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Domenica, 17 Marzo 2013

Storia, conservazione e restauro dei materiali d'archivio. 3. La fotografia

Emanuele Atzori, Chiara Senfett
Sezione Studi

Si pubblica il testo di un articolo apparso su: Notiziario CNEC. Mensile del Centro Nazionale Economi di Comunità, n. 3, marzo 2013, pp. 16-18; che costituisce la terza tappa del viaggio attraverso i diversi materiali d'archivio.

 

Sviluppata nel corso del XIX secolo[1], la produzione di una fotografia è frutto dell’interazione della luce con i sali d’argento, sostanze fotosensibili, che entrano in contatto con essa, si anneriscono e producono un’immagine.

In generale, lo strato fotosensibile è appoggiato su un supporto primario che può essere: metallico (rame per i dagherrotipi, ferro per i ferrotipi), vitreo (negativi su lastra di vetro), plastico (negativi su pellicole flessibili in nitrato di cellulosa, in acetato e in poliestere) e cartaceo.

I procedimenti fotografici possono dividersi in due gruppi: quelli metallici e quelli non metallici. I primi si avvalgono dei composti metallici che sono sensibili alla luce; gli altri, invece, utilizzano dei pigmenti minerali (come il carbone e le terre) che, associati a sostanze organiche (gelatina o gomma), in presenza del bicromato di potassio, divengono insolubili dopo l’esposizione alla luce.

Entrambi i procedimenti permettono la formazione di un negativo fotografico da cui si ottiene la stampa di un positivo tramite un processo di inversione. Questa operazione consiste nel trasportare l’immagine negativa su un supporto fotografico (sensibilizzato) in cui, le parti chiare e scure risulteranno invertite di tono, grazie al passaggio di luce attraverso il negativo che consentirà l’annerimento delle zone corrispondenti ai chiari.

Una metodologia di stampa è quella per contatto: il negativo trasparente è appoggiato alla superficie di stampa e sottoposto ad una fonte luminosa che riproduce l’immagine originaria invertita di toni sul supporto sottostante; questa tecnica consente di ottenere solo positivi di formato uguale al negativo (fig. 1).

Un altro metodo è quello della stampa per ingrandimento (detta anche per proiezione). Al contrario della precedente tecnica, l’immagine può essere ingrandita considerevolmente rispetto alle misure del negativo fotografico per mezzo di un ingranditore uno strumento costituito da tre elementi: testa, colonna di supporto e base (fig. 2).

La testa[2] è la parte dove si colloca la lampada e il supporto, un porta negativi dove è alloggiato il negativo da esporre e, infine un obiettivo che consente di proiettare l’immagine sul supporto fotografico. La colonna di supporto permette di regolare l’altezza della testa per un minore o maggiore ingrandimento dell’immagine. La base è invece il piano d’appoggio dello strumento dove si pone il supporto fotografico sensibile.

Deterioramento

Per quel che concerne l’alterazione delle fotografie è opportuno sottolineare che la loro struttura è formata da più materiali, ognuno incline a diversi tipi di alterazione.

Osservare lo stato di conservazione del materiale fotografico significa analizzare i supporti (rame, ferro, vetro, carta, ecc.); ma anche conoscere le tecniche e le sostanze impiegate nei processi fotografici per essere consapevoli degli effetti da essi prodotti. Ad esempio, in alcune tecniche fotografiche si utilizzava l’albume d’uovo (da cui il nome di albumine), il quale contiene zolfo, responsabile di reazioni acide (fig. 3). Altre tecniche prevedono l’utilizzo del collodio, che è suscettibile al degrado chimico e fisico. In altre ancora, troviamo la gelatina, che presenta diversi problemi in condizioni di alta umidità (fig. 4), ecc.

