Lunedì, 25 Novembre 2013

Adriana Valerio, «Carche di dolore e bisognose d'aita». Le memorie di Fulvia Caracciolo, monaca di S. Gregorio Armeno (1580). Studio e testo critico di fonti del cinquecento

Emanuele Atzori
Sezione Scaffale

Adriana Valerio, «Carche di dolore e bisognose d'aita». Le memorie di Fulvia Caracciolo, monaca di S. Gregorio Armeno (1580). Studio e testo critico di fonti del cinquecento, Napoli, Fridericiana editrice universitaria, 2012, 108 p. [ISBN] 978-88-8338-134-8.

«Volean ridurre tutt’i monisteri in osservanza et in perpetua clausura, et questo caggionava che ci trovassimo tutte carche di dolore e bisognose d’aita».

Con queste parole la monaca benedettina Fulvia Caracciolo, nel suo Brieve compendio della fundatione del Monistero di San Gregorio armeno detto San Ligoro di Napoli (1580), esprime tutto il suo sgomento all’indomani dell’applicazione delle normative tridentine relative alla clausura nei monasteri femminili. Oggi, ad oltre 150 anni dalla sua prima pubblicazione nel 1851, la prof.ssa Adriana Valerio offre una nuova edizione critica del testo alla luce non solo delle recenti scoperte documentarie ma anche dal confronto con un secondo esemplare del Brieve compendio, che finora non era stato mai preso in considerazione.

Il monastero di S. Gregorio Armeno e Fulvia Caracciolo

Il monastero di S. Gregorio Armeno affonda le sue origini nell’VIII secolo quando un gruppo di monache basiliane in fuga da Costantinopoli per la persecuzione iconoclasta lanciata da Leone III Isaurico (675-741) trovò rifugio a Napoli. La regola basiliana prevedeva una struttura conventuale formata da celle, ciascuna occupata da una monaca e munita di una cappella e di un orto, la cui unione formava le cosiddette “laure”, guidate da una superiora. La regola basiliana, inoltre, non prevedeva una rigida clausura e questi conventi, in pratica, risultavano essere una sorta di cittadelle in cui le donne, vestite in abito bianco, potevano condurre una vita relativamente libera.

Nell’VIII secolo le fonti attestano due importanti comunità basiliane a Napoli: una intitolata ai santi  Gregorio e Sebastiano e l’altra a S. Pantaleone e al Salvatore. Queste due comunità, che nel frattempo erano passate sotto la regola benedettina, nel 1009 vennero riunite dal duca Sergio IV (1002-1027) sotto il titolo di S. Gregorio Armeno (in onore della reliquia del santo che le monache avevano portato con sé da Costantinopoli).

I monasteri benedettini, per numero e radicamento, erano divenuti un vero e proprio punto di riferimento per l’aristocrazia feudale napoletana, in quanto si costituivano non solo come luoghi di accoglienza per le figlie che non erano destinate al matrimonio, ma anche come spazio sacro di protezione per le famiglie e per la stessa città.

Anche il monastero di S. Gregorio Armeno non fece eccezione e, fino a tutto il XVI secolo, il legame tra le monache e le rispettive famiglie di origine (che avevano tutto l’interesse a che il monastero conservasse e accrescesse il proprio patrimonio) poneva le religiose al centro di una vivace vita culturale e sociale, senza per questo rinunciare ai doveri imposti dalla dimensione religiosa che la loro condizione richiedeva.

Fu in questo particolare ambiente che crebbe e si formò Fulvia Caracciolo. Nata nel 1539, a soli due anni, come era costume, fu portata al monastero di S. Gregorio Armeno. Le famiglie nobili, infatti, sin dalla più tenera età portavano in convento le figlie non destinate al matrimonio, affinché, cresciute ed educate in quell’ambiente, trovassero quasi “naturale” continuare la propria esistenza da adulte all’interno dello stesso monastero. Nel 1544, a soli cinque anni, è ricevuta nella comunità dalla badessa e nel 1547 diventa monaca (la professione solenne avverrà invece nel 1579).

