Venerdì, 06 Febbraio 2015

"Per una storia della popolazione italiana nel Novecento". Un progetto ambizioso: quando le università fanno rete

Gianni Bovini
Sezione Primo piano

SIDeS – Società Italiana di Demografia Storica

CALL FOR PAPERS

Per una storia della popolazione italiana nel Novecento

Convegno di studi Udine, 8-10 ottobre 2015

La Società Italiana di Demografia Storica (SIDeS) invita tutti i suoi membri e altri studiosi interessati a proporre un contributo al prossimo Convegno triennale Per una storia della popolazione italiana nel Novecento, che si terrà ad Udine dall’8 al 10 ottobre del 2015.

II convegno vuole fare il punto sullo “stato dell’arte” dello studio della popolazione italiana nel corso del Novecento. La SIDeS porta così a compimento un percorso di studio e analisi della popolazione italiana per grandi scansioni secolari, avviato a Bologna nel 1979, con il primo convegno triennale della società “La ripresa italiana del Settecento”, cui hanno fatto seguito, senza rispettare un preciso ordine cronologico, i convegni dedicati agli altri secoli della nostra storia. Questa iniziativa intende proporre, esaltandone la prospettiva storica, nuovi percorsi di lettura dei principali snodi demografici del XX secolo, richiamando l’attenzione su questioni connesse all’interazione tra i fenomeni demografici e le trasformazioni storiche legate alla modernizzazione, alle guerre, ai cambiamenti di regime politico e nei rapporti internazionali, alla diffusione di nuovi modelli di consumo e ideologie.

In questo senso, si vorrebbero sollecitare contributi capaci di tenere assieme un approccio critico alle fonti demografiche e alle loro modalità di costruzione, da un lato, e dall’altro un’attenzione costante per le complesse interazioni tra i fatti demografici e un contesto economico, sociale, politico e culturale in forte mutamento.

Il Convegno sarà suddiviso in nove sessioni, descritte nelle pagine successive

1. Le pandemie italiane del Novecento (organizzata da Guido Alfani)

2. Migrazioni italiane nel Novecento (organizzata da Patrizia Audenino e Paola Corti)

3. Spopolamenti: effetti e motivazioni dello svuotamento di insediamenti urbani e rurali nell'Italia del Novecento (organizzata da Giovanni Favero e Luigi Lorenzetti)

4. Le guerre e i dopoguerra del Novecento in prospettiva demografica (organizzata da Alessio Fornasin e Matteo Manfredini)

5. Mobilità plurali: fonti e contesti per lo studio dell’intreccio delle migrazioni interne (organizzata da Stefano Gallo e Michele Nani)

6. Famiglia, matrimonio e transizioni demografiche (organizzata da Simonetta Grilli e Paolo Viazzo)

7. Le popolazioni coloniali italiane (organizzata da Vincent Gourdon e Gian Luca Podestà)

8. Il declino della fecondità in Italia: differenze e similarità nel Novecento (organizzata da Stanislao Mazzoni e Francesco Scalone)

9. La lotta contro le malattie infettive nel corso del Novecento (organizzata da Lucia Pozzi e Josep Bernabeu Mestre)

Le proposte di contributo, comprensive di un breve riassunto, devono essere inviate direttamente agli organizzatori delle varie sessioni, entro il primo marzo del 2015. L’accettazione delle proposte sarà comunicata alla metà del mese di marzo. I contributi dovranno essere inviati entro il 15 settembre del 2015.