In tale contesto è fondamentale tenere sotto controllo le sostanze sensibili che originano la fotografia[3]. In presenza di luce, ad esempio, i composti d’argento residui possono annerire fino a far scomparire del tutto i particolari dell’immagine[4] (fig. 5). L’argento metallico è contenuto nella maggior parte delle fotografie sotto forma di particelle più o meno piccole. Tale grandezza influisce non solo sulle caratteristiche dell’immagine fotografica finale ma anche sulla sua stabilità. Essa è infatti legata particolarmente alla struttura della fotografia, alla sua dimensione, densità e distribuzione.
 
Tra le alterazioni causate dall’interazione della luce con la fotografia la più comune è l’ingiallimento. Questo fenomeno è tipico delle albumine che con il passare del tempo perdono sempre più i toni del colore[5] (fig. 6).

L’inquinamento è un ulteriore fonte di degrado capace di procurare fenomeni di ossidazione[6] e solfurazione[7].

Danni notevoli sono costituiti dai supporti e dagli adesivi su cui sono montate le fotografie. I cartoni su cui esse aderiscono sono responsabili di reazioni di deterioramento prodotte dalla lignina in essi contenuta che contribuisce a provocare l’ingiallimento e lo sbiadimento dell’immagine[8].

Inoltre sia il legante all’albume[9] che quello al collodio invecchiando induriscono, diminuendo la flessibilità della fotografia[10].

Un’altra alterazione è il formarsi di macchie puntiformi di color giallo, soprattutto nelle stampe con supporto costituito da gelatina, derivante da trattamenti errati messi in atto durante lo sviluppo agli inizi del ‘900.

La maggior parte dei danni arrecati alle fotografie è comunque imputabile all’uso (fig. 7).

Tra i danni più comuni possono essere menzionati:

  1. la lacerazione;
  2. la piegatura dei supporti di carta sottile;
  3. i graffi le abrasioni;
  4. il trasferimento sulla fotografia delle sostanze grasse presenti sulla pelle delle dita[11].

Modalità di consultazione

Come accennato i principali danni alle fotografie derivano dalla loro fruizione. A questo proposito ecco i principali accorgimenti che dovrebbero essere adottati negli archivi nel far accedere gli studiosi alla consultazione di questo materiale:

  1. sostituire gli originali con delle copie (per esempio tramite digitalizzazione del materiale fotografico);
  2. indossare guanti di cotone;
  3. la superficie di consultazione deve essere sgombra e perfettamente pulita;
  4. durante la consultazione devono essere utilizzate esclusivamente matite per prendere appunti;
  5. la manipolazione dell’immagine deve avvenire o tramite l’impiego di un supporto rigido o, al limite, utilizzando entrambe le mani;
  6. durante la consultazione non utilizzare penne, nastri adesivi e qualunque oggetto che possa macchiare o graffiare l’immagine fotografica;

Modalità di conservazione

Per quel che concerne la conservazione fisica è bene utilizzare materiali specifici che devono superare il Photographic Activity Test (PAT). Si tratta di un procedimento volto ad analizzare gli effetti che determinati materiali impiegati per la conserazione hanno sulle fotografie. È dunque auspicabile l’acquisto di materiale che presenti la certificazione di superamento del PAT.

I contenitori per le fotografie possono essere cartacei o in plastica. I primi devono essere costituiti da carta o cartone in pura cellulosa e a pH neutro. Mentre per i secondi deve essere utilizzata plastica satinata (non lucida) e, laddove le condizioni ambientali presentino una certa stabilità, è possibile utilizzare anche il poliestere[12].

La conservazione deve essere attuata per tipologia di materiale, distinguendo quindi tra i diversi supporti (vetro, carta, ecc.).

Per quel che concerne gli ambienti di conservazione possiamo dire che devono presentare generalmente livelli di temperatura e umidità relativa piuttosto bassi e costantemente monitorati. Inoltre bisognerebbe sempre verificare l’esposizione alla luce (sia artificiale che solare), agli agenti atmosferici e/o inquinanti.

