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Dalla città ideale alla smart city. Una riflessione sul ruolo degli archivi
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Domenica, 16 Marzo 2014

Dalla città ideale alla smart city. Una riflessione sul ruolo degli archivi

Simone Vettore
Sezione Studi

Abstract

Il saggio pone l'attenzione su una serie di criticità, proponendo suggestivi spunti di riflessione, attraverso un confronto parallelo tra gli archivi e la loro gestione nella città ideale del Rinascimento e quelli digitali nelle smart city di oggi.

The essay begins with a parallel comparison between the archives and their management in the ideal city of the Renaissance and the digital archives in smart city today. The study thus raises some critical issues through suggestive insights.

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Il dibattito sul concetto di città ideale nel Rinascimento: alcuni cenni

Giulio Carlo Argan, distinguendosi in questo dalla maggior parte dei colleghi storici dell’arte, era dell’avviso che il concetto di città ideale, così come definito nel corso del Rinascimento, avesse avuto modo di concretarsi pienamente solo con l’affermazione delle monarchie assolute; egli infatti riteneva che solo i re del XVIII secolo potessero disporre, diversamente dai signori e dai principi che li avevano preceduti un secolo e mezzo prima, delle risorse economiche e degli strumenti coercitivi (burocrazia ed eserciti) indispensabili per poter trasformare in realtà quelle che sovente erano semplici, per quanto geniali, idee sulla carta.

All’obiezione, quasi spontanea, che accanto alle numerose speculazioni rimaste fissate nelle pagine di un libro o nei progetti dei suoi ideatori1 vi fossero pure state concrete realizzazioni, Argan rispondeva che nella maggior parti dei casi si trattava di progetti “abortiti”: tanto quelle città pensate per testimoniare, accanto allo splendore politico-culturale del Rinascimento, la magnificenza dei suoi signori / fondatori (quali Sabbioneta o Pienza), quanto quelle investite di funzioni prettamente militari (è il caso di Eliopoli – Terra del Sole e di Palmanova), si dimostrarono alla prova dei fatti “città morte”, incapaci cioè di sopravvivere e crescere in seguito alla dipartita dei propri “fondatori” (rispettivamente Vespasiano Gonzaga, papa Pio II e Cosimo I de’ Medici nei casi ricordati), non tanto dal punto di vista urbanistico ma soprattutto sotto il profilo socio-economico2.

Ben diverso destino, argomenta ancora Argan, sarebbe invece arriso a quegli interventi urbanistici eseguiti, di norma su città preesistenti, per mano dei sovrani assoluti del XVIII secolo3: città come Parigi, ma anche Torino o La Coruña, videro sorgere, accanto ai vecchi quartieri medievali, spesso sventrati per far posto al “moderno”, nuovi spazi concepiti secondo criteri funzionali e razionali, destinati ad ospitare i funzionari provenienti dai ranghi della burocrazia inferiore e superiore4 così come dalla ricca borghesia.

Per quanto affascinantela posizione di Argan è decisamente minoritaria rispetto alla sterminata produzione storiografica sull’argomento, la quale in genere intende la città ideale «come artefatto architettonico capace di razionalizzare l’ambiente naturale in modo da rendere lo spazio edificato ideale nel realizzare al meglio quella serie di particolari funzioni per cui è stato progettato»5 e, nella fattispecie, quella del Rinascimento (che rappresenta, nell’immaginario di tutti noi, la Città Ideale per antonomasia) come esito della volontà di un Principe colto e raffinato che nelle geometrie e nelle prospettive degli edifici desidera vedere rispecchiato l’ordine, l’armonia e l’equilibrio che egli, con il suo governo, ha saputo infondere all’intero corpo civile.

In verità questa visione, che potremmo definire “positivista”, dimostra di essere parziale nel momento in cui dimentica di attribuire la debita importanza alle motivazioni di ordine “materiale” che indussero i vari signori che affollavano la Penisola a farsi fondatori di città: se nel caso di Palmanova e di Eliopoli la volontà, da parte rispettivamente del Senato della Serenissima e di Cosimo I de’ Medici, di proteggere i propri confini in Friuli e nella Romagna Fiorentina era palese, è opportuno ricordare come anche ad Urbino e Sabbioneta (ma anche, detto per inciso, l’addizione erculea a Ferrara e successivamente a Torino) le esigenze difensive e di consolidamento del proprio regno erano ben presenti ai rispettivi governanti, come dimostrato dalla costruzione e/o dal rifacimento delle cinte murarie cittadine facendo ricorso alle più moderne tecniche costruttive (architettura stellata, n.d.r.)6.

