Lunedì, 19 Maggio 2014

Un amore Capitale. Salvatore Fornari e Roma

Silvia Haia Antonucci
Sezione Scaffale

La II edizione del Segnalibro, iniziativa promossa dall’Associazione culturale Progetto Arkés e fortemente sostenuta dalla Banca Popolare del Frusinate – evento organizzato in collaborazione con il Dipartimento Beni ed Attività Culturali e l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, il Museo Ebraico di Roma, il Centro di Cultura Ebraica, l’Associazione Daniela Di Castro, con il patrocinio di Roma Capitale, Provincia di Roma e Regione Lazio – è stata assegnata a Silvia Haia Antonucci autrice del volume: Un amore Capitale. Salvatore Fornari e Roma. Edita dalla Esedra, l’opera è stata inserita nella collana di studi ebraici Toledot.

La cerimonia di premiazione avverrà a Roma, presso il Museo ebraico, il 29 maggio p.v. alle ore 17,30 e vede la partecipazione delle più alte autorità della Comunità ebraica, dei rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali. In calce il comunicato stampa in pdf e a seguire la Premessa, la Presentazione, la Prefazione e l'Introduzione del volume.

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Premessa di Rita Padovano[1]

Solo di recente la fotografia è stata ritenuta parte integrante dei beni culturali e dunque soggetto a tutela e salvaguardia da parte delle Istituzioni.

A limitare tale riconoscimento hanno contribuito due aspetti: uno riguarda la riproducibilità del bene, da un’unica matrice si possono infatti creare numerose riproduzioni, l’altro è legato all’utilizzo che in ambito culturale si è fatto della foto il cui uso ha spesso avuto in passato, come prima destinazione, raccolte o istituzioni legate alla grafica. Il riconoscimento dell'importanza delle fotografie storiche nell’ambito della ricerca è dunque tardivo. Bisogna arrivare alla metà degli anni settanta del XX sec. per riscontare un diverso atteggiamento e procedere alla loro conservazione e  restauro.

Sconta questa difficoltà la giusta valutazione dell’opera di Salvatore Fornari.

Un collezionista dedito alla fotografia ed alla custodia di molti oggetti e preziosi oggi conservati nel Museo della Comunità ebraica di Roma, di cui è stato uno dei fondatori e direttore per due decenni. Appassionato di arte e scrupoloso nel lavoro a Lui dobbiamo gratitudine per aver concorso alla conoscenza della Comunità più antica d’Occidente che, sebbene presente nella città di Roma da più di ventidue secoli, resta ancora poco se non misconosciuta ai più.

Personalità eclettica e versatile, custode della memoria di uno dei popoli più antichi al mondo, Salvatore Fornari, lascia agli studiosi un ricco patrimonio di documenti, mappe e un consistente Fondo fotografico le cui immagini raccontano la storia della trasformazione urbanistica di Roma divenuta capitale della nazione unita mettendo in evidenza il legame profondo che lo univa a questa città.

Con questa pubblicazione si vuole evitare di disperdere il valore del suo impegno e dare il giusto riconoscimento ad un lavoro di pregio realizzato da Silvia Haia Antonucci, responsabile dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica (ASCER). Di grande rilievo sono le testimonianze raccolte dall’autrice, veri e propri crogiuoli da cui affiora capacità e talento  di una persona straordinariamente aperta alle istanze del suo tempo.

Oggi quel patrimonio artistico è parte importante delle ricchezze culturali del nostro Paese.

Presentazione di Claudio Procaccia[2]

Quello di Silvia Haia Antonucci è un importante lavoro di riscoperta della figura di Salvatore Fornari, il primo direttore del Museo ebraico di Roma.

Il figlio, Alberto, ha donato alla Comunità della capitale l’archivio del padre, composto da documenti ed immagini relativi prevalentemente alla storia del ghetto dell’Urbe.