In ogni caso, date le differenti tecniche di sviluppo del materiale fotografico, la varietà dei prodotti chimici riscontrabili e i diversi materiali di supporto per la corretta conservazione e l’eventuale restauro è imprescindibile il ricorso a personale specializzato nel trattamento e restauro del materiale fotografico.


[1] Un’introduzione storica della fotografia e delle sue differenti tipologie è ovviamente impossibile in questa sede. Tuttavia, per chi fosse interessato si suggeriscono i seguenti volumi: B. NEWHALL, Storia della fotografia, Torino 2007; J.-A. Keim, Breve storia della fotografia, Torino 1981.

[2] Esistono tre tipi di testa per ingranditore: un modello a condensatore e due a diffusione. Nel primo la luce, fornita da una lampada ad incandescenza, passa attraverso delle lenti condensatrici che sono collocate sopra il negativo. I raggi di luce passano attraverso il negativo e, attraverso l’obiettivo, proiettano l'immagine sul supporto di stampa. Affinchè il raggio luminoso si diffonda uniformemente occorre che le due lenti siano allineate. Diversamente, negli ingranditori a diffusione, la luce passa attraverso un vetro smerigliato (di diffusione), che la distribuisce nello stesso modo in tutte le direzioni, cfr. A.A. Blaker, Fotografia, arte e tecnica, Bologna 1993, p. 286.

[3] I.L. Moor - A. Moor, Physical conservation and restoration of photographs, in «Paper conservator», v. 12, 1988, pp. 86;

[4] Questo effetto è riscontrabile nel materiale in cui il fissaggio e il lavaggio non sono stati effettuati correttamente, cfr. L. Residori, Le fotografie in bianco e nero, in «Le scienze applicate nella salvaguardia e nella riproduzione degli archivi», Roma 1989, pp. 149-171.

[5] D. Matè - L. Residori, Il deterioramento e la conservazione delle fotografie, in «Memoria e futuro dei documenti in carta. Preservare per conservare», Udine 2002, pp.266-281.

[6] L’ossidazione è il processo per cui i sali d’argento contenuti nella fotografia si deteriorano dando luogo a fenomeni di sbiadimento, variazione tonale e perdita di dettagli. L’ossidazione colpisce spesso le parti più chiare dell’immagine dove le particelle metalliche sono più piccole ed instabili, cfr. S. Berselli - L. Gasparini, L’archivio fotografico: manuale per la conservazione e la gestione della fotografia antica e moderna, Bologna 2000, p. 68.

[7] Tale fenomeno è dovuto prevalentemente ad una sostanza utilizzata nel fissaggio: l’iposolfito di sodio. Questa sostanza è impiegata per arrestare il processo di annerimento dei sali d’argento ma, se non eliminata correttamente durante il lavaggio, o usata in una concentrazione sbagliata, essa può rilasciare zolfo. Tale elemento attacca la fotografia ingiallendola ed appiattendo i toni intermedi e le parti più scure,  cfr. S. Berselli - L. Gasparini, L’archivio fotografico, cit., p. 67.

[8] D. Matè - L. Residori, Il deterioramento e la conservazione delle fotografie , cit., pp. 266-267. Cfr. E. Atzori - C. Senfett, «Storia, conservazione e restauro dei materiali d’archivio. 1. La carta» in Notiziario CNEC. Mensile del Centro Nazionale Economi di Comunità, n. 8, novembre 2012, pp. 20-25, n. 17.

[9] Tale collante si otteneva mescolando il bianco d’uovo sbattuto a neve insieme allo ioduro di potassio ed al cloruro di sodio. La sostanza ricavata era lasciata riposare fino a risultare un liquido chiaro che, dopo essere stato filtrato e versato sul supporto era lasciato asciugare.

[10] L. Residori, Le fotografie in bianco e nero, cit., p. 164.

[11] L. Residori, Le fotografie in bianco e nero, cit., p. 163.

[12] Per quanto riguarda le stampe e i negativi con superfici delicate è tuttavia auspicabile di non utilizzare contenitori in plastica o poliestere.

 

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