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Riso amaro, di Giuseppe De Santis
Venerdì, 28 Febbraio 2014

Riso amaro, di Giuseppe De Santis

Silvia Pagni
Sezione Studi

In calce il pdf del saggio, con numerose immagini, tratte da alcune sequenze del film, la bibliografia e la webgrafia finali.

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Abstract

Il saggio ricostruisce la fase ideativa del film “Riso amaro” (1949) di Giuseppe De Santis, attraverso l’analisi dei documenti dell’archivio privato del regista, custodito presso la Biblioteca Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Analizzando il press book della Lux, gli appunti di De Santis, emerge la collaborazione con Carlo Lizzani e Gianni Puccini nella realizzazione della sceneggiatura, che scaturì da un attento lavoro di analisi del mondo contadino. I documenti d’archivio testimoniano la volontà di realizzare un film dal forte messaggio sociale, in grado di raccontare lo stato di sfruttamento del bracciantato agricolo femminile.

La riflessione finale sulla rassegna stampa dell’epoca mette in luce il grande successo di pubblico, ma anche le accuse feroci che il capolavoro di De Santis subì. Il regista raffigurò la donna contadina del dopoguerra come soggetto sociale protagonista all’interno del processo di liberazione sessuale e di dilagante americanizzazione della società italiana. Molti esponenti della sinistra italiana non condivisero la raffigurazione della debolezza e problematicità del mondo contadino, mondo che la propaganda ufficiale del partito comunista voleva vedere e rappresentare come “sano” e solidale. 

This essay decribes the conception of the film “Riso amaro” (1949 ), a movie directed by Giuseppe De Santis , through  documents found in his private archives kept at the Biblioteca Chiarini of the “Experimental Center of Cinematography” in Rome .

A careful analisys of the press book of Lux Film, the various notes of De Santis and of the cooperation  with Charles Lizzani and Gianni Puccini, shows that the script was based on a careful and detailed study of the Italian rural world in the immediate post war period. The archive documents related to this movie reveal a desire by the director to make a film with a strong social message, describing the exploitation of the agricultural female workers.

The general comments of the contemporary press highlight a great public success but they also indicate the strong criticism and accusations that this masterpiece underwent. De Santis presented a portrait of the post-war peasant woman as a social figure going through the process of sexual liberation and  the increasing  Americanization of Italian society. Many members of the Italian Left did not appreciate the representation of such weakness and complexity of the rural world ,a world that the official propaganda of the Communist Party wanted to present as “healthy” and united.

                                                                                                                                           *****

 Genesi del film[1] 

Il soggetto di Riso amaro fu scritto nell’ottobre del 1947, il trattamento durante l’inverno 1947-1948 e la sceneggiatura completata nell’aprile del 1948. Oltre a Giuseppe De Santis[2], alla sceneggiatura parteciparono  Corrado Alvaro[3], Carlo Lizzani[4], Carlo Musso[5], Ivo Perilli[6] e Gianni Puccini[7]; inoltre diedero il loro contributo saltuario anche Steno[8], Mario Monicelli[9] e Federico Fellini[10]. In realtà  Fellini fu solo consultato, in quanto la lettura della sceneggiatura lo lasciò molto perplesso[11]Questo lavoro collettivo per la sceneggiatura era sollecitato dalla mentalità produttiva di un personaggio quale Dino De Laurentis[12] che aveva ottenuto dalla Lux l’appalto per la produzione del film e desiderava l’avvicendamento di un folto gruppo di sceneggiatori.

De Santis, dopo il successo di Caccia tragica (1947)a Cannes e a Venezia, aveva avuto carta bianca dalla Lux di Gualino per preparare un nuovo film. Assieme a Carlo Lizzani, il regista preparò un viaggio verso il Piemonte, zona di risaie, per analizzare l’ambiente che doveva fare da sfondo al film. [13]

Sembra che fosse lo sceneggiatore Libero Solaroli a suggerire a De Santis di realizzare un film sulle mondine. La genesi del film è narrata dallo stesso regista in un’intervista del 1981. De Santis, che nel ventennio fascista era stato un brillante critico cinematografico di “Cinema”, nel dopoguerra si era impegnato per tradurre in prassi le idee sostenute in precedenza.

De Santis era cresciuto in Ciociaria e nella sua infanzia aveva avuto modo di vedere numerose donne che lavoravano nei campi e nelle vigne, sotto il sole cocente e con la schiena curva; donne che sopportavano tutto il giorno non solo la fatica del lavoro, ma anche ordini e sopraffazioni provenienti da usurpatori-padroni. Le stesse scene del Mezzogiorno il regista trentenne le aveva viste nelle risaie del vercellese, da lui visitate. Suo padre Oreste, geometra della Ciociaria, era stato impegnato nell’attività di ricostruire con delle mappe gli antichi confini dei terreni, appezzamenti che erano stati usurpati da latifondisti meridionali, riconquistandoli allo Stato e ai comuni, e ripristinando usi civici, benefici e costumanze d’antica data, a favore dei diseredati[14].

Una notte, nel maggio del 1947, De Santis, di ritorno da Parigi dove era stato invitato a godersi il successo di pubblico e di critica per Caccia tragica (1947), si trovava nella stazione di Milano. Sui binari della stazione fu attirato da un esercito di donne che riempivano d’acqua fiaschi e borracce e che si sistemavano su due lunghi treni per avviarsi alle risaie piemontesi e lombarde. De Santis perse il treno per Roma ed, emozionato ed incuriosito, si fermò a parlare con queste ragazze. In questo preciso istante si concretizzò l’idea di fare un film sulle mondine; l’aver assistito allo smistamento delle mondine gli aveva ricordato la proposta di Solaroli e fatto visualizzare la possibilità di realizzare un film dal chiaro messaggio sociale, una storia animata dall’intento di raccontare lo stato di abbandono e di sfruttamento di un bracciantato agricolo femminile che al Nord era del tutto simile a quello presente nel Meridione[15].

«La risaia come territorio emblematico di una condizione di lavoro tra le più miserabili: ecco cos’era nella sua più autentica sostanza quel film per chi onestamente sapeva e voleva leggervi in profondità, e non si arrestava o veniva costretto ad arrestarsi alla comoda accusa di fumettismo. Io vi raccontavo storie di mondariso, ma sapevo di raccontare allo stesso tempo anche quelle di tante  migliaia di raccoglitrici di ulive, di gelsomini, di mietitrici, di coltivatrici di tabacco, o di chi, già vecchia o ancora adolescente, trasportava dalle cave su per le montagne massi di pietra sulla testa, dall’alba al tramonto, senza sosta, per quattro soldi di pane».[16] 

Questo interesse di De Santis per il mondo contadino deve essere collocato pienamente all’interno dei problemi politici dell’epoca. Nel Mezzogiorno, di fronte alla depressione economica e alla secolare arretratezza culturale, i contadini avevano reagito occupando spontaneamente le terre; tale movimento collettivo aveva poi dato vita ad una protesta maggiormente organizzata che si era svolta in due fasi nel 1944-47 e nel 1949-1950.  Nel 1948 le sinistre erano passate all’opposizione e la Democrazia Cristiana, uscita vincitrice dal confronto elettorale, per evitare l’acuirsi delle tensioni sociali, aveva approntato una riforma agraria incentrata sull’espropriazione dei latifondi e sulla distribuzione  delle terre ai braccianti agricoli. La riforma non si risolse, però, nel vero cambiamento sperato, disattendendo le aspettative contadine. Si optò per un programma di estensione della piccola proprietà contadina, tipica della tradizione conservatrice cattolica, allo scopo di arrestare la cooperazione sperimentata durante l’occupazione delle terre.

In questo contesto, maturava in De Santis l’idea di realizzare un film sulla dura vita delle mondine con l’intento di captare il mutamento di un mondo secolare come quello contadino in quello specifico momento storico. In Riso amaro si guardava con nuova sensibilità al rapporto dialettico individuo-massa e all’emergere dell’individualismo come cardine dei nuovi rapporti sociali[17].

De Santis, con Carlo Lizzani e Gianni Puccini, si dedicò a sfogliare giornali, visitare luoghi ed intervistare persone per avere una chiara ricostruzione di quella che poteva essere la vita nelle risaie. A Torino furono consultati Cesare Pavese e Davide Lajolo che, come direttore de “l’Unità”, mise a disposizione per l’inchiesta un redattore di terza pagina, Raf Vallone, che doveva accompagnare il team di sceneggiatori alla scoperta delle risaie e a cui poi sarebbe stata affidata la parte del sergente di Riso amaro.[18] Fra l’altro, De Santis, Puccini e Lizzani presenziarono a un congresso di mondine in cui si discutevano problemi sindacali e sociali, proprio per mettere a fuoco l’ambiente che si doveva rappresentare. Il regista fu colpito dall’organizzazione militare della vita delle mondine e questo gli suggerirà l’inquadratura delle contadine che arrivano alla cascina marciando in fila indiana come un esercito[19].

Nel press book della Lux (Lux film: ultime notizie:vi presentiamo il film Riso amaro, 1949)[20] vengono evocati con toni epici i giorni delle riprese. La troupe per settantacinque giorni aveva dovuto affrontare piogge, scioperi, incendi; tutti alla fine erano apparsi sfiniti dalla fatica, dal sudore, dal caldo e dalla necessità di girare perennemente in stivaloni di gomma. L’esperienza dei tecnici, degli attori, delle comparse veniva descritta così: 

«Vita di pionieri e di colonizzatori, per chi non c’era abituato, vita che, per un verso, ricordava quella dei cenobiti, per un altro verso quella dei forzati… Vita che se per molti ha rappresentato l’imprevisto, la fuga, l’evasione dai consueti scenari cittadini, ha messo a dura prova i nervi di ciascuno sia durante le ore di lavoro e i giorni di inerzia, quando a tutti sembrava di non poter più sopportare l’aspro assalto delle zanzare.»[21] 

Durante le riprese, giunse dall’America il fotografo Robert Capa per realizzare un reportage per la rivista “Life” su come veniva girato il film. Il fotografo rimase stupito di fronte al dolly di legno, realizzato appositamente per girare sugli argini delle risaie che non avrebbero sostenuto il peso di macchinari più complessi[22].