1. Le pandemie italiane del Novecento

(Organizzatore: Guido Alfani Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Nonostante i continui progressi compiuti dalla scienza medica, il ventesimo secolo è stato caratterizzato da ricorrenti minacce pandemiche. Se consideriamo il secolo nel suo complesso, è chiaro perché sia possibile definirlo "l'Era dell'Influenza". Non solo la principale pandemia dell'intero periodo fu causata da un virus influenzale del tipo H1N1 - la cosiddetta "Influenza spagnola" che colpì l'Italia nel 1918-19 e causò tra 50 e 100 milioni di vittime nel mondo -, ma pandemie influenzali relativamente severe si verificarono anche nella seconda metà del secolo, e in particolare la cosiddetta "Asiatica" del 1957-58 (del tipo H2N2) e l'influenza di Hong Kong del 1968-69 (del tipo H3N2). Altre minacce sanitarie legate all'influenza sono ancora più recenti, superando addirittura i confini del ventesimo secolo (basti menzionare la crisi di "Aviaria" verificatasi nel 2002 e la pandemia di "Influenza suina" del 2009).

Tuttavia, l'influenza non fu la sola malattia di tipo pandemico del ventesimo secolo. Il colera, ad esempio, che fu forse la principale minaccia sanitaria del diciannovesimo secolo, colpì l'Italia anche nel ventesimo, e in particolare nel 1910-11 quando causò parecchie miglia di morti nella Penisola. L'Italia, tuttavia, fu colpita anche dall'ultima (per ora) pandemia di colera, nota come "El Tor", che coinvolse alcune città del Mezzogiorno (Napoli in particolare) e la Sardegna. Il numero di vittime fu molto contenuto (33 complessivamente) ma da altri punti di vista non si trattò di un evento trascurabile.

La sessione adotterà la definizione comune di pandemia: "una epidemia che colpisce il mondo intero, o perlomeno un'area molto ampia, attraversando i confini nazionali, e che solitamente affligge un gran numero di persone". La sessione, però, darà la precedenza a pandemie letali, o almeno quelle che sono state o avrebbero potuto essere capaci di causare un numero elevato di vittime. Per quanto le pandemie siano per definizione eventi internazionali, la sessione privilegerà relazioni dedicate al modo in cui le pandemie hanno coinvolto la popolazione italiana.

La sessione è aperta sia a contributi approfonditi su specifiche pandemie (ad esempio, l'Influenza spagnola) sia ad ampie sintesi dell'impatto di determinate malattie attraverso diverse pandemie.

Saranno considerati sia lavori dedicati alle caratteristiche demografiche ed epidemiologiche delle pandemie, sia contributi maggiormente focalizzati sulle loro conseguenze sociali, economiche e culturali. 

2. Migrazioni italiane nel Novecento

(Organizzatrici: Patrizia Audenino, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo., Paola Corti, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Nell’Italia del Novecento, dopo la conclusione del primo ciclo di migrazioni internazionali, comunemente definito come l’età della “grande migrazione”, i processi migratori subiscono un primo mutamento negli anni fra le due guerre. In questa fase le scelte demografiche del regime, la grande depressione e l’inversione di tendenza nelle politiche migratorie internazionali imprimono una spinta alla già diffusa mobilità interna, ridimensionando i flussi migratori verso l’estero. La fine del secondo conflitto mondiale avvia un nuovo ciclo di migrazioni transoceaniche ed europee, alimentate dalle distruzioni belliche, dalla disoccupazione e dalla conflittualità sociale. Superata la fase della ricostruzione, il “miracolo economico” si accompagna a una intensificazione dei flussi verso i paesi europei e a un incremento della mobilità interna. Si tratta, come è noto, di uno dei maggiori fenomeni demografici dell’Italia contemporanea.

Negli ultimi decenni del Novecento i flussi migratori internazionali sono influenzati da alcuni eventi epocali: la trasformazione finale dell’economia atlantica, la crisi energetica e il declino dell’economia fordista, il crollo della “cortina di ferro”, la costruzione della “fortezza Europa”. In questo nuovo scenario internazionale le migrazioni italiane subiscono un radicale mutamento a partire dagli anni Settanta, con la prima inversione dei saldi migratori. Si verifica infatti la concomitanza fra la contrazione dei flussi migratori in uscita e la crescita di quelli in entrata. Un nuovo mutamento si registra nel corso dell’ultimo ventennio del secolo: all’ulteriore e vistoso incremento degli arrivi dall’estero si accompagna una nuova accelerazione della mobilità interna e internazionale degli italiani.