Appare in altri termini evidente che, a patto di non fermarsi ad un livello di analisi superficiale, le due correnti interpretative non siano poi così antitetiche come vorrebbero far credere i loro principali esponenti: in particolare, un fattore accomunante va individuato nelle modalità con le quali le città ideali vengono a realizzarsi, ovvero come un fenomeno calato dall’alto su cittadini poco o nulla consapevoli da parte di governanti che talora assumono le sembianze del principe illuminato (il termine, applicato al XV secolo, può apparire fuorviante ma è comunque indicativo) talaltra del tiranno.

Non a caso Eugenio Garin rilevava, in suo saggio oramai diventato un punto di partenza imprescindibile per chiunque voglia approfondire la propria conoscenza del periodo, come nel medesimo 1513 fossero in elaborazione sia “Il Principe” di Machiavelli sia “Il Cortegiano” di Castiglione, il primo raffigurante un sovrano tanto spregiudicato quanto assistito dalla fortuna, il secondo un ambiente di corte nel quale al contrario trionfano «leggiadria ed amore», ovvero in netto contrasto con le «inique corti»7 machiavelliane. Questa duplice “natura” finisce per influenzare anche il dibattito coevo sull’utopia e quello, correlato, relativo alla città ideale divenendone, paradossalmente, un tratto caratterizzante: «passata l’illusione, cara al primo umanesimo, di una possibile coincidenza delle due città, reale ed ideale, non per questo la realtà dell’una cessa di rinviare all’idealità dell’altra. Esse costituiscono i due poli nella cui tensione consiste per tanta parte il dramma del XVI secolo»8.

Ruolo degli archivi nella città ideale

Le due correnti interpretative, poc’anzi succintamente esposte, risultano di importanza primaria nel momento in cui si voglia tentare un’analisi (qui, data la sede, altrettanto veloce) sulla “natura” e sul ruolo svolto dagli archivi nello specifico contesto delle città ideali.

Infatti, indipendentemente da quale di esse si prediliga, non sfugge anche al più distratto degli osservatori come in entrambe gli archivi vi ricoprissero una tutt’altro che secondaria funzione: tanto nelle città ideali del Rinascimento partorite dalla volontà “solitaria” del signore (a prescindere ora dalla sua “bontà”) quanto in quelle del XVII e XVIII secolo in cui la sua opera, per avere successo, necessitò del determinante appoggio di burocrazie ed eserciti (poniamo il caso di Torino), questi istituti erano, seppur con alcune specificità che andremo ora ad evidenziare, ben presenti.

Di Vespasiano Gonzaga, la cui figura è indissolubilmente legata alla nascita di Sabbioneta9, è risaputa la passione per i libri (in particolare trattati di arte militare ed architettura)10, al punto che nel Palazzo Ducale vi era spazio per ben due biblioteche, la Libreria Grande e la Libreria Piccola; ci si è invece decisamente meno soffermati sul ruolo assunto, all’interno del medesimo palazzo, dalla cancelleria (evidentemente con annesso archivio in formazione).

Biblioteca e cancelleria, oltre all’evidente funzione pratica11, assumevano anche una importante valenza politica e simbolica: la presenza di una ricca e fornita biblioteca, nel momento in cui stimolava un vivace dibattito culturale ed attirava a corte dotti e personaggi illustri, assicurava prestigio al signore che di quella corte costituiva il fulcro; similmente l’emissione di documenti eleganti nelle forme e preziosi nei materiali, provvisti dei tradizionali segni del potere (sigilli, timbri, etc.), contribuiva a rafforzare la percezione, presso il popolo così come presso re e principi d’Europa, di un sovrano forte e saldamente al comando a dispetto della recentissima istituzione del ducato.