Furono scritti alcuni soggetti[23] per giungere poi a un trattamento di circa settanta ottanta pagine, che nell’intento degli autori doveva essere un grande racconto popolare[24]. All’affiatato terzetto, composto da De Santis, Lizzani e Puccini, la Lux e De Laurentis avevano affiancato uno sceneggiatore come Ivo Perilli che proveniva da un’altra formazione culturale, ma si caratterizzava per l’impegno civile e per l’opposizione al regime fascista. Le varie  personalità che partecipavano al film davano contributi diversi, ma nella creazione del romanzo popolare era condivisa l’idea di dare spazio alle masse femminili come vere protagoniste della storia. Quando si passò dal trattamento alla sceneggiatura, De Santis fece una quinta candidatura, ossia quella di Corrado Alvaro, visto che lo scrittore, anche se calabrese, era un profondo conoscitore ed interprete della vita contadina. Prima ancora dell’ingresso di Corrado Alvaro nel gruppo di lavoro, furono eliminati quegli schemi che si configuravano come scontro frontale fra mondine e padroni perché vi potevano essere difficoltà nel finanziare un film che rappresentasse uno scontro di classe così acceso.[25]

Come si evince dalla ricostruzione effettuata da Carlo Lizzani, certe rinunce generavano un clima di frustrazione e di interrogativi in merito al fatto se il cinema italiano potesse farsi portavoce di una rottura radicale col potere. La sceneggiatura fu presentata alla Lux proprio mentre si preparavano le elezioni del 1948 e in quello specifico momento politico le masse contadine, da alleate della classe operaia, sembravano divenire le vere protagoniste della lotta politica; come ricorda Lizzani:

 

«Ad elezioni avvenute, la sceneggiatura di Riso amaro restò a dormire per due mesi. Malgrado la nostra abilità nel costruire un racconto accattivante e spettacolare, Riso amaro era già un film troppo “rosso”, un film da non fare più. Soltanto una serie di coincidenze fecero sì che il film fosse poi girato».[26]

 

Riso amaro era un film dalla forte valenza militante per la rappresentazione che dava di certi momenti rituali del vivere sociale; nella raffigurazione di certi aspetti della vita contadina (le scene delle mondine che assieme lavorano, mangiano, dormono e si lavano nei ruscelli) emergeva un moto continuo e conflittuale dall’individuale al sociale.

Allo scrittore Corrado Alvaro fu affidato il compito specifico di rivedere tutti i dialoghi e di scrivere gli stornelli dei canti delle contadine per enfatizzare i momenti di ritualità imperniati  dal profondo sapore pagano e le  conflittualità fra le mondine.

Come lingua fu scelto il dialetto piemontese nel tentativo di restituire fedelmente la cultura contadina e tale scelta fu effettuata mentre era in corso il dibattito  di Elio Vittorini sulla lingua.[27]

De Santis lavorò in maniera scrupolosa  alla sceneggiatura, animato dall’intento di realizzare le immagini già sulla carta, e certi piani sequenza a sorpresa, quali per esempio il movimento iniziale di gru, e il primissimo piano dello speaker radiofonico ad inizio del film, erano già stati predisposti dal regista per visualizzare al meglio il suo lavoro.

Nonostante l’impianto solido della sceneggiatura, nel momento in cui si passò alla trasposizione cinematografica, emersero alcune variazioni significative. Innanzitutto l’equilibrio fra le due coppie di personaggi venne sbilanciato a favore del personaggio di Silvana. Il bel volto e il corpo sinuoso della Mangano arricchirono il personaggio di valenze simboliche che nella sceneggiatura non erano presenti. La Mangano aveva un bel fisico, che valorizzava la sua sensualità soprattutto nei movimenti, ecco perché De Santis scelse spesso di inquadrarla con piani sequenza mentre ballava il boogie woogie.

 

«La presenza di un’unità fisico-semantica come quella della Mangano in Riso amaro è una proposta narrativa. Suggerisce un rapporto natura-corpo umano che in sceneggiatura non c’era , o era appena intuito. Una proposta per la quale la natura è vista come un grande contenitore non solo di acque, riso, erbe e cielo o alberi, ma anche di esseri umani, di corpi. E un corpo è, a sua volta, offerto all’osservazione come prodigio di natura, un bell’animale o un bell’albero».[28] 

Durante le riprese ci furono momenti di tensione fra De Santis e l’attrice americana Doris Dowling, stella del cinema americano, che si aspettava di essere la vera protagonista della storia.

In un’intervista del 1981, De Santis raccontava di essere stato ossessionato dal volto dell’attrice che avrebbe dovuto interpretare il ruolo della giovane protagonista. Il regista sottopose a provini centinaia di ragazze senza però trovare l’immagine di donna che aveva costruito nella sua mente. Un giorno, negli stabilimenti della Lux, si presentò una ragazza siciliana, Silvana Mangano, e fu scartata perché il suo trucco vistoso contrastava con l’immagine della contadina dolce e ingenua che stava cercando.[29] Una sera, mentre proseguivano senza successo i provini, De Santis incontrò Silvana Mangano struccata e bagnata dalla pioggia, con i capelli sciolti color miele e fu colpito da i suoi occhi color nocciola e dalla sua dolcezza. De Santis aveva finalmente trovato «quella purezza popolana ma allo stesso aristocratica» di cui aveva bisogno.[30]

 

 

 

Sequenza VIII[31] 

Nel trasporre sullo schermo i rituali collettivi, De Santis si fece influenzare dalla sua conoscenza del Mezzogiorno, costruendo immagini da presepe e da sacra rappresentazione che sono molto più vicini alla cultura meridionale che non a quella delle risaie settentrionali.

È importante ricordare che, dal punto di vista letterario, De Santis fu molto influenzato dal capolavoro di Verga I Malavoglia; le inquietudini per il benessere di ‘Ntoni avevano assunto le sembianze di una ragazza fragile e indossato i vestiti di Silvana Mangano.[32]

I legami fra De Santis e la letteratura italiana erano molto forti, il regista aveva iniziato la sua carriera come critico cinematografico sulla rivista “Cinema” ma il suo sogno nel cassetto era rimasto quello di fare lo scrittore. In un’intervista video del 1994 spiegava lo spostamento dalla letteratura al cinema: 

«Il passaggio dalla letteratura al cinema è avvenuto anche perché mi sembrava di dover dare un volto, un’immagine, una voce, una musica, a quello che nella letteratura non c’era, o perlomeno non c’era nella mia»[33]. 

Nel film si intuisce anche la forte influenza di un certo cinema d’azione americano e questo influsso si palesò quando ci si interrogò su come far terminare la storia e su come collegare il dramma del coro (la fatica delle mondine) al dramma dei personaggi. Si optò per il suicidio di Silvana, che rappresentava una sorta di espiazione non solo per il fatto di essere divenuta l’amante di un ladro, ma anche per il tradimento di classe che incarnava, visto che tradiva le sue compagne di lavoro[34], Per Lizzani, la scena finale della macelleria nella cascina aveva in qualche modo disatteso l’aspetto corale della vicenda, in quanto i destini individuali erano finiti col prevalere. Tale schema finale era il prodotto di una forzatura ideologica, del tentativo di reagire alla frustrazione subita dalla sinistra con la sconfitta elettorale dell’aprile 1948[35].

I personaggi femminili

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Riso amaro è un film incentrato sulla vita di donne che lavorano faticosamente nelle risaie. Questo aspetto del sudore e della fatica si coglie subito, fin dalla prima inquadratura, quando lo speaker di una trasmissione televisiva introduce la tematica del mondo della risaia raccontando:

 

 «Sono alcuni secoli che nell’Italia settentrionale si coltiva il riso. Come in Cina, come in India. Cresce su un’immensa pianura che copre le province di Pavia, di Vercelli, di Novara. Su questa pianura hanno impresso segni incancellabili milioni di mani di donne che l’hanno frugata ed assestata per quattrocento, per cinquecento anni. È un lavoro duro e immutabile: le gambe nell’acqua, la schiena curva, il sole a picco sulla testa. Eppure soltanto le donne possono compierlo: ci vogliono mani delicate e veloci, le stesse che sanno infilare pazientemente l’ago e cullare i neonati»[36]. 

Fin dall’inizio del film, De Santis si cimenta in inquadrature acrobatiche: dopo il primo piano di un uomo che parla, la macchina si allontana e gli spettatori comprendono che si tratta di un cronista radiofonico, poi la macchina si sposta in una lunga panoramica che ci restituisce  l’insieme delle mondine che prendono d’assalto i treni; si vuole rendere l’idea di quella che è la prepotente  femminilizzazione in atto della forza lavoro.

Subito De Santis si focalizza sulla tematica della ghettizzazione lavorativa che le donne hanno subito: da secoli alle donne sono state riconosciute inferiori capacità lavorative, ma in contrasto con la mitica visione di fragilità intrinseca nella loro  natura, milioni di donne per centinaia di anni sono state impegnate in attività che richiedono una grande resistenza fisica, quali il lavoro nei campi o in miniera, lavori ai quali però viene riconosciuto scarso prestigio sociale e poca redditività economica.

È significativo che Riso amaro inizi in una stazione ferroviaria, luogo di scambio dove si parte e si arriva, ma anche simbolo di scambio ed incrocio di classi sociali, mentre il treno assurge a simbolo del processo di industrializzazione in corso.

Dopo questo incipit, il film si apre con la scena dell’inseguimento da parte della polizia del ladro Walter (interpretato da Vittorio Gasman); l’uomo sfugge alla cattura e consegna il malloppo, una collana rubata, alla sua amante Francesca. La donna sale sul treno delle mondine per confondersi nella moltitudine. Subito emerge il rapporto di sudditanza che lega la donna all’amante: l’uomo l’abbraccia, ma solo per sfuggire alla cattura e la tratta con modi poco garbati tipo «Vuoi chiudere il becco? Muoviti…».

 Fra l’insieme indistinto delle mondine subito risalta, come diversa dalle altre, la protagonista, Silvana, ragazza che balla a piedi nudi con le gambe scoperte, fuma sigarette, mastica chewing gum, legge Grand Hôtel e si porta dietro un grammofono per ascoltare la musica. Silvana è una donna abituata come le altre a fare più lavori stagionali; d’inverno, per esempio, fabbrica sigarette americane di contrabbando, è una donna abituata a barcamenarsi fra le difficoltà quotidiane.

Le mondine dormono, come in una camerata, tutte insieme in un cascina che assurge a luogo emblematico della separatezza e segregazione di genere cui sono sottoposte, ma all’interno di questo gruppo indistinto si aggira la mondina Silvana che in quel luogo di separatezza disattende le consuetudinarie faccende domestiche per lasciarsi trasportare dai suoi sogni, in un mondo popolato da attori hollywoodiani.

La  costumista del film, Anna Gobbi, racconta il lavoro certosino che fu fatto, lavoro volto a restituire in maniera realistica la verità degli ambienti della risaia mettendo in evidenza la vita delle mondine, le camere dove dormivano e dove passavano le ore di riposo lavando, cucendo e scrivendo. In particolar modo alcuni arredi furono studiati proprio per definire meglio il carattere spregiudicato della protagonista. In una sequenza del film, mentre le altre mondine cucinano, lavano e si occupano delle faccende domestiche, Silvana Mangano è rappresentata sul letto mentre ascolta la musica proveniente dal grammofono con appesi dietro la testa uno specchio e le calze nere usate per la monda. [37]

Silvana è una ragazza fortemente ammaliata dal mito americano, è una ragazza attenta al suo aspetto fisico e si fa fare fotografie da Mascheroni, un fotografo ambulante,  assumendo pose provocanti.