S. H. Antonucci, nell’anno accademico 2010-2011, ha ottenuto la laurea Magistrale in Storia dell’Arte (Università di Roma La Sapienza, cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea), grazie alla tesi imperniata sulla vita e l’opera di Fornari, cogliendo l’occasione per riordinare il suddetto archivio.

In seguito, Rita Padovano, in occasione del decennale della costituzione dell’Associazione Culturale Progetto Arkés, ha deciso di pubblicare la ricerca che ho il piacere di presentare.

Il lavoro di raccolta di immagini effettuata da Salvatore Fornari e la valorizzazione del patrimonio culturale ed artistico della comunità ebraica capitolina, in qualità di Direttore del Museo ebraico, sono state attività sino ad ora non sufficientemente celebrate.

Pertanto, l’autrice del testo in oggetto ha operato in modo meritorio per colmare questa lacuna e il suo lavoro fornisce agli studiosi spunti interessanti per l’analisi delle vicende della collettività ebraica romana, della storia dei suoi istituti cultuali e di come si sia trasformato il territorio in cui il gruppo cultuale ebraico ha vissuto per secoli.

Non va dimenticato che la Comunità ebraica di Roma da anni provvede alla valorizzazione di tale patrimonio che ebbe inizio proprio con la creazione del Museo ebraico (1960), a cui fece seguito quello del Centro di Cultura (1973), con annessa biblioteca, e di un Archivio Storico aperto al pubblico (1997), nonché di una libreria specializzata in testi relativi alla storia ed alla cultura ebraica (2009).

Nel 2010 è stato costituito il Dipartimento per i Beni e le Attività Culturali per il coordinamento di tutti i suddetti servizi.

Il passaggio del Museo ebraico nei sotterranei della CER ha prodotto la crescita dei visitatori da circa 30.000 del 2005 ai circa 90.000 odierni.

Dal 2001, il riordino ed il restauro della documentazione dell’archivio è avvenuto anche attraverso il reperimento di fondi pubblici e privati, così come la pubblicazione di ricerche sulla storia della comunità capitolina, la creazione di mostre ed eventi culturali di grande richiamo, grazie all’attività del Centro di Cultura.

Tutto ciò è stato possibile grazie al lavoro di molte persone che si sono dedicate alla loro attività con passione e competenza nel corso degli ultimi cinquant’anni.

In tal senso, l’opera pionieristica di Salvatore Fornari è stata difficile quanto fondamentale.

Prefazione di Antonella Sbrilli[3]

Le immagini del Fondo Fornari fra archivi, arte, memoria

Uno dei tratti dell'arte del Novecento – tratto che peraltro permane anche nel nuovo secolo – è la tendenza, da parte degli artisti, a fare dell'archivio un soggetto e una fonte di ispirazione, trasformando la cultura – e a volte l'ansia – della conservazione e della catalogazione in materia prima, metodo e tecnica della creatività contemporanea. Dall'inizio del XX secolo a oggi, valige, scatole, capsule-del-tempo, schedari, dossier, tabelle, classificatori popolano gli studi di artisti e artiste e le loro opere, che spesso si presentano proprio come installazioni pensate in forma di museo o di archivio, imbastendo così un dialogo fra conservazione e uso inventivo della memoria, a sua volta riusabile dagli spettatori. Alla fine degli anni Novanta una mostra itinerante fra l'Europa e gli Stati Uniti, dal titolo Deep Storage. Collecting, Storing, and Archiving in Art (1998), presentò una ricca selezione di esperienze artistiche che avevano un profondo, strutturale rapporto con l'archiviazione, segnando una direzione precisa della ricerca. Una direzione percorsa anche negli studi sociologici e culturali coevi – basti solo fare il nome di Aleida Assmann –, con speciale attenzione ai nuclei di memoria legati all'Olocausto, alle persecuzioni e agli stermini avvenuti nel “secolo breve”.