Fulvia ricevette probabilmente un’educazione di alto livello la quale, unita alle sue naturali inclinazioni, le permetterà di ricoprire ruoli di grande responsabilità all’interno del monastero. Questo il suo cursus honorum: sacrestana nel 1566; archivista e amministratrice nel 1569 (due ruoli di grande responsabilità in quanto si trattava di gestire le economie del monastero); soprintendente ai lavori di ampliamento del monastero (1572); celleraria intorno al 1580. Dopo questa data di lei si perdono tutte le tracce documentarie.

Una donna, dunque, estremamente dotata, la cui lucida capacità di analisi della realtà le permetterà di scrivere quel testo straordinario che è il Brieve compendio della fundatione del Monistero di San Gregorio armeno detto San Ligoro di Napoli (1580), una cronaca del monastero di S. Gregorio Armeno che dalle origini si snoda fino al 1579 e che, soprattutto, mostrerà il particolare punto di vista delle monache rispetto alla grande riforma della vita claustrale che prese il via dopo il Concilio di Trento (1545-1563).

Come spiega la Valerio: «Riformare i monasteri femminili era ormai diventata esigenza impellente, venendo alla luce, sempre più, l’inadeguatezza delle strutture monastiche alle esigenze di vita di donne entrate senza vocazione e intente a riprodurre all’interno l’agiatezza e le consuetudini della propria condizione sociale».

Al monastero di S. Gregorio i primi accenni di un cambiamento si erano già avuti tra il 1554 (restrizione della libera uscita dal monastero) e il 1561 (costruzione del muro di clausura) ma è solo con la visita pastorale del cardinale Alfonso Carafa (1540-1565) che si ebbero gli interventi più incisivi e che suscitarono le reazioni delle monache. Carafa, infatti, procedette a sopprimere e unire diversi monasteri, trasferire le monache, abolire le visite dall’esterno, allestire un parlatorio separato e costruire altrove le chiese per evitare il contatto con i fedeli esterni alle comunità monastiche. Oltre a questo fu resa obbligatoria la professione solenne, che lasciò interdette le religiose in quanto fino ad allora era invalso l’uso di non fare professione solenne «perché [le donne] non avvertivano come definitiva la “scelta” di vita imposta, né si sentivano obbligate a osservare i voti di castità, povertà e obbedienza». Inutile dire che la resistenza fu enorme e che i metodi per piegare le monache furono principalmente due, da una parte l’invio di predicatori capaci che facevano leva sul senso di obbedienza e sottomissione all’autorità, dall’altra il pugno di ferro che prevedeva l’allontanamento dal monastero, la perdita dei beni e il ritorno in famiglia (ritorno che spesso non era ben accetto dai rispettivi familiari).

Bisogna immaginare il terremoto che queste norme vennero a produrre nell’animo di queste donne per le quali il monastero era stato la loro unica casa fin dall’infanzia e rispetto al quale era quasi impossibile pensare a una valida alternativa di vita (numerose furono infatti le donne che dopo essere uscite dal convento vi rientrarono, sia perché rifiutate dai parenti, sia per la difficoltà ad adattarsi alla vita fuori dalla comunità di origine).

Infine, sulla scorta della costituzione apostolica Circa pastoralis di Pio V del 1566, che aveva offerto un’interpretazione restrittiva relativamente alle norme tridentine inerenti la clausura, fu necessario riorganizzare gli spazi all’interno del convento, vennero dunque predisposti «nuovi progetti che consentissero la realizzazione di dormitori e refettori comuni, chiudendo le donne in spazi definiti».

L’opera del Carafa, morto nel 1576, fu poi proseguita dal suo successore alla guida della diocesi di Napoli, Paolo d’Arezzo. Riforme che, per quanto riguarda il monastero di S. Gregorio Armeno, si concluderanno con l’arrivo delle monache dal soppresso convento di S. Arcangelo a Baiano, che porteranno con sé la reliquia del sangue di Giovanni Battista, oggetto di un grande culto in quanto il sangue del santo si scioglieva miracolosamente ogni anno, il 29 agosto. Culto che costituirà per le monache un’occasione di “rivalsa”, «le donne, non potendosi avvicinare all’altare durante la celebrazione eucaristica, metteranno in atto articolati processi di compensazione: preparazione delle ostie, lavori di ricamo sui paramenti sacri, contatto fisico con le reliquie».