Due dettagli di costume contraddistinguono Silvana: indossa sempre calze nere, a differenza delle altre ragazze e spesso porta un cappello di feltro maschile, quello che le ha lasciato il ladro Walter nella fuga. Questi dettagli non solo sottolineano la sua sensualità, ma preannunciano anche quello che sarà il suo amaro destino.

 Le stesse caratteristiche fisiche della donna; è alta, formosa e molto bella, richiamano subito i tratti della seduttrice, della Venere incantatrice, connotati cari all’immaginario popolare.

Sul treno in partenza per la monda avviene il primo incontro verbale fra le due protagoniste-antagoniste femminili, Silvana e Francesca. Silvana, che ha visto la scena della fuga alla stazione, ha compreso che la donna è complice del ladro e per questo cerca di stuzzicarla per carpirne qualche segreto. Di fronte alle reticenze di Francesca, offre comunque il suo aiuto alla donna promettendole di presentarla al caporale per essere ingaggiata come mondina.

Scese dai treni le mondine trovano sistemazione  in un cascinale dormitorio dal quale escono altrettanti soldati che si erano alloggiati. In questo movimento migratorio di masse diverse, quella contadina e quella dei soldati, si verifica l’incontro delle due donne col sergente Marco che subito fa il galante con Silvana.

Ben presto emerge il contrasto fra le donne ingaggiate dalla Camera del lavoro e le cosiddette clandestine, lavoranti disposte a subire il cottimo, tale contrasto viene sottolineato visivamente nel momento della loro vestizione; infatti, alle mondine regolari vengono assegnati cappelli di paglia per proteggersi dal sole, alle altre non spetta niente e sono invitate ad andarsene perché i caporali temono un’ispezione da parte del sindacato.

Poiché la condizione di lavoro è precaria anche le forme di lotta e di organizzazione che le mondine clandestine possono provare ad esperire sono molto semplici. Francesca invita le clandestine come lei a lavorare, nella speranza che, se dimostreranno di saper lavorare più delle regolari, forse saranno assunte. Nelle risaie le mondine clandestine cantano e lavorano alacremente sfidando le regolari; la fatica del loro lavoro viene sottolineata dagli stornelli, la sfida termina poi in una rissa nel fango della risaia. Questa scena di violenza fra le donne, tipica di ambienti non femminili quali carceri, caserme, miniere, doveva colpire sicuramente l’immaginario degli anni Cinquanta quando la violenza fisica era ancora vista come fenomeno tipicamente maschile. In ogni caso tale provocazione registrava bene il cambiamento antropologico che vedeva la donna non essere più solo l’angelo del focolare.

 I soldati accorrono a sedare l’aggressione e in questo preciso momento si specificano meglio i rapporti fra Marco, Silvana e Francesca, che poi porteranno ad invertire le coppie. Silvana svela al sergente che Francesca è una ladra e mostra il gioiello rubato che le ha sottratto dal materasso, ma il sergente si rifiuta di condurla dai carabinieri commentando: «Ognuna ha il suo destino e nessuno può farci niente».

Al di là della battuta del sergente, in entrambe le donne affiora il desiderio di non restare inermi e di voler forgiare autonomamente  il proprio destino.

Quello che emerge dalle sequenze è anche il difficile rapporto fra la manodopera femminile e i caporali: le mondine sono sfruttate ed utilizzate dal caporalato, che si trattiene una cospicua percentuale sulla loro busta paga, per fare profitto; la possibilità di avere un lavoro, anche se umile, è ancora nelle mani di padroni rappresentanti della supremazia maschile. Il caporalato è una conseguenza e la proiezione del patriarcato, inteso come insieme di strutture sociali in cui gli uomini dominano, opprimono e sfruttano le donne.

Tale sudditanza la ritroviamo nella scena in cui i caporali si rifiutano di versare un anticipo sul lavoro alle mondine e in quella in cui le mondariso devono passare la visita medica, ma il medico si rifiuta di visitare coloro che non sono in regola col sindacato. Il momento della visita è per molte mondine fonte di preoccupazione: la ragazza incinta teme che il suo segreto possa essere scoperto, le mondine cattoliche non vogliono spogliarsi perché lo considerano disdicevole per una donna onesta, infine le mondine più povere, quelle che non si sono potute fare un bagno, si vergognano di non essere sufficientemente profumate.

Inutile ricordare che alcuni caporali non si fanno scrupoli nell’allearsi col bandito Walter per sottrarre il riso alle mondine.

Dopo la riappacificazione fra le donne regolari e le clandestine, intesa ritrovata grazie alla solidarietà delle regolari che hanno minacciato lo sciopero, segue un intenso ed intimo dialogo fra le due protagoniste femminili. In questo colloquio  De Santis dimostra di essere un maestro di interpretazione della psicologia femminile.

Francesca racconta a Silvana di aver lavorato come cameriera in un albergo e di aver perso il posto di lavoro perché in stato interessante, soprattutto racconta del suo incontro con Walter che le aveva promesso una vita diversa e un futuro migliore e che invece l’aveva solo costretta ad abortire: «Non è nemmeno nato… Io ero contenta, ma lui non ha voluto. Sai come sono gli uomini… Diceva che i bambini sono degli impicci e che danno solo dei guai.» Mentre Francesca racconta il dramma del suo aborto e di come ha seguito l’uomo che l’ha rovinata, costringendola con un ricatto a rubare la collana, Silvana sembra rapita, quasi incantata, e sospira:  «Ma almeno tu hai fatto qualche cosa nella tua vita… Non sei sempre stata in mezzo a questa miseria… Hai visto anche delle cose belle». Da queste risposte si comprende subito l’irrequietudine interiore di Silvana che ha smania di avere delle avventure  per sentirsi viva ed uscire dalla miseria e dalla routine quotidiana.

Nel racconto di Francesca si evince che per lei l’aborto volontario ha rappresentato una ferita incancellabile, c’è un senso di dolore e di colpa per aver ceduto alle pressioni dell’amante che l’ha costretta ad abortire. Nel racconto emerge tutto il vissuto psichico ed emotivo della donna, il cui turbamento emotivo davanti alla scoperta della gravidanza l’ha resa vulnerabile all’influenza negativa dell’uomo. Nella cascina, numerose sono le mondine con problemi legati alla sfera femminile: l’anziana mondina Andreina è costretta a portarsi dietro il figlio piccolo non avendo nessuno a cui lasciarlo per poterlo accudire, la mondina Gabriella vomita continuamente perché incinta e tenta di nascondere la sua gravidanza, la mondina Argentina non vuole più mantenere il fidanzato marinaio e cerca senza successo di lasciarlo.

Mentre alcune mondine raccontano dei loro fidanzati e delle loro premure, Francesca si sente estranea e a disagio di fronte alla loro felicità. Piano pian sta prendendo consapevolezza che il suo è un amore infelice e sbagliato.

Nel frattempo, Marco continua a fare la corte a Silvana, riuscendo a farsi concedere un bacio, ma, se il sergente spera di costruirsi un mestiere ed un futuro onesto e sereno in Sud America, Silvana sogna invece l’America patinata di Hollywood, e non è casuale che mentre lavori canti: «Mamma mamma, dammi cento lire che in America voglio andà…».

L’incomunicabilità fra i due personaggi emerge in uno scambio di battute: al sergente, che dopo il congedo sogna di andare a cercare lavoro in Sud America, Silvana risponde: «Ma non si legge mai niente dell’America del Sud. Nel Nord invece è tutto elettrico». La replica di Marco: «Si, anche la sedia elettrica» non serve a ribaltare le illusioni della ragazza.

Una sera, mentre le mondine sono nel bosco con i loro innamorati, Silvana cede alla tentazione di indossare la collana rubata; intanto nella cascina si è fatto vivo Walter che balla con lei il boogie-woogie. Sopraggiunge Marco sconcertato e deluso dal fatto che Silvana abbia osato mettersi il gioiello rubato cedendo alle lusinghe del lusso e dell’apparenza. Marco strappa la collana dal collo della donna, ne nasce una zuffa fra Marco e Walter. Francesca riesce a recuperare la collana anche se apprende dal suo amante che è falsa: «È falsa stupida ! non lo sai? C’è su tutti i giornali. Hai preso quelli falsi. È furbo il tuo padrone: ci ha fregati». Walter tratta con senso di inferiorità e soggezione psicologica la sua amante e cerca anche di schiavizzarla dicendo: «Sono io che comando». Alla fine della storia, quando Francesca tenta di dissuaderlo dai suoi loschi intenti, la minaccia anche di morte: «Ascolta… Mondina o cameriera tu sei sempre legata a me… ricordatelo sino alla galera… E poi, la galera non è il guaio più grosso che possa capitarti». Francesca inizia ad elaborare il lutto dell’aborto, esperienza per lei destrutturante e inizia a distaccarsi dall’uomo; capisce di esservi rimasta legata solo per il loro inconfessabile segreto e per la volontà di punirsi per l’aborto. Il suo percorso di sofferenza e di solitudine l’aiuta a ripartire ridefinendo se stessa. Nello stesso momento, anche il sergente Marco, ormai deluso dall’immaturità della bella Silvana, pur tentando un chiarimento con la donna, se ne allontana definitivamente dopo che la ragazza ha respinto in maniera violenta un suo abbraccio affettuoso e premuroso. Francesca è colpita  dall’etica del sergente che non l’ha giudicata per i suoi sbagli e si avvicina sempre più all’uomo, che vede come un modello morale. Si verifica una vera e propria inversione delle coppie, che alla fine della storia vedrà Francesca ripartire dopo la monda insieme al militare. Silvana, viceversa, è sempre più affascinata dal bandito Walter, inizia ad allontanarsi da Marco che, deluso dalla superficialità della donna, commenta «Boogie-woogie, Grand Hotel. Non sai vedere altro?». Addirittura con Walter la donna non si fa scrupoli nel deridere l’amore sincero che il sergente prova nei suoi confronti: «È troppo innamorato, quel sergente, e io non posso soffrire i tipi appiccicaticci».