Che Vespasiano fosse consapevole dell’importanza di esercitare questa sorta di softpower ante litteram è comprovato dalla concomitante creazione di una zecca e di una tipografia nonché dall’analisi del luogo in cui fu edificato il Palazzo Ducale, in posizione centrale rispetto al nucleo abitato ed affacciato sulla piazza principale, e dei tratti architettonici che lo caratterizzano: elegante e “geometrico”, come i canoni dell’arte rinascimentale prescrivevano, ma nel contempo di dimensioni sproporzionate in raffronto al nucleo abitato ed alle effettive esigenze, giusto per ribadire l’importanza del luogo e di chi vi dimorava12.

Nei casi di Eliopoli e di Palmanova, centri che abbiamo già ricordato essere stati fondati in posizioni particolarmente strategiche per far fronte a specifiche esigenze difensive ed amministrative, la dimensione “politica” e simbolica non risulta così marcata come a Sabbioneta o ad Urbino (del resto non siamo di fronte a delle capitali); ciò non impedisce che si possano ugualmente fare interessanti osservazioni. Scendiamo dunque un po’ più nel dettaglio.

Eliopoli – Terra del Sole, oggi in provincia di Forlì, sorse per precisa volontà di Cosimo I de Medici nel 1564 in quella che all’epoca era la Romagna Toscana, vale a dire i possedimenti medicei al di là degli Appennini; oltre a rappresentare il baluardo difensivo dei confini settentrionali, la nuova città doveva assolvere a perlomeno altre due funzioni fondamentali, ossia fungere da granaio del granducato (reperendo cereali nella Pianura Padana ed ammassandoli in previsione delle frequenti carestie) e soprattutto amministrare la giustizia. Si trattava, quest’ultimo, di un ruolo particolarmente delicato in quanto niente come il rispetto delle leggi ed il regolare funzionamento del sistema giudiziario concorre a sancire la sovranità di un principe sui propri possedimenti; anche in questo caso l’urbanistica e le scelte architettoniche furono mirate. In particolare sulla centrale piazza d’Armi si affacciavano due edifici vitali al funzionamento della provincia: il palazzo dei Commissari, tanto austero ed imponente quanto elegante, ed il palazzo della Cancelleria. Il primo oltre ad essere (come si evince dal nome) la residenza del Commissario generale per la Romagna Toscana era pure il luogo in cui si esercitava la giustizia civile e criminale; il secondo era, al solito, il luogo in cui si redigevano gli atti pubblici, evidentemente percepiti anch’essi come essenziali strumenti di affermazione, in quelle terre di confine, del potere centrale. In conclusione ad Eliopoli si concentravano tutti i poteri (militare, civile e giudiziario), i quali si manifestavano, oltre che con i bastioni angolari, le mura ed i palazzi, anche attraverso la presenza di un corpo di funzionari e di burocrati; anch’essi, seppur in modo meno appariscente rispetto ai soldati, con la loro attività contribuivano a rendere effettiva la volontà del signore del quale essi erano rappresentanti13!

A Palmanova la funzione militare risalta in modo ancor più evidente: costruita a partire dal 1593 per difendere la Patria del Friuli da eventuali scorribande turche14, costituisce sotto molti aspetti lo stato dell’arte in fatto di architettura bastionata; le esigenze difensive sono talmente preminenti che, pur di non dare riferimenti per il tiro d’artiglieria ad un eventuale nemico assediante, tutti gli edifici furono costruiti più bassi della (doppia) cinta muraria. Ne consegue che a Palmanova ci troviamo dinnanzi ad una “simbologia del Potere” assai diversa rispetto a quella rilevata ad Urbino, a Sabbioneta oppure ancora ad Eliopoli - Terra del Sole: ad esempio il palazzo del Provveditore Generale, massima magistratura cittadina, pur essendo eretto sulla centrale piazza d’Armi non emana quell’aura di austerità e di solennità che tuttora contraddistingue, ad Eliopoli, il palazzo dei Commissari15. Secondo alcuni autori, semplicemente, è la stessa planimetria radiale a trasmettere il senso del potere; per Federico Morisco

Non sono soltanto la perfezione geometrica e la scienza dell’impianto difensivo a rendere questa città una manifestazione dell’ideale rinascimentale, ma lo è soprattutto l’intero impianto progettuale umanista che vede nell’opera razionalizzatrice delle arti e dell’architettura, uno strumento valido per il progresso della società.