Quando Silvia Haia Antonucci mi propose, per la sua tesi di laurea Magistrale alla Sapienza, il tema della collezione di Salvatore Fornari, pur non essendo un argomento di storia dell'arte contemporanea in senso stretto, lo accettai ben volentieri, in primo luogo perché i documenti soprattutto fotografici conservati in essa, portati alla luce e accuratamente commentati dall'autrice, sarebbero stati una fonte primaria (nella scia delle collezioni di Roesler Franz e di Primoli) per le ricerche di storici, di romanisti, di studiosi di architettura e urbanistica, di storici dell'arte e dell'immagine. E poi perché la figura di Fornari si presentava come protagonista di una tendenza che andava oltre il valore intrinseco della sua preziosa collezione: raccoglitore e ordinatore di memorie, direttore di museo, curatore di mostre e iniziative culturali, scrittore, poeta romanesco, amico di intellettuali e di artisti, fra cui emerge la pittrice Eva Fischer, autrice di opere nel Museo della Comunità ebraica di Roma.
Anche se, con l'ironia e l'understatement che lo distinsero, Fornari non avrebbe mai pensato che la sua incessante attività potesse avere a che fare con future mostre o rassegne di arte contemporanea, è anche grazie a raccolte come la sua, in cui testimonianze di natura diversa – materiali e immateriali, personali e collettive, originali e riprodotte, preziose e di scarto – vengono accostate e messe in risonanza, è anche grazie a ciò che si è radicata una sensibilità verso la memoria e la collezione come elementi essenziali dell'identità contemporanea, diffusi anche fuori del campo tecnico della conservazione.

Nell'indagine del Fondo Fornari e nella ricostruzione di una personalità ricca e sfaccettata come quella del suo autore, Silvia Haia Antonucci ha dedicato grande spazio al tema delle fotografie dell'ex ghetto e delle zone limitrofe, testimoni di decenni cruciali di storia romana. La raccolta e l'ordinamento di queste foto è infatti uno dei fulcri dell'attività del “collezionista di immagini” Salvatore Fornari, dove si riverbera il suo metodo e si trasmette la sua eredità. Il rinvenimento e la scelta delle immagini fotografiche, la cura nel riconoscere i luoghi, le situazioni, i dettagli, lo scrupolo nella compilazione delle didascalie, rendono tangibile la sua volontà di dare a chi viene dopo, le chiavi per riconoscere ciò che è stato prima, nella sua forma visibile e nel contesto in cui si è trasformato. Ogni fotografia è messa in prospettiva storica e osservata nella sua epoca e in rapporto alle precedenti e alle successive, come un familiare nel suo albero genealogico.

Mettendo a confronto le informazioni biografiche su Fornari, reperite tramite vivide interviste, con la storia delle sue raccolte, e soprattutto comparando i temi della collezione fotografica con il corpus di poesie di Fornari – che parlano di fontane, cupole, vicoli, piazze, tradizioni, eventi storici e quotidiani del ghetto – la ricerca qui pubblicata fa emergere anche il carattere diaristico della collezione stessa, un diario scritto con i documenti raccolti, con le relazioni intercorse, con l'andirivieni fra passato e presente, fra ricordi di famiglia e impegni istituzionali, fra indagine storica e rievocazione poetica.

Del resto, il piglio narrativo di Fornari, pacato e preciso, si rintraccia ovunque nei suoi numerosi scritti, fra cui quelli per il volume La Roma del ghetto (1984), in cui sembra accompagnare il lettore in una passeggiata nel tempo. E una passeggiata spazio-temporale si incontra anche in Il ghetto come in un film, presentato nel primo capitolo.
È dalla tessitura di questi elementi – e di molti altri che Silvia Haia Antonucci ha rintracciato e composto – che Salvatori Fornari emerge come collezionista moderno e a tutto tondo, interessato a qualunque testimonianza ricomponga l'insieme che gli sta a cuore – la storia umana e culturale del ghetto di Roma –, di cui le immagini sono l'interfaccia da interrogare per entrare nel tempo.