Nonostante gli avvertimenti di Francesca, Silvana accetta la corte di Walter e inizia a disinteressarsi del lavoro, in questo specifico momento inizia lo scollamento del personaggio da quella che è la naturale socialità delle mondine. Mentre le mondine, dopo ininterrotti giorni di pioggia, sono preoccupate del danno economico che ne potrebbe derivare perché, se il raccolto non sarà completato entro i termini, potrebbero saltare i contratti per la mietitura, Silvana cerca di incontrare Walter rimasto nascosto nel cascinale. Nonostante la pioggia ininterrotta, le mondine unite decidono di riprendere il lavoro. Mentre le mondine sono indaffarate, Silvana gioca a fare la civetta  con Walter che alza su di lei un frustino con sadico piacere e la violenta. È significativo che la sequenza della violenza nella risaia si arresti, senza mostrare lo stupro ma solo suggerendolo; Silvana cede alla violenza di chi le toglierà non solo la purezza ma anche l’appartenenza di classe. È inoltre simbolico che il momento della caduta di Silvana sia sottolineato con atteggiamenti masochistici quali le frustate che riceve da Walter.[38]

La pioggia e l’atmosfera torbida del paesaggio suggeriscono la passione irrefrenabile che porterà la coppia alla rovina: Silvana, anche se vittima della violenza fisica, finirà per essere plagiata dal suo carnefice. L’attrazione di Silvana per l’uomo dannato, bello e tenebroso, rappresenta l’istinto umano che si trasforma in violenza. Tale desiderio è sofferenza, agonia ma ciononostante Silvana lo insegue ammaliata per imperscrutabili ragioni. Il topos della bella ragazza dannata, tipico del cinema americano e riconducibile al personaggio della protagonista che si avvicina ad una vita criminale, serviva a veicolare una rivolta antropologica contro le regole sociali. C’è una esteriorizzazione della violenza, basti pensare che Silvana provoca con i suoi comportamenti una serie di  violente zuffe. Mentre Silvana subisce la violenza, Gabriella, una ragazza incinta, si sente male e abortisce nella risaia. Le compagne soccorrono la ragazza e  fanno di tutto per proteggerla, nascondendo la sua gravidanza che potrebbe essere motivo di licenziamento; i canti di angoscia delle mondine servono da un lato a nascondere le grida di dolore della ragazza, dall’altro rappresentano una vigorosa protesta per quelle che sono condizioni di lavoro brutali ed infamanti.

La scena dell’aborto nella risaia è particolarmente drammatica, il paesaggio cupo e la pioggia battente contribuiscono ad accrescere il senso di angoscia e l’interiorità sofferta dei personaggi. Nei film di De Santis spesso la lotta dell’uomo appare come una perenne lotta anche contro l’elemento naturale, in questo caso la pioggia che ostacola il lavoro dell’uomo.[39]

 Francesca cerca di aiutare la ragazza che si sente male, la prende in braccio e quello che colpisce nel cambiamento del personaggio, da ex amante del ladro a donna caritatevole, è che la fraterna solidarietà che emerge in quel soccorso non scaturisce solo dal legame della donna col contesto produttivo, ma è il risultato di una specifica maturazione individuale che la porta a inserirsi socialmente nella comunità contadina.

Quando Silvana arriva nella risaia, davanti al dramma di Gabriella, ha una reazione isterica e singhiozza, in maniera convulsa, «Basta! Basta! Non siamo bestie! Basta con la miseria! Basta con questo schifo!».

Con la redenzione della ladra Francesca, il regista sembra quasi suggerire, secondo uno schema marxista, che solo l’unità dei lavoratori può essere salvifica, i lavoratori devono unirsi e rappresentare in maniera congiunta  i loro interessi. Silvana invece, animata da insani appetiti di successo personale e da desideri inconfessabili, diventa l’amante del bandito che nel frattempo le ha regalato la collana, nascondendole che si tratta di un falso.

            Completamente soggiogata dall’uomo e dalle sue menzogne, accetta di aiutarlo nel suo piano criminoso che prevede di rubare il raccolto del magazzino, durante i festeggiamenti per la fine della monda, allagando le risaie. Silvana apre le paratie delle risaie allagandole e le mondine, con grande abnegazione per il loro lavoro, accorrono a prestare soccorso lavorando affannosamente con pale, secchi e strumenti improvvisati. Mentre i complici di Walter scappano, Walter e Silvana sono raggiunti da Marco e Francesca. Nasce una lotta drammatica nella macelleria della cascina: entrambi gli uomini vengono feriti; Silvana, appresa da Francesca la notizia che la collana è falsa, spara al suo amante. Poi, presa dal rimorso, decide di farla finita buttandosi dall’impalcatura che era stata realizzata per premiarla come Miss mondina. Il momento di massima tensione coincide con lo scioglimento: Silvana infatti, preferisce morire piuttosto che vivere senza i suoi sogni. Il Leitmotiv del cinema di De Santis può essere considerato l’oscillazione fra passione ed ideologia. Il regista militante del PCI è interessato a raffigurare non solo le lotte civili ma anche le lotte di classe in un quadro i cui il capitalismo e il proletariato dall’altro appaiono inconciliabili[40].

            Attraverso il personaggio femminile di Silvana, De Santis focalizza la sua attenzione sulla donna come soggetto sociale che tenta l’inserimento in un mondo del lavoro dove domina ancora lo sfruttamento, ma che diviene protagonista dello scontro sociale tramite le lotte bracciantili e l’occupazione delle fabbriche. Il regista è però attento ai particolari cambiamenti di costume che si stanno verificando in quegli anni, in particolar modo alla liberazione sessuale e al processo di americanizzazione della società italiana. Nonostante il processo di americanizzazione sia stato foriero di disgregazione sociale è curioso ricordare che il femminismo si sia sviluppato proprio in America, culla della cultura di massa, come portato di quella stessa idea che aveva fatto sorgere l’utopia del Nuovo Mondo. Il femminismo, al suo sorgere, è dotato della stessa carica utopica che aveva guidato il processo d’Indipendenza[41]. La donna di Riso amaro non è più l’angelo del focolare dei telefoni bianchi, è una donna che vive le sue relazioni al di fuori dell’istituto matrimoniale, ma la sua libertà sessuale vive dei limiti, la maternità ancora non è una scelta per la penuria dei metodi anticoncezionali. È significativo che Francesca racconti a Silvana dell’aborto a cui l’ha costretta il suo amante e che una ragazza in stato interessante abortisca spontaneamente nella risaia a causa della fatica del suo lavoro. Quella contadina è inoltre una cultura ancora legata al concetto di onore, di rispettabilità legata alla sfera sessuale e chi infrange questi tabù è destinato ad essere emarginato.

            Oltre a questo aspetto mi preme ricordare che, nonostante il processo di emancipazione femminile, lo stesso movimento per l’emancipazione delle donne assumeva posizioni per così dire tradizionali sui problemi della sessualità, dell’aborto e del divorzio, posizioni conservatrici erano assunte da parte della stessa sinistra per non urtare il mondo cattolico[42].

            Nel film il corpo femminile viene comunque liberato, De Santis sarà accusato di erotismo per le numerose scene in cui sono mostrate le gambe della Mangano e per la scena di nudo relativa al bagno delle mondine nel ruscello della risaia. Il regista incontrò numerose difficoltà per girare quella scena. Nonostante le mondine, osservate nei suoi sopralluoghi, facessero  il bagno nude con una certa consuetudine, quando si trattò di far girare quella scena alle contadine,  scritturate come comparse, ci furono molte resistenze; numerose donne, per pudicizia, non volevano acconsentire a farsi riprendere nude.

Nel film il corpo emerge da un lato positivamente come momento materiale della propria identità (pensiamo al corpo danzante di Silvana), dall’altro negativamente come  luogo dell’estraniazione ed oppressione (basti pensare alla scena dello stupro).

L’eros però tanto è più prepotente tanto più si ritorce contro la stessa donna e la stessa avvenenza fisica, da dono naturale, diviene strumento di dannazione sociale e sessuale[43] Al di là di quelle che furono le polemiche e le accuse di erotismo rivolte al regista, questa liberazione del piacere femminile deve essere letta positivamente come reazione all’autoritarismo fascista che aveva cercato di controllare la sessualità femminile e le funzioni riproduttive del corpo femminile. Silvana è una donna sicura del suo fascino, è una ragazza che flirta sfacciatamente con gli uomini. Tale sicurezza emerge in una risposta che fornisce a Francesca, alla domanda della donna su come abbia compreso che il sergente le faccia lo corte risponde, sicura di sé, «A me gli uomini me la fanno sempre».

De Santis entra perfettamente nella psicologia femminile riuscendo ad inventare un personaggio femminile che si mette al di fuori delle convenzioni e che urta con attese consolidate; da una ragazza onesta ci si aspetta che segua un amore romantico e che eventualmente  si sposi con un brav’uomo quale potrebbe essere il sergente di fanteria e  non che diventi l’amante di un furfante che le promette soldi facili.

            La protagonista è una donna appartenente al mondo contadino, ma è una figura femminile atipica e proprio questa atipicità potrebbe essere vista come un inno contro l’autoritarismo fascista. Il fascismo aveva guardato con interesse ad una politica di ruralizzazione proprio in contiguità con una politica di rafforzamento della stirpe, in particolar modo la ruralità veniva vista come un fattore di equilibrio sociale e restaurazione morale e di sviluppo demografico, ma Silvana con i suoi comportamenti anticonformisti non può più rispondere ai miti della fecondità della stirpe e del lavoro casalingo delle donne[44].

Quella che emerge nel film è una  donna che, pur lavorando nella risaia, legge Grand Hôtel, sognando un futuro di ricchezza e appassionanti avventure, una donna che non trova un preciso inquadramento in una dimensione familiare, ma che si definisce da un punto di vista consumistico come accanita lettrice di fumetti, fumetti che interiorizza a tal punto da crearsi un mondo immaginario dominato dall’etica del piacere e del successo. Il settimanale Grand Hôtel era nato nel 1946 come fotoromanzo che raccontava storie d’amore con la tecnica dei fumetti e già nel nome evocava grandi lussi ed affascinanti avventure. Diffuso al prezzo abbordabile di dodici lire, riscosse un enorme successo fra il pubblico femminile e fu un vero e proprio fenomeno di costume. Il fotoromanzo fu la più grande trovata dell’editoria italiana del dopoguerra ed è significativo che De Santis lo faccia leggere spesso alla protagonista della storia, forte consumatrice del nuovo mezzo. Il fotoromanzo diviene uno strumento di osmosi fra la cultura urbana e quella contadina, prende dei personaggi dalla vita quotidiana e li coinvolge in avventure nelle quali l’amore si fa tema essenziale di identificazione femminile. Silvana considera il fotoromanzo come un oggetto prezioso e infatti esegue anche dei ritagli dalla rivista proprio per personalizzare il suo posto letto nella camerata  applicando le figure ritagliate sui vetri della cascina. Anche sul suo sacco, che funge da bagaglio, sono incollate fotografie di attori ritagliati dai giornali. Il regista si serve di questo mezzo per articolare il rapporto fra cultura di massa da una parte e tradizioni popolari dall’altra, ma Grand Hôtel non è solo un accessorio di costume, il regista se ne serve per evidenziare la sottomissione dei personaggi femminili alla cultura di massa.[45]

            Oltre a Grand Hôtel, generalizzando, si può affermare che la stampa femminile dell’epoca si occupava da una parte della casa e del benessere, dall’altra della seduzione e dell’amore, di fatto i gradi temi di identificazione della cultura di massa. La stampa femminile presentava un microcosmo di valori quali l’affermazione dell’individualità, il benessere, l’amore, la felicità che consentivano una sorta di proiezione ed identificazione mimetica con i modelli presentati.