Questo concetto è evidente nell’analisi della trama disegnata dalle vie e dagli edifici, dove l’organizzazione geometrica definisce le aree edificate secondo una precisa gerarchia, un ordine che mettendo al centro di tutto il simbolo del potere assolve al duplice bisogno di offrire un saldo punto di riferimento per un popolo così diviso e nel contempo forniva un efficace strumento di coesione sociale16

Di tutt’altro avviso Claudio Stroppa, il quale (rafforzando la sua tesi citando le relazioni dei Provveditori generali che lamentavano la scarsa qualità della vita e la languente economia) sottolinea come, non esistendo una netta distinzione tra civili e militari, il modello sociale di riferimento sia stato, fino alla caduta del 1797, quello della guarnigione e come non vi sia traccia «della fantasia economica, né della cultura tipica di Venezia»17.

Riecheggia, nelle parole di Stroppa, la tesi “alternativa” di Argan con la quale abbiamo aperto questo breve saggio: ad una città non è sufficiente, per divenire “ideale”, l’essere costruita secondo criteri architettonici “moderni”; essa abbisogna, al contrario, di un corpo sociale che la renda viva!

Le affinità però finiscono qui: mentre per il primo autore questo processo di “vivificazione” pare provenire dal basso, per il secondo decisiva è l’azione “dall’alto” del monarca assoluto, l’unico che può dispiegare una forza tale da plasmare, oltre che gli edifici, pure la società.

Il caso di Torino indicato da Argan rappresenta, per quanto tardo, veramente un ottimo case study: diventata capitale del ducato di Savoia nel 1559 a discapito di Chambery, iniziò allora la sua crescita che la portò a svilupparsi al di fuori del quadrilatero romano (la “città nuova”) e che rese necessaria la realizzazione di una più amplia cinta muraria la quale, per inciso, si rivelò provvidenziale in occasione dell’assedio del 1706. Scampato il pericolo, i primi decenni del XVIII secolo furono decisivi per la definizione del successivo assetto urbanistico cittadino: tra le tante costruzioni giova ricordare, a testimonianza della maturità raggiunta dallo Stato, dell’importanza assunta dalla burocrazia e soprattutto della consapevolezza da parte dei regnanti di Casa Savoia di quali fossero gli strumenti indispensabili per esercitare il potere dal punto di vista pratico e per legittimarlo sotto quello simbolico, come a Filippo Juvarra, uno dei principali architetti del barocco, fu affidato l’incarico di realizzare (oltre alla basilica di Superga, alla Palazzina di caccia di Stupinigi ed al rifacimento della facciata di Palazzo Madama) la sede dell’archivio di Corte (1731), storicamente uno dei primi casi di sede d’archivio costruita ad hoc18.

Dalla città ideale del Rinascimento alla Smart City

L’analisi sin qui svolta lungo l’asse “città ideale – (simbologia del) Potere – archivi” non è fine a sé stessa bensì funzionale, nel momento in cui essa offre una chiave di lettura “alternativa” alle numerose altre possibili, a valutare meglio gli attuali dibattiti in merito alla decantata smart city.

Quest’ultima infatti, assommando in sé specifiche caratteristiche tratte dai vari modelli di città ideale elaborati dal Rinascimento in avanti, ne rappresenta a tutti gli effetti l’ultimo - ancorché non definitivo - stadio. Ad esempio dalla definizione datane dall’Agenda digitale per l’Europa elaborata dalla Commissione Europea, ovvero

a place where the traditional networks and services are made more efficient with the use of digital and telecommunication technologies, for the benefit of its inhabitants and businesses. With this vision in mind, the European Union is investing in ICT research and innovation and developing policies to improve the quality of life of citizens and make cities more sustainable19

risaltano, oltre alla fiducia riposta nelle tecnologie informatiche (aspetto tipico della città funzionalista e tecnocratica del XIX secolo), pure l’attenzione per gli aspetti produttivi ed economici (come già si tentò di fare con i villaggi operai; vedi Crespi d’Adda, n.d.r.) così come quelli attinenti alla qualità della vita del cittadino, soprattutto in termini di risoluzione dei grandi problemi, quali il traffico e l’inquinamento, causati dall’iperurbanizzazione (e qui il pensiero va ai numerosi progetti di “città giardino” realizzati sulla scia delle idee di Ebenezer Howard e della sua “verde” Letchworth Garden City).