Introduzione di Anna Foa[4]

Orafo e argentiere, collezionista di fotografie e documenti e osservatore attento e curioso della vita e della cultura degli ebrei romani, Salvatore Fornari è stato un personaggio di spicco del mondo ebraico romano del Novecento. Nasce proprio all’inizio del secolo, nel 1900, e muore nel 1993, percorrendolo così quasi nella sua interezza. Nel 1960 fu tra i fondatori del Museo ebraico di Roma, a cui continuò a prestare la sua opera a lungo. Alla Comunità ebraica di Roma suo figlio Alberto ha donato il fondo fotografico e documentario da lui raccolto. Un fondo che consente oggi allo studioso di accedere a visioni ed immagini della Roma ebraica ormai perdute e che nel 1984 è stato all’origine di uno splendido volume da lui curato, ormai purtroppo quasi introvabile, La Roma del ghetto, pubblicato dall’editore Palombi.

Questo fondo, insieme alla figura del collezionista che lo ha raccolto, sono l’oggetto del volume di Silvia Haia Antonucci, ora responsabile dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica e fra gli studiosi che stanno curando il riordino dell’archivio. Un volume che nasce quindi dalla frequentazione intensa dei fondi che descrive e dall’amore altrettanto intenso con cui scruta la figura tanto straordinaria e fuori dal comune di Salvatore Fornari. Per scriverlo, l’autrice non ha infatti soltanto messo a frutto il suo lavoro di archivista, ma ha unito alle ricerche d’archivio l’ascolto dei testimoni, facendo parlare coloro che lo hanno conosciuto, facendo colmare al figlio Alberto, in un lungo racconto, le lacune che presentava la storia della sua vita, così come emergeva dai documenti. Da questa mescolanza di diversi fonti e di diversi approcci la figura di Fornari e il mondo intorno a lui prendono vita e vigore.

Gli anni a cui egli guardava e che l’autrice colloca al centro della sua attenzione in questo studio sono quelli che iniziano con l’apertura del ghetto, quelli cioè dell’emancipazione degli ebrei di Roma. Un’emancipazione avvenuta, come sappiamo, con l’assunzione di Roma a capitale del giovane regno italiano e la fine del potere temporale dei papi, dopo oltre tre secoli di chiusura nel ghetto. Che non fosse un periodo facile, quello, per gli ebrei romani, lo sappiamo. Era quello dello sventramento del vecchio ghetto, della costruzione del nuovo Tempio, inaugurato nel 1904, quando Salvatore Fornari era un bambino. La sua famiglia abitava in una casa posta in via Portico d’Ottavia, dopo il portico, proprio di fronte ai giardini del Tempio, la stessa in cui era nato il poeta Crescenzo Del Monte, autore di sonetti in giudaico-romanesco sul mondo ebraico romano. Di questa demolizione del vecchio ghetto, che era al tempo stesso per gli ebrei romani un momento di rinascita, dopo la chiusura secolare, e una ferita inferta dalla perdita delle case, delle antiche sinagoghe, della vita collettiva, Fornari ricostruisce la memoria con nostalgia e rimpianto. Le foto che raccoglie, quelle scattate da Ettore Roesler Franz prima della demolizione del ghetto, mentre ne dipingeva l’immagine nei suoi straordinari acquerelli, e poi quelle scattate dal conte Primoli, solo una decina di anni dopo ma quando già la demolizione del quartiere si stava compiendo, ben documentano questa sua nostalgia del mondo scomparso. Da lì, da questo materiale amorosamente ritrovato (e anche salvato, dal momento che le lastre fotografiche, conservate a Palazzo Braschi, erano in condizioni pessime) abbiamo le uniche testimonianze visive di quel mondo perduto. Le foto sono ora tutte nell’Archivio, in quel fondo Fornari da lui con grande pazienza costruito ed ordinato, che ripercorre strada per strada l’antico ghetto, riportandolo in vita. Oltre alle immagini un suo scritto del 1977, conservato nell’Archivio della Comunità, ci accompagna in questo viaggio nostalgico nelle vie del vecchio ghetto, Il ghetto come in un film. La “Piazza” degli ebrei romani ne emerge vivida, con i sapori dei cibi, le osterie, le case, i soprannomi, i legami di famiglia. E nelle sue parole sembra quasi di gustare lo stracotto e i rigatoni al sugo di Zi Speranza.