La cronaca della Caracciolo si conclude con le notizie relative all’ingresso in monastero della madre Ippolita nel 1578 e con la professione solenne di Fulvia e delle sue sorelle, Eleonora e Anna, nel 1579. L’anno dopo il monastero contava sessantaquattro monache e ventuno converse.

Il Brieve compendio e il Borro

Pubblicato nel 1851 da Raffaele Maria Zito, il testo del Brieve compendio è divenuto una fonte importante per tutti gli studiosi successivi. Attualmente il manoscritto è conservato presso l’Archivio del monastero benedettino di S. Gregorio Armeno in Napoli (ASGA, segnatura n. 1) ed è formato da ottantanove fogli delle dimensioni di cm 20 per 28. A distanza di oltre un secolo e mezzo, la prof.ssa Adriana Valerio ne offre una nuova edizione critica, aggiornata non solo alla luce delle recenti scoperte documentarie, ma anche dal confronto con un’altra copia del testo, finora rimasta esclusa dall’analisi degli studiosi.

Zito, infatti, nel suo studio afferma di aver ricevuto il codice dalla badessa del Monastero di S. Gregorio Armeno e di essersi reso conto che il testo del Brieve compendio non è di mano della Caracciolo, ma copiato dal notaio Giovan Domenico Grasso su richiesta della stessa Caracciolo. Lo studioso, dunque, esprimeva il desiderio di poter visionare l’originale e per questo iniziò una ricerca nell’Archivio del Regno in cui venne ad imbattersi in un manoscritto intitolato: Borro, o sia esemplare delle nobile memorie della R.a D. Fulvia Caracciola 1577, sulle cose succedute nel nostro monastero nella restrittione delle regole e clausura (oggi conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Monasteri soppressi, volume n. 3435). Zito tuttavia scarterà questo testo senza dargli troppo importanza in quanto si trattava di una copia successiva al Compendio e piena di errori commessi dal copista, il quale, non riuscendo a leggere l’originale, aveva spesso interpretato male molte parole.

Ma è proprio da questo manoscritto che riparte l’analisi della Valerio e che apre nuovi ed interessanti interrogativi. Questo testo infatti, come si legge nel verso del frontespizio, altro non è che la copia di una bozza ("borro", infatti, è un termine di area meridionale che significa “bozza”, "minuta") realizzata all’interno dello stesso monastero intorno al 1690. Al di là degli errori del copista, la cosa che più colpisce è l’evidente differenza nella consistenza testuale dei due manoscritti. Il Borro, infatti, sembra essere una versione sintetica e ridotta del Brieve compendio. In particolare si nota come le parti mancanti nel Borro siano quelle a carattere di commento: considerazioni amare, preghiere e lamenti in relazione ai dolorosi fatti della restrizione claustrale. Qual è dunque il reale valore del Borro? È la testimonianza della prima stesura della Caracciolo, poi ampliata e consegnata al notaio Grasso perché la trascrivesse in bella copia? O piuttosto si tratta di una versione successiva, epurata però dai commenti della monaca? Se infatti vogliamo scartare l’ipotesi che sia stato il notaio ad aggiungere i commenti e le considerazioni presenti nel Brieve compendio (del resto l’affidare uno scritto a un notaio doveva servire a garantirne la fedeltà al testo originale), è ragionevole pensare che la copia del Borro, trascritto in piena Controriforma, possa rappresentare la volontà di fornire un resoconto della storia passata che meritava di essere ricordata ma per cui si rendeva necessario edulcorare le espressioni più emotive ed enfatiche.

Il volume, dunque, presenta l’edizione del testo del Brieve compendio con l’annotazione di tutti quei brani che risultano assenti nella successiva copia costituita dal Borro. Un testo che risulta affascinante per il particolare punto di vista, quello di una donna (e sottolineiamolo: di una donna archivista!) che fu sensibile testimone degli eventi drammatici che sconvolsero la vita monastica del XVI secolo e sui cui effetti (gli spazi “permeabili” del monastero, la “crisi del Rinascimento”, le strategie di negoziazione e le operazioni di nascondimento delle donne) ancora oggi ci si interroga.

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