Assodato dunque che l’ambizione di realizzare la “città intelligente”, così tanto sbandierata da politici, architetti e guru di varia natura, riprende spesso con scarsa originalità l’obiettivo di costruire la città ideale perseguito con esiti sostanzialmente fallimentari negli ultimi cinque secoli, vanno a maggior ragione evidenziate alcune palesi contraddizioni insite nel concetto di smart city.

Un primo aspetto ha addirittura del paradossale: benché si parli in lungo ed in largo di city, l’assetto urbanistico complessivo tende spesso e volentieri a scivolare in secondo piano, essendo gran parte dell’attenzione rivolta a creare singoli edifici intelligenti (costruiti in bioedilizia, caratterizzati dall’alta efficienza energetica, forniti di elettrodomestici connessi, etc.) od al massimo quartieri-isola, laddove per risolvere gli odierni problemi servirebbe una politica di governo del territorio di ben più ampio respiro. Il risultato finale è che, piuttosto che a città, ci troviamo di fronte ad un assembramento di edifici, pur all’avanguardia, sparsi orizzontalmente sul territorio senza un preciso progetto e soprattutto senza un centro definito (Los Angeles, al riguardo, costituisce tra le città contemporanee un buon esempio) e che tendono essi stessi a dissolversi in un’(informe) entità superiore20.

La conseguenza più importante di questo assetto orizzontale è l’assenza di un centro, che nella tradizione europea viene identificato in una piazza fisica (e non virtuale!), concepita come luogo pubblico di incontro / scambio; evidentemente ciò pone serie incognite in merito alla possibilità che il corpo sociale che abita una simile city possa raggiungere un’adeguata coesione, elemento quest’ultimo che abbiamo visto essere, specialmente in Stroppa, decisivo per far sì che una città possa essere ritenuta tale.

Paradossalmente la città ideale / intelligente del XXI secolo rischia di configurarsi in modo pressoché opposto rispetto alle premesse dalle quali erano partiti i pensatori del Rinascimento.

Gli archivi e la Smart City

Tenendo ben presenti le criticità poc’anzi evidenziate cerchiamo di ipotizzare come potrebbero venire a riconfigurarsi, nel prossimo futuro, i rapporti tra smart city, Potere ed archivi digitali da una parte e quelli, non meno importanti, tra smart city, società contemporanea ed archivi digitali dall’altra.

Per quanto riguarda la prima “triade” la sensazione, abbastanza netta, è che assisteremo a profondi cambiamenti: infatti mentre nei secoli passati (peraltro in parallelo al processo di “maturazione” delle prassi e della teoria archivistica, n.d.r.) gli archivi venivano ospitati in quegli stessi edifici, centralissimi, sedi delle varie magistrature e delle massime cariche dello Stato, nei prossimi anni verosimilmente si affermerà in via definitiva il fenomeno inverso, ovvero la localizzazione degli stessi in posizioni periferiche o, ancor più probabilmente, rurali.

Infatti così come negli ultimi annile necessità, essenzialmente di tipo logistico ed organizzativo, derivanti dalla realizzazione di grandi archivi di concentrazione hanno imposto di optare per location ben servite dalla rete viaria, con spazi adeguati e tali da rendere agevole la “movimentazione” del materiale e nel contempo sostenibili le varie voci di costo (affitto / acquisto dei locali, manutenzione, etc.)21, analogamente oggigiorno la selezione dei luoghi in cui impiantare i nuovi archivi digitali, essendo dettata da criteri quali l’accesso garantito ed a prezzo contenuto di energia elettrica, la distanza per motivi di sicurezza dalle acque di fiumi e mari, etc., porta, come si accennava, a scartare non solo gran parte dei centri cittadini ma pure le zone periferiche!

Posti volontariamente lontano dalla vista degli e-citizen e privati della “maestosità” e del prestigio della sede (dato che nel caso degli archivi digitali non si tratta d’altro che di enormi warehouse22), viene evidentemente meno, negli archivi contemporanei pure qualsiasi carica simbolica.

Ciò, si badi, non significa che stiamo assistendo ed assisteremo all’esaurimento del legame con il Potere, anzi! Semplicemente, in linea con passaggio di gran parte di esso dalle mani Stato a quelle delle Internet company transnazionali proprietarie dei succitati data center, cambieranno le sue modalità di estrinsecazione.