In considerazione della prevalente attenzione che la ricerca ha dedicato sulla prima metà del secolo, si richiedono interventi più mirati sulla seconda metà del Novecento e sui seguenti temi :

- le trasformazioni demografiche delle collettività italiane nei paesi transoceanici

- le migrazioni del “miracolo economico”

- dal “lavoro in movimento” alle collettività italiane in Europa

- immigrazione in Italia - le nuove mobilità degli italiani. 

3. Spopolamenti: effetti e motivazioni dello svuotamento di insediamenti urbani e rurali nell'Italia del Novecento

(Organizzatori: Giovanni Favero, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. e Luigi Lorenzetti, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Questa sessione è aperta a contributi che indaghino sulle motivazioni culturali, sociali ed economiche dei processi di spopolamento dei centri urbani e degli insediamenti rurali e montani, nonché sui loro effetti sui comportamenti demografici, famigliari e abitativi nell’Italia del Novecento. Benché tali processi risultino più evidenti negli anni della ricostruzione e del miracolo economico, appare utile estendere all’indietro l’arco temporale considerato fino ad includere le trasformazioni degli anni tra le due guerre, meno eclatanti ma indicative dell’avvio di un movimento di popolazione che risulterà inarrestabile, e all’impatto della prima guerra mondiale sugli insediamenti considerati.

La scelta di tenere assieme due fenomeni molto studiati ma scarsamente collegati fra loro dalla letteratura, quello dello svuotamento dei centri storici e quello dello spopolamento rurale, deriva dalla convinzione che un approccio comparativo possa gettare nuova luce su entrambi. Accanto a motivazioni simili, che possono essere fatte risalire a mutamenti nelle preferenze delle famiglie e nei modelli di partecipazione al lavoro e al consumo, possono emergere infatti anche impreviste analogie negli esiti tra i processi (più o meno riusciti) di gentrification e quelli di turisticizzazione in contesti a prima vista radicalmente diversi.

Si tratta quindi di studiare la modernizzazione della società italiana e delle scelte abitative e di insediamento dal punto di vista di chi ha deciso (o meno) di abbandonare luoghi ed abitudini consueti per avere accesso a nuove tipologie di beni e servizi. Tale punto di vista mette in evidenza i costi di questi processi, che hanno riguardato, sia pure in misura diversa, tanto chi è rimasto quanto le avanguardie che si sono spostate negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale o i protagonisti degli esodi di massa del dopoguerra. Gli effetti dello spopolamento vanno infatti considerati nel loro complesso e nelle trasformazioni che hanno indotto non solo sui luoghi di provenienza di chi si sposta, ma anche su quelli di arrivo. Tenere assieme campagna e città può quindi consentire un’interpretazione più completa di questi fenomeni.

La demografia storica si è infatti a lungo occupata delle risposte della popolazione di fronte a momentanei shock demografici (carestie, pestilenze, guerre) che provocano improvvise contrazioni della popolazione, mettendo in evidenza variazioni dell’età al matrimonio, un rialzo della fecondità, un aumento delle seconde nozze. Ma nel caso dei processi di spopolamento quali reazioni si possono prospettare? Lo spopolamento, ad esempio, ha contribuito a frenare il calo dei livelli di fecondità oppure lo ha accelerato? E in quale misura le risposte si differenziano tra città e mondo rurale e montano?