Di modesta famiglia, suo padre aveva un bancarella di argenteria in piazza della Pollarola, Salvatore Fornari giunse, prima della guerra, ad avere tre negozi di argenteria a Roma, in via Frattina, in via Condotti e in via della Scrofa, due dei quali perduti in seguito alle leggi del 1938. Nel 1939 anch’egli emigrò con la famiglia negli Stati Uniti, passando da Cuba dove attese il visto d’entrata. A New York, Salvatore visse fino al 1950, dapprima aprendo un negozio di cioccolata, poi facendo il rappresentante di gioielli, infine aprendo un negozio di bigiotteria. Nel complesso, la famiglia se la cavava bene. Salvatore lavorava molto duramente, ed era abilissimo nel commercio, anche se gli oggetti che prediligeva erano gli argenti. Tornato in Italia nel 1950, riaprì il negozio di via Frattina. Iniziava in quegli anni anche la sua opera di collezionista di argenti e di documenti, mappe, fotografie.

Avvincente la testimonianza raccolta dalla Antonucci della torinese Bice Migliau, che dopo essersi trasferita a Roma fu dal 1973 in poi la prima direttrice del Centro di Cultura. Migliau racconta degli anni Sessanta, anni che potremmo definire pionieristici, quando ancora non vi era in Comunità quasi nessun interesse per iniziative culturali o musei, e in cui Bice Migliau, Fornari e Emanuele Pacifici riuscirono a mettere in pedi iniziative di grande rilievo, come la mostra Il ghetto di Roma del 1978. Fornari fu per vent’anni il direttore del Museo ebraico di Roma, sostituito poi da Anna Blayer, anche lei un’importante figura della cultura ebraica romana, presente in questo libro solo attraverso una breve testimonianza resa a Silvia Antonucci nel 2013, poco prima della morte. A partire dagli anni Settanta il Museo cominciava una collaborazione destinata a divenire intensa con la Sovrintendenza alle Belle Arti e con le istituzioni. Le iniziative della comunità ebraica iniziavano ad avere risonanza nella città. Sembra quasi impossibile, guardando all’oggi, alle mostre e alle continue iniziative che si susseguono, immaginare che allora tutto fosse così difficile e che tanto scarso fosse, sia tra gli ebrei che tra i non ebrei, l’interesse per la cultura ebraica

Sia Emanuele Pacifici che Salvatore Fornari si mossero da collezionisti e da curiosi, non da studiosi di professione. Più “integrato” il percorso di Bice Migliau, storica e studiosa lei stessa degli ebrei romani del Cinquecento. Vengono da porsi ancora molte domande sul ruolo di quella figura del “collezionista” tanto studiata nel Novecento – pensiamo a Benjamin – sull’importanza delle collezioni private tanto in campo artistico che storico, su questi percorsi anomali, fuori dal mondo accademico, che pure tanto hanno contribuito non solo a creare musei mostre, archivi, ma anche a crearli lontano dai binari troppo rigidi dell’accademia, con leggerezza insomma. Salvatore Fornari appartiene a questo mondo: commerciante di successo, entrato da outsider nel mondo della cultura, generoso fino all’estremo del suo tempo e del suo denaro, appassionato. Gli dobbiamo molto e questo bel libro di Silvia Haia Antonucci mi sembra un buon modo per ringraziarlo.


[1] Presidente Associazione Culturale Progetto Arkés

[2] Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità ebraica di Roma (DiBAC).

[3] Docente di Storia dell’Arte Contemporanea, Università degli Studi di Roma La Sapienza.

[4] Docente di Storia Moderna, Università degli Studi di Roma La Sapienza.

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