Infatti i data center svolgono un ruolo fondamentale nel dar concretezza a quello che, in apparenza, è un archivio “liquido” (o, se si preferisce, “polverizzato”), ovvero composto da una miriade di dati e documenti sparsi e prodotti dai molteplici dispositivi, elettrodomestici, sensori, etc. oramai connessi alla Rete e che stanno alla base di quello che è definito Internet delle Cose23.

Considerata la natura spesso riservata delle informazioni che si possono ricavare da tali dati e documenti, è evidente che i data center divengono dei formidabili strumenti di controllo, al punto che espressioni in passato talvolta abusate quale “Grande Fratello”, “occhio elettronico” oppure ancora “società sorvegliata”, paiono oggigiorno tutt’altro che fuori luogo.

La riflessione poc’anzi effettuata è intimamente connessa alla seconda “triade”: l’idea di trovarci a vivere in una società (ed in città) apparentemente aperte e democratiche ma in realtà rigidamente controllate24 e nelle quali nemmeno le piazze sono più previste, riporta in primo piano l’annosa questione, presente in nuce in autori quali Argan o Stroppa, se una città per essere veramente ideale (= intelligente) debba essere imposta dall’alto o se, al contrario, l’input possa provenire dal basso da parte dei cittadini (= smart citizen)25.

Probabilmente, al di là dei rigidi schematismi che poco o nulla aiutano a comprendere le cose, la risposta sta, in questa come in altre occasioni, nel mezzo: così come in assenza di una forma di direzione e raccordo dall’alto quelle spinte che possono scaturire spontaneamente dal basso sono destinate all’insuccesso, similmente a nessuna iniziativa imposta dall’alto può arridere il successo senza il contributo attivo di cittadini smart.

Detto questo, occorre anche prendere atto che l’apporto umano alla produzione dei dati e dei documenti che confluiranno in questi archivi digitali è destinata a farsi marginale man mano che le macchine, ben più numerose, prenderanno a dialogare ed a scambiarsi informazioni in maniera autonoma tra di loro: solo allora assisteremo alla definitiva esplosione (in termini quantitativi) di dati e documenti (big data) i quali, nella visione ottimistica potranno essere processati ed analizzati (big analytics) al fine di migliorare le città (ed in ultima analisi la società tout court) circa traffico, inquinamento, etc. oppure, in quella pessimistica, essere usati per controllarla in modo tanto invisibile quanto invasivo.

Ma quel che pare incontrovertibile, al di là della dicotomia buono / cattivo, è il venir meno, man mano che diminuisce la “componente” umana, della natura dell’archivio come fenomeno “sociale” spontaneo26.

Conclusioni

Il parallelo condotto in questa pagine tra archivi nella città ideale del Rinascimento e nella smart city, pur rappresentando un’interessante chiave interpretativa, può sembrare una forzatura.

Si è comunque deciso di correre il rischio nella convinzione che, perlomeno in quest’occasione, il fine giustifichi i mezzi: molto meglio rendersi “colpevoli” di un paragone decontestualizzato piuttosto che rinunciare ad indagare sulla natura e sul ruolo degli archivi digitali nella società contemporanea, tacendone eventuali distorsioni.

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1 Come si vedrà a breve il dibattito su società utopica e città ideale, a partire dalla Repubblica di Platone e fino alle 54 città presenti sull’isola di Utopia immaginata da Tommaso Moro ed alla Sforzinda concepita dal Filarete, è legato a doppio filo.

2 G. C. ARGAN, The Renaissance city, New York, George Braziller, 1970, p. 107.

3 L’Urbino modellata da Guido da Montefeltro rappresenterebbe, proprio perché capace di coniugare l’antico ed il moderno, l’unica splendida eccezione nel quadro delle realizzazioni del Rinascimento italiano.

4 Si pensi, in Francia, agli appartenenti alla noblesse de robe.

5 Vedi F. MORISCO, Variazione dei principi architettonici in Italia: l’ideale artistico del Cinquecento, quello funzionale del Novecento, quello informatizzato del 2000, in Le Corti e la Città Ideale, Atti del Convegno, Urbino, 15-16-17 novembre 2002, a c. di G. MORISCO - A. CALANCHI, Fasano, Schena, 2004, pp. 183-205 (183).