Silvana è una ragazza che si barcamena facendo svariati lavori e che inizia le compagne al vizio del fumo vendendo sigarette di contrabbando in cambio di oggetti femminili, quali un reggipetto. Tutto un gruppo di prodotti che venivano realizzati in serie, quali profumi, calze di nylon, lo stesso  reggiseno, simboleggiano il processo di omogeneizzazione e democratizzazione della cultura di massa nell’era del consumismo. Nell’opinione comune, quella contadina è ancora negli anni Cinquanta una società statica e arretrata, una comunità passiva, che resiste al progresso e ai processi di trasformazione in atto; tramite però la figura della donna, che non gioca più un ruolo esclusivamente in funzione della collocazione familiare emerge una forte rottura con mentalità e consuetudini radicate. Della famiglia della protagonista non sappiamo niente, Silvana è una donna sola nella vita e tale solitudine la accomuna ai personaggi dei fumetti e del cinema americano,  che spesso sono eroi senza famiglia. Nella caratterizzazione del personaggio di Silvana si può senz’altro vedere l’influsso del gangster movie americano. Silvana da una parte condivide il destino di tanti gangster che sono sempre destinati a soccombere nello scontro con la società civile, dall’altro lato come il gangster  può essere vista come icona e vittima  del disagio sociale.

Nel film è presente una visione a tratti manichea del positivo e del negativo, del  bene incarnato dal sergente Raf Vallone, del male impersonificato dal ladro Gassman.  

Silvana, grazie alla lettura dei fotoromanzi, si costruisce un mondo pieno di fantasie, che la porterà prima ad essere colpita dall’onore del bravo ragazzo, il sergente, ma poi a sentirsi attratta dal bandito che le promette un futuro da signora. Silvana è affascinata dal ladro e, ossessionata dalle promesse del gangster, non si fa scrupoli a tradire le legittime aspettative di lavoro delle sue compagne. Nei suoi comportamenti si  intravede il rifiuto dell’etica del lavoro a favore del benessere e da tale spostamento di baricentro non può nascere che una concezione etica, basata non sui valori, ma sul potere. Questa logica di potere viene esplicitata dal fatto che la donna deve essere soggetta all’uomo e il sesso diviene occasione di sottomissione e di potere.

Silvana è una ragazza di campagna che abbandona le miti pretese di un lavoro onesto e di una famiglia, per farsi corrompere dai modelli del consumismo e della società di massa, da quei nuovi bisogni e desideri indotti dal cambiamento sociale. Riso amaro è un film che può essere interpretato a vari livelli e che si apre a letture stratificate soprattutto se osserviamo i personaggi femminili. Francesca incarna sicuramente un personaggio positivo, appartenente al mondo sottoproletario, una figura femminile che uscendo dal contesto urbano si fa redimere nella comunità contadina. Infatti, dopo essersi fatta traviare dal bandito Gassman, si fa convertire all’onestà dal sergente Raf Vallone e dal contatto con il mondo contadino grazie al quale si costruisce una specifica identità di classe, si fa salvare da un mondo che è depositario di relazioni sociali  più autentiche e solidali rispetto al contesto urbano[46].

Silvana, anche se personaggio negativo, è però quello che simboleggia la vera rivoluzione sociale del dopoguerra, la sua forza eversiva esercita una notevole capacità di rottura all’interno della collocazione sociale di appartenenza; Silvana è una mondina di una classe contadina che sta scomparendo. All’interno di questo mutamento sociale emergono mutamenti profondi nell’autoconsiderazione delle donne e delle loro aspettative, in gran parte indotti dall’egemonia culturale americana, che si sta diffondendo attraverso l’industria cinematografica e la radio. Le mondine salgono sui treni per andare a lavorare lontano dai loro paesi, per acquisire libertà ed autonomia. Sono in gran parte donne che come Silvana desiderano una relazione amorosa anche al di fuori del matrimonio e dei tradizionali vincoli familiari e che rincorrono i modelli sociali provenienti dagli Stati Uniti.

Attraverso il personaggio femminile interpretato dalla Mangano, De Santis riesce a cogliere tutte queste trasformazioni in atto e soprattutto la più profonda e destabilizzante, ovvero il trionfo dell’individuo sulla società e il conseguente ripiegamento su interessi egoistici. Questo scuotimento dei valori e dei modelli di comportamento non poteva non essere doloroso.

 Quando Silvana decide di aiutare il bandito ad allagare la risaia per sottrarre il raccolto, non solo tradisce la solidarietà del mondo contadino, ma taglia anche i fili che la legano a un tessuto sociale agricolo in cui ci sono specifiche aspettative di lealtà e solidarietà che regolano i comportamenti reciproci fra le persone. Silvana sembra avere un sentimento di rimorso quando dona il suo sacchetto di riso alla sorella di Gabriella, la ragazza che ha abortito, ma questo si rivela l’ultimo gesto di solidarietà col gruppo. In un secondo momento di dubbio e di rimorso cerca di convincere Walter a non rubare il riso dai depositi. Nonostante il monito di Francesca: «Ti rovinerà… tutta la vita, come ha fatto della mia», Silvana si fa comprare dall’uomo che le regala la collana preziosa come dono di fidanzamento. Anche se una battuta che rivolge a Walter simboleggia il dubbio che si insinua nella sua mente «Tu porti la maschera qualche volta?». Quando la donna scopre di essere stata ingannata, la scissione fra la sua persona e il suo ruolo sociale è completata, l’unica via di fuga diviene il suicidio, perché la donna si rende conto di aver definitivamente chiuso con il codice etico  da cui proviene e di non potersi redimere altrimenti. Il suicidio avviene gettandosi dall’alto di un’impalcatura che è l’emblema dei suoi sogni di successo personale, tale impalcatura era servita a festeggiare la sua elezione a Miss mondina, quindi tramite il suicidio il regista vuole simboleggiare la caduta dei sogni e l’espiazione per aver desiderato qualcosa di profondamente sbagliato. Silvana è divenuta sempre più sola, ma non è il mondo contadino che l’ha isolata, in un certo qual modo si è isolata da sola con la sua fragilità interiore e con la sua passione perversa per l’uomo sbagliato.

Il film si chiude con l’immagine delle mondine che gettano un pugno di riso sul corpo della compagna che si è suicidata e il gesto, un vero e proprio rito funebre, fu scelto con realismo da parte di De Santis, perché quando una mondina moriva era davvero consuetudine da parte delle compagne gettare un pugno di riso nella bara. Il suicidio rappresenta un vero e proprio rito di purificazione  per il suo comportamento peccaminoso.

            Il personaggio di Silvana non è utile solo per raccontare la costruzione dell’identità femminile della donna italiana nel dopoguerra, ma anche per registrare quello che fu un certo scollamento fra un movimento di liberazione della donna appartenente ai partiti politici della sinistra, che concentrava l’attenzione su tematiche lavorative e sull’emancipazione economica e un’anima dei gruppi femministi  che privilegiava anche il livello privato e personale della questione femminile. [47] La protagonista, col suo triste destino, sembra suggerire che una vera emancipazione non poteva passare semplicemente dal raggiungimento di un’indipendenza economica, ma doveva passare anche da un processo di maturazione e costruzione identitaria. Silvana invece di farsi incantare dai fotoromanzi avrebbe dovuto elevare la propria cultura, lottando contro i pregiudizi per partecipare con piena consapevolezza alla vita politica e sociale del suo paese. L’insieme delle mondine appare come un gruppo appartenente alla classe subalterna, una comunità solidale che cantando si infonde coraggio. Il canto è qualcosa in più di un semplice rito collettivo, il canto è il grido delle classi subalterne, oppresse e sfruttate.

Analizzando la sceneggiatura e il film c’è una battuta di un’anziana mondina che fa emergere questo aspetto, la donna si rivolge a una ragazza giovane dicendo: «Qui non si parla sul lavoro. Qui si fa come in carcere: se vuoi dire qualcosa alle tue compagne, si può solo cantare». Nella comunità delle mondine si impone alle donne un comportamento di obbedienza, passività e silenzio; in questo modo confermando il modello sociale dominante. Le donne lavorano tutte insieme, ma la loro è una segregazione occupazionale data da tutta una serie di stereotipi consolidati quali, per esempio, la maggiore disponibilità ad accettare gli ordini e ad accettare lavori monotoni e ripetitivi, la minore tendenza a lamentarsi per le condizioni lavorative. Nella camerata dove dormono le mondine sui muri è scritto «Vivo morendo in risaia non in tempo di guerra ma in tempo di vita». Quello che mi colpisce dell’ambiente di lavoro delle mondine è il fatto che sia dominato da una sorta di calore umano, le donne lavorano lontano da casa per necessità familiari, ma nel loro modo di lavorare si intuisce che il lavoro non è solo uno strumento di guadagno, ma anche un mezzo di relazione sociale. Il livello culturale delle mondine non è elevato, la loro cultura si riduce a proverbi e a pillole di saggezza popolare, spesso si esprimono in dialetto anche se ascoltano la radio, il grammofono e leggono riviste femminili.[48] E sono proprio questi strumenti che  involontariamente concorrono all’unificazione linguistica che porterà al tramonto dei dialetti. Quella contadina è ancora una cultura dominata dal folklore e dalle tradizioni, basti pensare ai cori che scandiscono la giornata lavorativa e alle feste di paese, tipo la festa di fine raccolto; su questa cultura secolare si sta sovrapponendo la cultura americana con i suoi divi. Nell’epoca in cui in Italia esplodeva il fenomeno del divismo, la protagonista è rimasta nell’immaginario collettivo come maggiorata sexy grazie alla sua bellezza provocante, con l’unica differenza che la sua sensualità serviva a veicolare un film di grande impegno sociale. La diva dello star system in un film impegnato era comunque un’eccezione, infatti, la superdotata ben presto sarebbe divenuta un topos della futura commedia all’italiana condensando le proiezioni  della cultura di massa. Come ha ben evidenziato Edgar Morin nei suoi studi sul fenomeno del divismo, i divi fondendo la vita quotidiana e la vita olimpica:

 

«danno corpo ai fantasmi che i mortali non possono realizzare, ma chiamano  i mortali a realizzare l’immaginario. A questo titolo , i divi sono condensatori energetici della cultura di massa»[49]. 