Alcuni esempi utili a mostrare le possibili convergenze, non sempre pacifiche, tra i due tipi di spopolamento qui considerati sono quelli che riguardano la crescita delle periferie urbane nel corso dei decenni centrali del secolo. Nei nuovi quartieri popolari delle grandi città si sono incontrate e si scontrate infatti (talora arrivando con tempi diversi, talora contemporaneamente) le famiglie espulse dai rioni del centro storico e quelle che arrivavano dalla campagna, anche molto lontana. Le due popolazioni apparivano caratterizzate da comportamenti immediatamente distinguibili, che tuttavia hanno giocoforza perso di peso per effetto dell’accesso a quei nuovi beni e servizi che avevano motivato la scelta stessa di spostarsi. Altro caso rilevante è quello dell’abbandono delle valli e del parallelo popolamento delle zone di colonizzazione interna attraverso le grandi opere di bonifica in periodo fascista, il loro collegamento con le politiche demografiche ruraliste e la costruzione di nuovi centri urbani.

Una analisi della selezione operata dall’esodo sulla popolazione rimasta nei centri storici o negli insediamenti rurali può inoltre rivelare similitudini sociologiche e demografiche inattese: la popolazione che rimane è spesso più anziana e socialmente polarizzata. E’ rimasto di norma chi poteva permettersi di accedere anche a distanza ai benefici della modernità, e chi non avrebbe comunque potuto permetterselo. E se n’è andato più spesso chi avrebbe dovuto in ogni caso creare una nuova famiglia. L’esito, a livello culturale, è stato una più forte solidarietà comunitaria e un più forte attaccamento alle tradizioni, che talora ha implicato un atteggiamento ostile alle trasformazioni e paradossalmente ha favorito un ulteriore esodo.

Un ulteriore aspetto interessante di tali processi sono infatti le politiche avviate nel periodo tra le due guerre con le leggi contro l’urbanesimo, e gli interventi contro lo spopolamento del dopoguerra. Il tentativo di contenere l’esodo o di favorire addirittura un ripopolamento dei centri storici e degli insediamenti rurali abbandonati ha implicato trasformazioni a livello infrastrutturale e nella dotazione di servizi che inevitabilmente hanno inciso sui comportamenti della popolazione rimasta in loco e, nei casi in cui hanno avuto successo, sulla sua stessa composizione, suscitando reazioni e resistenze. Una prospettiva volta a comparare centri storici e insediamenti rurali può consentire di spiegare meglio i meccanismi che hanno portato al successo o meno di tali interventi, e i cambiamenti che ne sono derivati. In particolare, può essere interessante capire meglio in quale misura le politiche di incentivo al turismo nei centri storici e nelle aree alpine siano state concepite anche come strumento economico in grado di frenare lo svuotamento demografico delle aree coinvolte.

Quelle sopra esposte sono ovviamente solo alcune delle possibili domande di ricerca che il fenomeno dello spopolamento pone dal punto di vista storico e demografico, e gli autori sapranno auspicabilmente individuarne altre. Le proposte non dovranno forzatamente riguardare la comparazione tra casi urbani e rurali di spopolamento, ma si richiede di tenere presente la prospettiva comparativa che caratterizza la sessione. 

4. Le guerre e i dopoguerra del Novecento in prospettiva demografica

(Organizzatori: Alessio Fornasin, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Matteo Manfredini, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

La storia del Novecento è segnata dalle due guerre mondiali. Entrambe hanno indotto grandi mutamenti nel nostro paese, incidendo in profondità anche sul suo profilo demografico.

Tra gli aspetti ancora non del tutto chiari c’è il numero di vittime delle guerre, sia tra i militari che tra i civili. Ma i repentini cambiamenti sociali, economici e culturali indotti sulle popolazioni dai conflitti armati hanno modificato velocemente i loro comportamenti, di solito dotati di una lunga inerzia. La demografia delle guerre, pertanto, non include solo e semplicemente la mortalità, aspetto che emerge preminente, ma riguarda anche e con forza sia la nuzialità che la fecondità.

Lo studio in chiave demografica delle guerre, inoltre, non si può circoscrivere ai soli anni in cui si è combattuto, ma deve porsi l’obiettivo di indagare anche gli altrettanto veloci cambiamenti che si sono verificati negli anni immediatamente successivi alla fine dei conflitti. Tali trasformazioni, anche se circoscritte nel tempo, hanno lasciato cicatrici di lunga durata nelle popolazioni.