6 Per Federico da Montefeltro dimostrare la propria perizia nel “murare” (edifici civili o militari poco importa) costituiva un fondamentale tassello nel processo di legittimazione del proprio potere.

7 Vedi E. GARIN, La cultura del Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 2012, pp. 85-6.

8 IBID., p. 94.

9 Sabbioneta fu costruita ex novo tra il 1554 ed il 1591 in luogo del vecchio abitato che venne completamente demolito per lasciar posto alla nuova città; divenne la capitale dell’omonimo ducato (1577) fondato da Vespasiano I Gonzaga Colonna, appartenente ad un ramo secondario dei Gonzaga di Mantova.

10 La Vita di Vespasiano di Ireneo Affò, uscita a Parma nel 1780 dai torchi di Filippo Carmignani, ci ricorda come i carteggi brulichino di riferimenti ai libri e come Vespasiano, al fine di arricchire la sua raccolta, se ne facesse spedire da ogni dove. Il volume è consultabile in full text su Internet Archive, www.archive.org, al seguente indirizzo: http://archive.org/details/vitadivespasiano00affi (27/01/2014).

11 Rispettivamente soddisfare la genuina sete di conoscenza di Vespasiano sull’ars militaris e sulle più moderne tecniche difensive (argomenti intimamente correlati alla sua “attività” di condottiero militare e di governante) ed assicurare il regolare funzionamento della macchina statale.

12 Vespasiano aveva perfettamente assimilato la lezione di Urbino, dove Federico da Montefeltro aveva fatto erigere un edificio altrettanto grandioso (e parimenti sovradimensionato rispetto al centro abitato); per quanto riguarda nello specifico la cancelleria, il modello di riferimento era sicuramente quella fiorentina - Repubblicana e medicea - nella quale prestarono servizio figure chiave dell’Umanesimo e del Rinascimento (Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Niccolò Machiavelli tra gli altri). Al riguardo è sempre straordinario constatare come, a partire da studi di carattere linguistico e letterario, si pervenne ad esiti attinenti ad ambiti completamente diversi e talvolta persino contraddittori; ad es. il recupero del latino favorì la riscoperta del passato dando il là a feconde riflessioni di natura storico-politica sulla polis greca e sulla Roma repubblicana, le cui istituzioni furono studiate finendo per fornire altrettanti modelli “ideali” per i governi cittadini italiani. Il passaggio dal XV al XVI secolo, caratterizzato dalle ripetute discese degli eserciti francesi in Italia, portò al ribaltamento di molti regimi (a Firenze si verificò la seconda cacciata dei Medici) ed alla messa in crisi del modello di città-stato, militarmente troppo vulnerabile al cospetto di quello statuale ben rappresentato da Spagna e Francia. La risposta risiedette, tra le altre cose, proprio nell’erezione di cinte murarie più idonee alla “guerra moderna” (aspetto già evidenziato nelle pagine precedenti) così come nell’avvio di un processo di “accentramento del potere” nella mani del signore che si avviava a divenire principe. Per restare a Firenze i Medici, una volta rientrati in città, ritennero opportuno, per cementare il proprio potere, ridimensionare l’influenza dei cancellieri ed in generale della burocrazia “di Palazzo” (legata all’esperimento repubblicano) favorendo la propria «cancelleria personale medicea». Per i rapporti tra storia, storiografia e pensiero politico vedi F. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 2012 mentre per alcuni cenni sull’evoluzione della cancelleria fiorentina si rimanda a V. ARRIGHI – F. KLEIN, Aspetti della cancelleria fiorentina tra Quattrocento e Cinquecento, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini, Firenze, 4-5 dicembre 1992 (Vol. 1), a cura di C. LAMIONI, Roma, Ministero Beni e Attività culturali, 1994, pp. 148-64. Il contributo è reperibile anche online sul sito dell’Archivio di Stato di Firenze, www.archiviodistato.firenze.it,all’URL http://www.archiviodistato.firenze.it/nuovosito/fileadmin/template/allegati_media/libri/istituzioni_1/Ist1_ArrighiKlein.pdf (27/01/2014).