Come rammenta De Santis, l’inquadratura in cui per un momento appariva il seno nudo della Mangano non fu vista da tutti gli spettatori perché molti operatori di cabina si affrettavano a ritagliare i fotogrammi per custodirli nei loro portafogli.[50]  Il fatto è sintomatico di come la “pin up” Mangano fosse qualcosa da ritagliare e da conservare al pari dei ritagli di attori e ballerine fatti dalla ragazza nel film. Il pubblico vedrà nella mondina Silvana Mangano un vero e proprio sex symbol, sarà soprannominata dalla stampa la bomba atomica,[51]un mito tipico di quello stile americano di vita sognato dalla protagonista, ma rigettato con decisione dal regista. 

 Pluralità di letture del film 

            Negli anni in cui De Santis lavora a Riso amaro esce postumo Letteratura e vita nazionale (1950) di Antonio Gramsci, che affronta per la prima volta la tematica della cultura popolare. Come dichiarò De Santis in un’intervista, il regista all’epoca delle riprese del film non conosceva questo testo di Gramsci. È comunque significativo che l’approccio di De Santis vada nella stessa direzione.

Il regista individuava una categoria di spettatori come privilegiati fruitori dei suoi film

 

«il pubblico che preferisce i miei film è senza dubbio quello delle seconde, delle terze visioni, il pubblico popolare. Sia perché a esso mi unisce un legame di maggiore simpatia, sia perché i miei film raccontano storie con personaggi di questo stesso pubblico e descrivono affetti, passioni, costumi del popolo»[52]. 

«Il cinema desantisiano è uno dei pochi tentativi non già di narrare il punto di vista del popolo, ma dal punto di vista del popolo»[53]. 

Nell’analizzare il film, Stefano Masi individua tre livelli narrativi. Un primo livello opera in relazione ad un immaginario popolare, ad un pubblico composto da operai e contadini che vedono la lotta fra il bene e il male come filo conduttore del film. Un secondo livello funziona col pubblico della classe media, colpito da storie torbide e dalle riprese acrobatiche e dalle coreografie delle mondine nelle risaie. Un terzo livello infine si rivolge a coloro, che dotati di strumenti cognitivi ed intellettuali, sono in grado di scorgere nella trama il conflitto fra realtà e illusione, la collana considerata preziosa è in realtà un falso, la problematica relativa ai mezzi di comunicazione e la visione mitica della vita del mondo contadino.[54]

De Santis effettua una riflessione critica sul cinema stesso, inteso come mezzo di comunicazione di massa anticipandola problematica dei mass media che dettano modelli culturali.

Silvana è attratta dai nuovi modelli della cultura di massa e attraverso questo personaggio il regista riesce a esprimere quella che è la sua stessa attrazione e repulsione verso le nuove forme di comunicazione. Questo oscillare rivela un autore diviso fra passione ed ideologia:

 

«se il comunista De Santis sposa la moralità dei personaggi positivi… la passione invece del cineasta è tutta rivolta al personaggio perdente, deviante al negativo. De Santis è soprattutto attratto dal fascino del nero, dalle situazioni iperboliche, dalle tinte accese, cariche di violenza e di sesso»[55]. 

Un tributo al cinema americano il regista lo paga nella seduzione che subisce nei confronti di un certo utilizzo dei movimenti della macchina da presa, nell’articolazione della storia attorno a “gangster” e inseguimenti tipici del genere western.

Negli anni del fascismo, De Santis aveva svolto attività di critico cinematografico sulle pagine della rivista “Cinema” ed aveva avuto modo di apprezzare il cinema e la cultura americana, in particolar modo aveva subito una vera e propria fascinazione nei confronti del cinema americano d’autore, quello di Griffith, di Vidor, di Chaplin…,  un cinema  capace di offrirsi ad un pubblico più ampio possibile, grazie alla possibilità di letture polisemiche.

Anche  De Santis era approdato a questa ricerca non tanto per ragioni di mercato, come avveniva negli Stati Uniti, ma nello sforzo di rendere le classi popolari protagoniste e spettatrici dei suoi film.

Nel dopoguerra però la fascinazione nei confronti del mito americano svanì lentamente a contatto con la realtà statunitense in Italia; inoltre l’America, di cui era stato un fervente ammiratore, gli negherà, a causa delle sue simpatie comuniste, il visto d’ingresso e ciò impedirà al regista di partecipare alla notte degli Oscar[56].

La presa di posizione specifica nei confronti del modello culturale americano De Santis la rilevò in un’intervista, quando, stanco delle interpretazioni distorte che si davano del suo film, dichiarò:

 

«il tema centrale di Riso amaro è questo: la denuncia della corruzione che, con mezzi apparentemente innocenti, una certa ideologia ha diffuso in Europa occidentale; tale ideologia è riuscita a diffondere i suoi veleni anche fra gli strati più sani del popolo, specialmente in mezzo alla gioventù, cui essa si è presentata con l’amabile volto del bolgie-woogie, del chewing-gum e del facile lusso»[57]. 

 La rassegna stampa 

Raramente nella storia del cinema un film è stato oggetto di tante attenzioni da parte della critica cinematografica quanto Riso amaro e raramente tanti lettori si sono appassionati al dibattito pubblico, come  avvenne per il film in questione.

Riso amaro fu presentato in prima visione al festival cinematografico di Cannes nel 1949 e fu accolto favorevolmente dalla critica. In particolar modo il critico Ugo Casiraghi sulle pagine de “l’Unità” faceva una recensione entusiastica del capolavoro di De Santis. Pur vedendo in alcune parti del film, tipo la morte di Gassman nella macelleria, il rischio di strafare andando alla ricerca del sensazionale, Casiraghi elogiava la capacità di De Santis di ispirarsi ai fatti veri, trasponendoli nel clima del film dove sono destinati ad ampliarsi, ad epicizzarsi: «egli ha padroneggiato le masse con bella sapienza compositiva, affrontando episodi di lavoro collettivo con slancio lirico ed impetuoso»[58].

Poco dopo ebbe inizio su “Vie nuove” una polemica che proseguirà anche sulle pagine de “l’Unità”. A dare il via alla polemica fu Antonello Trombadori, che criticava lo svolgimento della trama che partiva dal mondo delle risaia e dalle aspirazioni a una vita migliore di una mondina  per poi divenire una  qualsiasi storia in risaia: «quale potrebbero raccontarla certi novellieri occidentali, che nella loro sconfinata ignoranza di ciò che accade agli uomini e alle classi del mondo moderno, si passano lo sfizio di mettere personaggi e fatti  in una storia per snaturarla nel pettegolezzo psicologico e nella morbosità sessuale»[59].

Trombadori sollevando il problema e la necessità della realtà nell’arte accusava il regista di non aver raccontato il vero mondo della risaia, costituito da donne oneste che lottano per il pane quotidiano.

L’accusa di essersi troppo allontanato dalla realtà veniva ripresa sulle pagine dell’ “Avanti” da un anonimo critico che si firmava solo con le iniziali A.P. La critica si rivolgeva nei confronti delle eccessive concessioni al melodramma e dei  modelli ripresi dai film gangster americani[60].

Il dibattito proseguiva sulle pagine de “l’Unità”  con una lettera che Francesco Leone, vice segretario regionale del P.C.I. del Piemonte, nonché senatore della Repubblica inviava a Trombadori in merito al film. Questa lettera apriva un dibattito, a cui tutti i lettori de “l’Unità” erano invitati a partecipare inviando lettere alla redazione. Da piemontese, conoscitore del mondo della risaia, il senatore faceva notare che la monda era qualcosa di differente dal trapianto del riso e che quello delle risaie era un mondo onesto e laborioso, dove nascono amori ma in maniera più semplice e naturale: «E quella scena da Tombolo delle nostre mondine che si lanciano a frotte, di notte, nelle braccia di quegli uomini in foia che guatano la preda dal recinto della cascina? Qui si passa la misura e non c’è da invocare nessuna attenuante, neppure di carattere artistico!»[61].

Al di là degli intellettuali, molti lettori parteciparono al dibattito animato intorno al film, molte lettere che pervennero a “l’Unità” sono state raccolte nel numero 3 dei Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis, la lettura è particolarmente istruttiva ai fini di una rilettura contemporanea della pellicola. Qualche lettore, fra cui un dirigente sindacale emiliano, si avvicinava alle correnti critiche di sinistra che accusavano De Santis di non aver rappresentato mondine che si prendevano cura delle loro famiglie e che si occupavano del loro contratto di lavoro sottraendosi allo sfruttamento dei caporali, ma donne viziate e sguaiate. Altri si lamentavano del modo in cui erano state rappresentate le donne venete, che erano semplici lavoratrici che non ballavano il boogie-woogie e non spendevano i loro soldi in luminarie e in festeggiamenti per la fine del raccolto. Altri ancora, pur elogiando De Santis, lo accusavano di essersi piegato agli interessi dei finanziatori del film, avendo introdotto una fumetteria che aveva finito per far perdere di vista l’aspetto sociale del film.

Fra i pochi giudizi positivi mi ha colpito, anche per la sua forte attualità politica, la lettera che un giovane anonimo inviò a “l’Unità” e che fu pubblicata dal quotidiano sulla cronaca di Milano l’8 ottobre 1949. Il giovane si rivolgeva al senatore Leone dissentendo dal suo giudizio. Trascrivo un passaggio della lettera, utile a comprendere come il ragazzo, pur non essendo un critico cinematografico, avesse compreso appieno il messaggio che voleva lanciare De Santis.

 

«Nei giovani si è diffusa una mentalità americana. Col denaro si fa tutto, si è liberi; non importa la sua provenienza. La fiacchezza morale, l’avidità la ricerca di facili guadagni portano larghi strati di giovani, non solo del ceto medio e borghese, a pensare che la soluzione della nostra situazione e dei nostri problemi non dipende da noi e dalla nostra lotta ma dagli altri ( apatia, politica, servilismo), dalla fortuna (totipismo) o da Dio (miracolismo).

Oggi la vita è difficile e molto dura; per mancanza di lavoro e per l’insicurezza del domani i giovani non hanno la possibilità di aiutare i genitori e di formarsi una famiglia. Per ciò, i giovani, dovrebbero essere i più accesi rivoluzionari e invece, specie nelle grandi città, lo sport come professione, i fumetti, il cinema americano, (a colori e non), la stampa borghese, la religione e il gesuitismo, il terrorismo religioso e poliziesco, esercitano, insieme alla crisi del dopoguerra e del sistema, una funzione oppiatrice su larghi strati di essi, e solo una parte cosciente lotta con le proprie forze per farsi un avvenire e per mutare la faccia del mondo.

Statistiche danno che la grande maggioranza delle donne e dei giovani legge romanzi a fumetti ( anche senza fumetti) e sogna principi azzurri e una vita facile che venga come manna. Silvana di Riso amaro impersonifica questo tipo di donna asociale e, col crollo dei suoi sogni, mostra, per contrapposto, che la vita è lotta e non dono. Se Leone dice corna di Riso amaro deve dire pure corna di Gioventù perduta che sostanzialmente gli è simile»[62].