Per questa sessione si sollecitano interventi sulle vicende demografiche legate ai conflitti del Novecento, e sulle loro ricadute riguardo alle caratteristiche strutturali della popolazione italiana. 

5. Mobilità plurali: fonti e contesti per lo studio dell’intreccio delle migrazioni interne

(Organizzatori Stefano Gallo, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Michele Nani, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Come i secoli precedenti e come gli altri contesti europei, anche il Novecento italiano è caratterizzato dall’intreccio di molteplici forme di mobilità: innanzitutto migrazioni interne e internazionali (Europa, colonie africane, Americhe) si dispongono lungo un continuum; le stesse modalità di spostamento sul territorio nazionale sono inoltre caratterizzate dal cumulo e dalla sovrapposizione; gli intrecci valgono tanto per le scale geografiche della mobilità (locali, intercomunali, interregionali) che per le frequenze temporali (movimenti quotidiani o periodici, lavori stagionali, cambi di residenza). La storiografia e le scienze sociali vanno assumendo queste sovrapposizioni come costitutive della strutturazione delle comunità, delle famiglie e dei percorsi individuali di vita. Lungi dall’essere contrapposti o eccezionali, i diversi movimenti rappresentano una dimensione ordinaria e composita della società italiana contemporanea, della sua produzione materiale e della sua rappresentazione culturale: il reclutamento industriale e la mobilità sociale, il pendolarismo città-campagna e l’urbanizzazione, i grandi lavori agricoli e la fine delle campagne, lo studio e il turismo.

Il Novecento è anche il secolo che avvia un intervento più pervasivo dello Stato, per quantificare e controllare i flussi: ne consegue un allargamento del ventaglio delle fonti a disposizione degli studiosi e un aumento della disponibilità e dell’affidabilità stessa dei dati. A inchieste, censimenti, schede anagrafiche e dello stato civile, registri scolastici, archivi centrali e locali (dall’Istat all’Inps, dalle Prefetture agli Uffici del lavoro), che testimoniano la dilatazione dell’intervento dello Stato nelle dinamiche sociali, si unisce una maggiore disponibilità di documenti provenienti da istituzioni private (a partire dalle matricole di fabbrica fino ai dati dei trasporti).

In questa sezione ci proponiamo di unire queste due dimensioni e di mettere a confronto ricerche che si misurino con la pluralità dei movimenti e delle fonti a partire da due indirizzi:

- l’esame critico dei possibili usi scientifici di una o più fonti per lo studio della mobilità, con particolare attenzione sul contesto della sua produzione e utilizzo storico, sulle distorsioni che questo contesto induce sulla rappresentazione dei flussi, sulle potenzialità già sondate o non ancora espresse da quel tipo di documentazione: su quel che la particolare serie fa vedere e su quel che non può vedere;

- gli ambiti che facilitano l’emergere dell’intreccio di movimenti e flussi a oggetto di studio specifico, siano essi comunità locali o parti di esse (quartieri, isolati, strade, case e loro equivalenti rurali o montani), zone industriali, porti o singole fabbriche, zone agrarie o aziende agricole, famiglie o gruppi parentali, coorti di individui nel loro ciclo di vita o particolari segmenti generazionali. 

6. Famiglia, matrimonio e transizioni demografiche

(Organizzatori: Simonetta Grilli, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Paolo Viazzo, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

A partire dalla metà del Novecento la famiglia ha conosciuto in Italia, così come negli altri paesi sud-europei, dapprima un evidente processo di “nuclearizzazione” (caratterizzato da un peso decrescente della coresidenza tra parenti) e poi una serie di metamorfosi in buona parte legate alla declinante stabilità e centralità del matrimonio. Alcuni studiosi vedono in queste tendenze la prova di una progressiva convergenza verso modelli valoriali nord-europei, come previsto dalla teoria della modernizzazione e più recentemente dalla teoria della seconda transizione demografica. Altri sostengono invece che differenze considerevoli, o addirittura tendenze divergenti, diventano manifeste se si considerano non solo e non tanto le “nuove forme” di famiglia (convivenze, famiglie ricomposte, famiglie omogenitoriali ecc.), quanto piuttosto la forza dei legami di parentela quale si esprime sia a livello di comportamenti sia a livello di obblighi morali soggiacenti e storicamente sedimentati.