13 E così come le mura e l’abitato sono arrivate sino a noi, altrettanto è avvenuto con le “carte”; vedi A. M. DAL LAURO (a cura di), Un archivio toscano in Romagna: inventario dell'Archivio storico preunitario di Castrocaro - Terra del Sole, 1473-1859, Bologna, Analisi, 1989. La curatrice ricorda come per la preservazione dell’archivio sia stato importante, nel corso del XVIII secolo, l’intervento di Pompeo Neri, vale a dire in un frangente storico in cui l’attenzione del nuovo casato regnante degli asburgo-lorena era andato scemando per questi possedimenti periferici indirizzandosi lungo altre direttrici di sviluppo (nello specifico quello dei commerci facenti capo al porto di Livorno).

14 Già nel 1499 l’esercito ottomano, che nel 1529 avrebbe assediato Vienna, vi aveva effettuato incursioni; la nuova ed inesorabile avanzata nei Balcani (la spinta propulsiva, per quanto lenta, si sarebbe esaurita solo con il secondo assedio di Vienna del 1683, data dal quale iniziò un lento riflusso) doveva evidentemente allarmare il Senato della Serenissima.

15 Va anche sottolineato che Palmanova non nasce per la volontà di un principe né, in generale, di un singolo individuo (per quanto nel pool di cinque ingegneri / urbanisti che vi lavorarono spiccasse indubbiamente la figura di Giulio Savorgnan).

16 Vedi MORISCO, op. cit., p. 193.

17 Vedi C. STROPPA, Le città del sogno. Idee per una politica culturale, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 112-13.

18 Per approfondimenti vedi M. CARASSI, Il palazzo juvarriano dell’Archivio di Corte: progettazione e lavori, in Studi Juvarriani. Atti del convegno dell’Accademia delle Scienze, Torino, 1979 (Roma, Edizioni dell’Elefante, 1985), pp. 251-76.

20 Federico Morisco, riprendendo Nicholas Negroponte e William J. Mitchell, giunge a prevedere che non sarà nemmeno necessario andare ad operare sulla “materia urbana” dal momento che «il movimento delle cose e delle informazioni attraverso le reti informatiche rende[rà] obsoleta la necessità di adeguare morfologicamente l’agglomerato urbano per assolvere alle nuove esigenze». MORISCO, op. cit., p. 205.

21 Requisiti evidentemente difficili da ritrovare nei centri storici cittadini.

22 Il modello realizzativo di riferimento, chiaramente, è quello reso praticamente standard da parte di Google di data center as a warehouse (ovvero magazzino, deposito). Chi vi scrive è infatti dell’opinione che gli archivi digitali tendano sempre di più a coincidere con i data center che sono alla base di quel paradigma tecnologico oramai dominante denominato cloud computing. Relativamente a quest’ultimo è interessante ricordare come in ambito informatico si distingua tra fog computing e cloud computing: l’infrastruttura che supporta il primo sarebbe di dimensioni intermedie oltre che collocata geograficamente più vicino rispetto al luogo dal quale provengono dati e documenti memorizzati e questo al fine di garantire una risposta più rapida; la seconda invece è di dimensioni maggiori, geograficamente posta anche a migliaia di kilometri di distanza, donde tempi di latenza superiori. Riallacciandoci al discorso sopra svolto, i data center destinati ad implementare applicazioni tipiche della fog potrebbero avere una collocazione fisica urbana mentre quelli del cloud sorgerebbero in aree decisamente più remote.

23 O, con acronimo inglese, IoT (Internet of Things).

24 Non dobbiamo pensare solo ai vari sistemi di videosorveglianza installati nelle città in prossimità di banche, distributori, supermercati, semafori, etc. ma anche alle funzioni di georeferenziazione presenti in dispositivi quali tablet e smartphone (senza poi dimenticare la nuova ondata di device indossabili in procinto di invadere i mercati e che sanciranno l’exploit del wearable computing).

25 Tale dicotomia si ricava anche dalla lettura del numero di dicembre 2013 (n. 377) della rivista di informatica ZeroUno, dedicato per l’appunto al tema della smart city.

 

26 O, per riprendere la “Dichiarazione universale sugli archivi”, «come riflesso dell’evoluzione delle società»; ICA, Dichiarazione universale sugli archivi, http://www.ica.org/download.php?id=2433 (27/02/2014).

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