             L’aspetto interessante delle polemiche sulla pellicola è che il dibattito si allargò acquisendo il valore di una riflessione più ampia sull’arte e la critica. Sempre sulle pagine di “Vie Nuove”, Carlo Muscetta interveniva per criticare aspramente Trombadori che era finito per cadere nell’estetica cattolica più reazionaria sostenendo che esistevano contenuti giusti e sbagliati per tutte le arti, cinema compreso. Richiamandosi a Gramsci, invitava ad «aderire esteticamente, cioè in modo distaccato, disinteressato e sereno, anche ad un mondo artistico che non susciti la nostra approvazione e la nostra partecipazione integrale e totale»[63]. Sulla stessa rivista, a distanza di pochi giorni, replicava Renato Guttuso[64], contrario all’apoliticità e apartiticità dell’arte. Richiamandosi a Lenin, Stalin, Zdanov e ai teorici dell’estetica marxista, Guttuso sosteneva esattamente il contrario:

 

 «è  quindi perfettamente giusto che il compagno Trombadori chieda al compagno De Santis, il quale per altro è un ottimo compagno e indubbiamente uno dei maggiori registi italiani, un maggiore rispetto del tema che ha scelto. In sostanza, non è mai stato vero che qualsiasi contenuto può diventare opera d’arte». 

Nella polemica interveniva anche Umberto Barbaro sostenendo che l’arte necessitava di quello che i sovietici chiamavano partinost, ossia spirito di partito[65]Vittorio Taviani interveniva sulla pellicola condannando la violenza troppo scoperta che cadeva in cattivo gusto[66]Se la critica di sinistra non fu morbida col compagno De Santis e se la critica di destra gridò allo scandalo,  era inevitabile che pesanti critiche provenissero anche dal mondo cattolico. Il giudizio morale del Centro Cattolico per la Cinematografia commentava: «il film che avrebbe forse avuto l’ambizione di tracciare un ampio quadro sociale, non è in realtà che il racconto di un fattaccio. Per quanto riguarda la realizzazione, tutto appare discontinuo: regia, recitazione, fotografia»[67].

            Il film veniva stroncato in pieno per le scene delittuose, per i costumi sessuali amorali e soprattutto per il finale del suicidio. Il suicidio di una contadina era troppo per la pruderie cattolica. Inoltre, vista la presenza di scene ed azioni condannabili per l’etica cattolica, se ne dava un giudizio moralmente negativo, sconsigliandone vivamente la visione. Per quanto concerne la censura, la pellicola non ebbe particolari problemi. Il film  ottenne il nulla osta n°5894 lo stesso giorno in cui fu presentato alla commissione il 22 agosto 1949. L’unico allegato presente nel fascicolo relativo alla censura contiene semplicemente una lettera del funzionario De Pirro nel quale si afferma che il film ha ottenuto il nulla osta e può quindi essere esportato come film straniero in lingua[68]Ciononostante, come raccontato da De Santis, qualche solerte censore si preoccupò di sforbiciare qualche minuto della scena in cui la Mangano e Doris Dowling si confidano le loro esperienze amorose; per fortuna la Cineteca nazionale è riuscita a recuperare le parti mancanti riportando il film alla sua lunghezza originale[69].

Il regista fu colpito e amareggiato dai tanti giudizi negativi soprattutto di compagni di partito e per questo decise di far vedere il film a Palmiro Togliatti. Al segretario del PCI il film piacque molto e  consolò De Santis in merito ai malumori relativi alla pellicola: «il nostro è un grande partito nazionale e popolare, perché dentro ci sono anche i cretini»[70]Nonostante il fuoco incrociato delle polemiche, Riso amaro riscosse un enorme successo di pubblico, incassò ben trecentocinquanta milioni di lire, una bella cifra per l’epoca e l’incasso del film in tutto il mondo superò tutti gli incassi dei film che erano fino allora stati prodotti in Italia nel dopoguerra. Certo non è possibile escludere il fatto che  molti  spettatori si recarono al cinema perché incuriositi e sedotti dalle forme della sensuale Mangano, ma di certo la polemica che circondò il film  tenne vivo l’interesse per questa pellicola. 

 Attualità di Riso amaro 

L’immagine più sensuale di Riso amaro, quella della Mangano che con le calze nere  si aggira come una Venere nelle risaie vercellesi, è entrata talmente profondamente nell’immaginario collettivo  che quando nel 1995 è stato girato uno spot pubblicitario per una nota marca di riso, i pubblicitari hanno deciso di reinterpretare il film a distanza di più di quarant’anni facendo vestire la modella, Luana Colussi, con la stessa mise, pantaloncini e calze nere, a suo tempo indossata dalla Mangano. Al di là di questa immagine ormai cristallizzata nella nostro immaginario, è però opportuno interrogarsi sul messaggio che oggi il film sia in grado di comunicare.

Riso amaro, come visto, suscitò una marea di polemiche quando fu diffuso nelle sale cinematografiche italiane; all’epoca non fu compresa e condivisa la raffigurazione delle debolezza e problematicità del mondo contadino, mondo che la propaganda ufficiale del partito comunista voleva vedere e rappresentare come sano e solidale. Sconcertava l’immagine di un femminile fuori dai canoni tradizionali e  ben lontano dalle logiche che volevano la donna emancipata da ricondurre pur sempre all’interno dell’istituto matrimoniale, come insostituibile educatrice dei figli.

La pellicola può essere considerata un prezioso documento, simbolico di uno specifico periodo storico nel momento in cui registrò anticipatamente il declino e l’inquietudine delle masse popolari contadine. La previsione marxista che lo sviluppo industriale avrebbe eliminato la classe contadina stava avverandosi nei paesi di industrializzazione massiccia quale l’Italia. Nonostante le utopie di sinistra, basti pensare a quella di Mao Tse-Tung, secondo cui per far trionfare la rivoluzione bisognava smobilitare le sconfinate masse contadine[71], di fatto nel dopoguerra, in tutto il mondo, milioni di contadini stavano abbandonando le campagne per trasferirsi in città. Di li a poco sarebbe venuta meno la secolare segregazione lavorativa nei campi e le donne avrebbero iniziato ad essere impiegate nelle fabbriche insieme agli uomini, se pur con compiti meno qualificati e meno retribuiti. Il film registra molto bene il processo che portò la nascente industria culturale a disgregare definitivamente il vecchio folklore e i riti locali inserendo le masse contadine nella nascente società dei consumi.

Riso Amaro con i suoi contesti di produzione e di diffusione può essere considerato una fonte storica non solo per venire a conoscenza della mentalità e del sentire sociale degli anni Cinquanta, ma anche per il fatto che documenta con successo il mondo delle mondine prima della sua scomparsa. Soprattutto può essere letto come un documento emblematico di  quel ripiegamento “egoistico” e di quell’abbandono della solidarietà di classe che caratterizzarono l’individualismo dei comportamenti nel processo di urbanizzazione ed industrializzazione della società italiana. 



[1] Giuseppe De Santis donò la documentazione relativa a Riso amaro al Museo del Cinema nazionale di Torino.

L’archivio del museo conserva numeroso materiale relativo al film:

1.                              il soggetto “Ti aspetterò sempre”, la prima idea di Riso amaro scritta da Gianni Puccini, Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani ( Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura GDS1., s.d.)

2.                               il trattamento cinematografico a cura di Corrado Alvaro, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini e Ivo Pirelli: primo tempo da scena 1 a scena 27 (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura GDS2., Roma e Vercelli, Natale 1947, Pasqua 1948) e secondo tempo, da scena 28 a scena 57 (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura  GDS3., Roma, Natale 1947)

3.                               la sceneggiatura del primo tempo da scena 1 a 18 (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura GDS4., s.d.)

4.                               la sceneggiatura del secondo tempo, da scena 15 a 48 (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura GDS5., s.d.)

5.                              la stesura definitiva della sceneggiatura, da scena 1 a scena 51, s.d. (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura GDS6., s.d.)

6.                               fascicolo con contratti e corrispondenza (Fondo De Santis, Riso amaro,  segnatura GDS7., 1947).

Purtroppo non è stato possibile visionare il materiale di questo fondo archivistico per le restrizioni di accesso (l’archivio è aperto solo il martedì mattina, su appuntamento) e per la necessità di recarsi più volte a Torino per effettuare l’esplorazione del fondo. Al momento, il mio studio su Riso amaro si è concentrato su altre fonti, quali  bibliografie e  rassegna stampa relativa al film. Le ricerche si sono svolte presso la Biblioteca Chiarini di Roma e presso la Cineteca di Bologna.Sfortunatamente alla Biblioteca Chiarini non è stato possibile visionare la sceneggiatura del film conservata nel Fondo De Santis (Fondo De Santis, Riso amaro, segnatura SCENEG 00 05437 ) perché irreperibile.

Spero e mi riservo, in occasione di una prossima ricerca,  di avere la possibilità di visionare il prezioso materiale custodito dal Museo Nazionale del Cinema di Torino.

[2] Giuseppe De Santis (Fondi, 11 febbraio 1917- Roma 16 maggio 1997) è stato uno sceneggiatore e regista italiano, considerato uno dei padri del neorealismo. Per una sua biografia cfr. S.MASI, Giuseppe De Santis, Il Castoro Cinema, Firenze, La Nuova Italia, 1981.

[3] Corrado Alvaro (San Luca, 1895-Roma 11 giugno 1956) è stato uno scrittore e giornalista italiano. Sul mito come fonte ispiratrice di Corrado Alvaro cfr. M. MIGNONE FAVA, Complessità di uno scrittore, Roma, Bulzoni Editore, 1986.

[4] Carlo Lizzani (Roma il 3 aprile del 1922- Roma 5 ottobre 2013) è stato un regista cinematografico, nonché noto critico e saggista. Per la sua attività si veda < http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-lizzani/>, u.c.  gennaio 2014.

[5] Carlo Musso (nato a Torino il 28 maggio 1911)  è un giornalista e scrittore, che ha svolto spesso attività di co-sceneggiatore. Per la sua attività e filmografia vedi < http://www.mymovies.it/biografia/?s=7318>.

[6] Ivo Perilli (  Roma 10 aprile 1902-  Roma 24 novembre 1994) è stato uno sceneggiatore, regista italiano. Sulla sua attività cfr. < http://it.wikipedia.org/wiki/Ivo_Perilli>, u.c. gennaio 2014.

[7] Gianni Puccini (Torino, 22 giugno 1914- Roma, 3 dicembre 1968) è stato un regista cinematografico, direttore della rivista “Cinema”. Cfr. <http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Puccini>, u.c. gennaio 2014.

[8] Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina (Roma, 19 gennaio 1915- Roma 12 marzo 1988) è stato un regista italiano. In merito alla sua prolifica attività cfr. <http://www.mymovies.it/biografia/?r=59>, u.c. gennaio 2014.

