, secondo quelle che sono state le grandi teorizzazioni ottocentesche, e sembra finalmente aperto al monito di Michelle Vovelle secondo cui ogni epoca si dà le fonti che corrispondono ai propri bisogni.

Come non concludere, ribadendo nuovamente che il cinema ha contribuito a secolarizzare la storia, disciplina spesso non amata dagli studenti, perché considerata troppo nozionistica e noiosa, rendendola accessibile a tutti con la sua prorompente potenzialità conoscitiva, restituita in forme, da studiare e decodificare, nonché contestualizzare, ma piacevolmente fruibili sotto l’aspetto spettacolare ed estetico.

Immagine in apertura: fotogramma del film Sciuscià, di Vittorio De Sica - Cesare Zavattini, 1946.  

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[1] Su questo aspetto cfr. Letizia Cortini, L’importanza dei fondi cartacei e del loro trattamento negli archivi cinematografici, in M. L. Lombardo (a cura di ), Cinema in archivio, «Archivi & Cultura», 2002.

[2] La legge 15 aprile 2004, n 106, “Norme relative al deposito legale dei documenti di interesse culturale destinati all’uso pubblico” prescrive all’articolo 4, comma 1, lettera p che documenti destinati al deposito legale siano anche soggetti, trattamenti e sceneggiature di film.

[3] Sulle varie fasi che costituiscono il processo produttivo di un film cfr. Ansano Giannarelli, Documentario e documentazione filmica, in “L’immagine plurale”, Annali 5, Aamod, 2003, pp.56-88.

[4] Cfr. G. Miro Gori,  La storia al cinema: ricostruzione del passato interpretazione del presente, Bulzoni, Roma, 1994, p. 11.

[5] Paolo Cerchi Usai, “La cineteca di Babele”, in Storia del Cinema mondiale, vol. V, Einaudi, Torino, p. 990.

[6] Si veda la voce biografica di L. Dorelli, Kracauer, Siegfried, in Eciclopedia del cinema (2003), Treccani.it L’Enciclopedia Italiana, http://www.treccani.it/enciclopedia/siegfried-kracauer_(Enciclopedia-del-Cinema)/

[7] S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino, 2001, p.52.

[8] Ibid., pp. 83-86.

[9] Ibid., pp. 99-100.

[10] Ibid., p.119.

[11] Ibid., p.7.

[12] P. Sorlin, Sociologia del cinema, Garzanti, Milano,1979, p.272.

[13] P. Ortoleva, Cinema e storia: scene dal  passato, Loescher Editore, Torino,1991, p.47.

[14]M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1998, p.53.

[15] Cfr. Ermanno Taviani, Il cinema di propaganda: il caso del Pci, in Annali 11 dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, 2008, pp. 16-17.

[16] Ibid., p.17.

[17] P. Ortoleva, op. cit., p.9.

[18] M. Ferro, Cinema e storia: linee per una ricerca Feltrinelli, Milano, 1980, p.28

[19] M. Ferro, op. cit, pp.122-123.

[20] Ibid.,p.17.

[21] A. Medici, D. Vicari, L’alfabeto dello sguardo. Capire il linguaggio audiovisivo, Carocci Faber, Roma, 2004, p.78.

[22] Pierre Sorlin, op. cit.,p.27.

[23] Ibid., pp. 306-7.

[24] Ibid., p.208.

[25] Ivi.

[26] Ibid., p.41.

[27] Ibid., p.56.

[28]Ibid.,pp.40-41.

[29] Ibid., p.72.

[30] Cfr. Pierre Sorlin, Il Risorgimento italiano: 1860,in La storia al cinema: ricostruzione del passato interpretazione del presente, a cura di Granfranco Mirco Gori, Bulzoni, Roma,1994, pp. 409-420.

[31] Cfr. Ermanno Taviani, op. cit., p.20.

[32] Peppino Ortoleva, op. cit., p.79.

[33] Peppino Ortoleva, op.cit., p.107.

[34]Ibid., p.113. 

[35] Giovanni De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia,La Nuova Italia, Firenze, 1993, p.5.

[36]Giovanni De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia,La Nuova Italia, Firenze, 1993.

[37] Ibid.,p.217.

[38] Ibid., p.240.

[39] Ibid., p.251.

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