[9] Mario Monicelli (Viareggio, 16 maggio 1915- 29 novembre 2010) è stato un noto regista italiano. Cfr. il sito a lui dedicato <http://www.mariomonicelli.it/> , u.c. gennaio 2014.

[10] Federico Fellini (Rimini, 20 gennaio 1920- Roma, 31 ottobre 1993) è considerato uno dei più grandi cineasti della storia mondiale del cinema. Cfr. il sito ufficiale della Fondazione <http://www.federicofellini.it/>, u.c. gennaio 2014.

[11]Cfr. C. LIZZANI, Riso amaro, Roma,Officina Edizioni,  1978, p 9.

[12] Agostino De Laurentis, noto come Dino (Torre Annunziata, 8 agosto 1919- Beverly Hills, 10 novembre 2010) è stato un noto produttore cinematografico italiano. Per la sua biografia cfr.: <http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=987&biografia=Dino+De+Laurentiis>, u.c. gennaio 2014.

[13] Cfr. C. LIZZANI, op.cit., pp.17-23.

[14] G. DE SANTIS, «Persi il treno per Roma. Così nacque Riso amaro» in Paese Sera Cultura, 16 luglio 1981.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Sull’importanza di De Santis nella corrente del neorealismo si veda «Riso amaro oggi»in C. LIZZANI, Riso amaro, dalla scrittura alla regia, collana “Sopralluoghi”, Roma, Bulzoni Editore,  2009 pp.97-101.

[18] Raf Vallone aveva da poco realizzato un servizio fotografico e scritto sulle risaie. Abbandonò la carriera di giornalista per seguire De Santis nella sua attività cinematografica. Il regista lo volle come interprete di Riso amaro dopo averlo visto recitare a teatro nel Woyzeck di Georg Büchner. Cfr. intervista a Raf Vallone su “La Stampa”, 18 maggio 1997.

[19] Le riprese del film furono girate nelle risaie della Famiglia Agnelli che mise gratuitamente a disposizione le proprie tenute.

[20] Cfr. press book della Lux FilmLux film: ultime notizie: vi presentiamo il film Riso amaro (1949) di 13cc. conservato presso Biblioteca Chiarini, Fondo De Santis,  collocazione  5 01 006 17 17.

[21] Ibid., a c.2.

Davvero numerosi furono gli imprevisti durante le riprese: una tempesta di pioggia in pieno agosto obbligò gli interpreti a cambiarsi otto volte, in un’altra occasione  l’incendio di  cinque covoni di grano costrinse gli operatori a trasformarsi in pompieri.

[22] Il famoso fotoreporter Robert Capa, affermatosi grazie ai reportage sulla guerra di Spagna e sul fronte italiano nella seconda guerra mondiale, contribuì non poco con le sue fotografie, pubblicate dalle principali riviste cinematografiche americane, al successo internazionale del film.

[23] Del film Riso amaro è conservata pochissima documentazione archivistica nel Fondo De Santis della Biblioteca Chiarini di Roma, in particolar modo solo una sceneggiatura e qualche ritaglio di riviste; altro materiale è custodito nel Fondo De Santis del Museo Nazionale del Cinema di Torino e fu donato dal regista stesso al museo.

[24] Cfr. C. LIZZANI, Riso amaro, Roma, Officina Edizioni, 1978, pp.29-34.

[25] Cfr. C. LIZZANI, Riso amaro, Roma, Officina Edizioni,  1978, pp. 29-31.

[26] Ibid., p.32.

[27] Vittorini nei suoi interventi sulla rivista “Il Menabò” era critico nei confronti dei dialetti meridionali, legati ad una civiltà contadina arretrata, al contrario valorizzava i dialetti settentrionali, influenzati dalla nascente società industriale.

[28] M. GROSSI (a cura di), Giuseppe De Santis. La trasfigurazione della realtà, Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia, Associazione Giuseppe De Santis,  2007, p.66.

[29] Se non ci fosse stato il secondo incontro fortuito De Santis avrebbe finito per indirizzar la sua scelta nei confronti di  Lucia Bosè , da poco eletta Miss Italia. Su questo tema cfr. G. DE SANTIS,  «Così scoprii Silvana Mangano»,  in Paese sera Cultura, 18 luglio 1981.

[30] G. DE SANTIS, «Così scoprii Silvana Mangano» in Paese sera Cultura, 18 luglio 1981. 

[31] Per la lista delle sequenze cfr. C. LIZZANI, Riso amaro, Roma, Officina Edizioni, 1978. Le immagini sono state gentilmente concesse dall’Archivio Fotografico della Cineteca di Bologna.

[32] Ibidem.

[33] Intervista a Giuseppe De Santis in Memoria, mito, storia. La parola ai registi 37 interviste, a cura di A. AMADUCCI, collana “I quaderni del nuovo Spettatore”, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, 1994,p. 84.

[34] Cfr. C. LIZZANI, op. cit., pp. 43-44.

[35] Ibid., pp.44-45.

[36] Per la pubblicazione della sceneggiatura si confronti la trascrizione effettuata in C. LIZZANI, op. cit.

[37] Cfr. A. GOBBI,  «Come abbiamo lavorato per Riso amaro», in Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica, anno 1949, II, n.8, pp.243-245.

[38] A.PARISI, Il cinema di Giuseppe De Santis, fra passione ed ideologia, Roma, Cadmo Editore, 1983, p.53.

[39] Ibid., pp.47-49.

[40] Ibid., p.78.

[41] Sulla rivoluzione femminile cfr. O. BERGAMINI, Storia degli Stati Uniti, Bari, Laterza, 2002, pp. 200-205.

[42] Su questa tematica cfr. G. ASCOLI,  La questione femminile in Italia dal ‘900 ad oggi, collana “Quaderni di problemi del socialismo”, Milano, Franco Angeli Editore, 1977.

[43] Ibid., p.56.

[44] Sulle politiche demografiche del fascismo si veda M. LIVI BACCI, Donne, fecondità e figli, Bologna, Il Mulino, 1980.

[45] Cfr. A. FARASSINO, Giuseppe De Santis, Milano, Moizzi Editore, 1978, pp.54-55.

È curioso il fatto che lo stesso film ebbe una riduzione in fotoromanzo, Riso amaro apparve a puntate su Noi donne e in trama illustrata su Novellefilm.

[46] Cfr. C. LIZZANI, op.cit., pp.27-28.

[47] Sulla storia del femminismo in Italia cfr. La questione femminile in Italia dal ‘900 ad oggi, a cura di G. ASCOLI, Milano, Franco Angeli Editore, 1977.

[48] Cfr. Trascrizione dell’intervista di Guido Michelone a Giuseppe De Santis nel 1996, <http://www.storiamarche900.it/uploads/File/Riso%20amaro.pdf> , u.c. gennaio 2014.

[49] Cfr. E. MORIN, L’industria culturale, Bologna, Il Mulino, 1963, p.113.

[50] Cfr. A. FARASSINO, op.cit., p. 66.

[51] In particolar modo la stampa francese paragonerà Silvana Mangano alla Rita Hayworth di Gilda (film del 1946 diretto da Charles Vidor) e alla Marléne Dietrich dell’Angelo azzurro (film del 1930 diretto da Joseph von Sternberg).

[52] G. DE SANTIS, «Che cosa pensano del pubblico», in Cinema, V, 78, gennaio 1952, p.7.

[53] Cfr. Il cinema di De Santis,  a cura di V. CAMERINO, collana “Il prisma”, Lecce, Elle Edizioni, 1982, p. 152. In particolar modo sull’arte populista di De Santis si veda il saggio di A. MARTINI e M. MELANI «De Santis» in Il neorealismo cinematografico italiano,  a cura di L. MICCICHÈ, Venezia, Marsilio Editore, 1975.

[54] Cfr. Giuseppe De Santis, a cura di S. MASI, collana “ Il Castoro Cinema”, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp.48-50

[55] Cfr. A. PARISI, op. cit., pp. 94-95.

[56] Riso amaro era uno dei film candidati all’Oscar.

[57] Cfr. A. FARASSINO, op.cit., pp.25-26.

[58] Cfr U. CASIRAGHI, «Grande successo di Riso amaro», in l’Unità, 9 settembre 1949.

[59] Cfr A. TROMBADORI, «Riso amaro di De Santis e il problema della realtà nell’arte», in Vie Nuove, 25 settembre 1949.

[60] Cfr. «Le prime al cinema “Riso amaro”» in Avanti, 1 ottobre 1949.

[61] F. LEONE, «Pro e contro “Riso amaro”»,  in L’Unità, 8 ottobre 1949, (cronaca di Milano).

[62] Cfr. Riso amaro. Nel fuoco delle polemiche, a cura di M. GROSSI e V. PALAZZO, «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», n. 3, Fondi, 2003. Gioventù perduta (1947) di Pietro Germi è un poliziesco che ripercorre, nella Roma del dopoguerra, le vicende di una banda di giovani rapinatori.

[63] C. MUSCETTA, «L’arte e la critica»in Vie Nuove, 9 ottobre 1949.

[64] Renato Guttuso era stato incaricato di realizzare la brochure di Riso amaro, il pittore realizzò una serie di seducenti goauches reinterpretando le mondine delle risaie con colori accesi quali il rosso, il giallo e il verde. Le immagini non furono dipinte a Vercelli dove l’autore non si recò mai, ma nel suo studio romano tenendo come modelli le foto in bianco e nero del servizio di Robert Capa.

[65] U. BARBARO, «L’Arte di tendenze», in Vie Nuove, 23 ottobre 1949.

[66] V. TAVIANI, «Riso amaro», in Hollywood, anno v, n. 219, 26 novembre 1949.

[67] Cfr. Fondo Taddei conservato presso la Cineteca di Bologna.  Il Fondo di Padre Nazareno Taddei  è una delle collezioni di documentazione cinematografica più ricche in Italia. Padre Nazareno Taddei ( Bardi 1920- Sarzana 2006) nel corso della sua attività di studioso e regista ha  raccolto un giacimento di informazioni su carta stampata  sulla storia del cinema e dello spettacolo dagli anni Trenta a Settanta. (Il Fondo è composto da uno schedario di circa 40000 voci). Sull’Archivio di Padre Nazareno Taddei  cfr. <http://www.cinetecadibologna.it/biblioteca/patrimonioarchivistico/taddei>, u.c. gennaio 2013.

[68] Cfr. Italia Taglia, progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia,
promosso da MiBAC (DGC) e Fondazione Cineteca di Bologna
,< www.italiataglia.it>, u.c. gennaio 2014.

[69] Riso amaro. Nel fuoco delle polemiche, a cura di M. GROSSI, op. cit., p.78.

[70] Ibid., p.15.

[71] Su questo tema cfr. E. HOBSBAWN, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 2000.

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