Negli ultimi 15 anni questa tesi ha in effetti ricevuto sostegno da un buon numero di indagini internazionali (ad es. SHARE e KASS) che hanno individuato tra i paesi a “famiglia debole” del Nord Europa e a “famiglia forte” dell’Europa mediterranea un chiaro gradiente che si manifesta misurando i livelli di coresidenza e soprattutto di prossimità abitativa tra genitori e figli adulti, la frequenza dei contatti e l’intensità degli aiuti e dei trasferimenti tra generazioni: di qui la predizione abbastanza diffusa che questi modelli, saldamente radicati nel passato, siano destinati a persistere anche in futuro o comunque ad influenzare fortemente nel medio e forse nel lungo periodo l’evoluzione dei comportamenti che ricadono nella sfera familiare e parentale.

Questo radicamento nel passato è tuttavia spesso dato per scontato piuttosto che empiricamente dimostrato, e non sono pochi i punti che attendono di essere meglio esplorati in una prospettiva storica. La sessione si propone pertanto come un’occasione per mettere a fuoco alcune delle trasformazioni che nel corso del Novecento hanno investito i comportamenti familiari e che hanno a che vedere con i modelli residenziali, le forme della solidarietà intergenerazionale, il ruolo del matrimonio nella costituzione della famiglia. In particolare appare urgente:

• verificare sulla base di evidenza empirica se i legami di parentela fossero realmente così forti in Italia (e nell’Europa mediterranea) nel passato e se un sistema di cura fondato su una rete domestica di aiuto si traducesse realmente in maggior benessere e maggiore sopravvivenza;

• appurare se per l’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra si possa parlare, così come si fa per altri paesi europei, di una “età dell’oro” del matrimonio e della famiglia (elevata nuzialità, consolidamento della famiglia nucleare, imporsi dei ruoli di casalinga ebreadwinner), anche per valutare in che misura confronti con la metà del Novecento – piuttosto che con un passato solo un po’ più lontano ma in gran parte dimenticato – influenzino la percezione dei modelli riproduttivi e domestici emergenti e della loro novità;

• far emergere la persistenza di significative differenze regionali e/o areali riguardo a modelli abitativi e scelte matrimoniali che sono ancora oggi visibili: basti qui richiamare la diversa incidenza delle convivenze (famiglie di fatto), delle filiazioni naturali e dei matrimoni civili rispetto a quelli religiosi nelle varie realtà regionali.

I primi esiti di numerose indagini in corso fanno presumere che variazioni significative e illuminanti nel tempo e nello spazio siano empiricamente rilevabili attraverso un’analisi quantitativa (statistico-demografica) di indicatori quali ad es. la stagionalità dei matrimoni. Per essere adeguatamente interpretati, questi e altri dati relativi alle varie questioni toccate in questa sessione richiedono però interpretazioni aperte agli apporti teorici di discipline quali la sociologia, la geografia, l’economia, e non ultima l’antropologia socio-culturale, vista la presunta centralità – affermata o negata – dei fattori culturali. La sessione è dunque aperta a contributi che integrino la prospettiva storica con quella di altre diverse tradizioni disciplinari. 

7. Le popolazioni coloniali italiane

(Organizzatori: Vincent Gourdon, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Gian Luca Podestà, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

Assistiamo da una ventina d’anni allo sviluppo su scala mondiale della storia della colonizzazione nei secoli XIX e XX. Questo crescente interesse si traduce nell’ampliamento senza precedenti delle tematiche toccate, che ormai oltrepassano i campi della storia militare, diplomatica e politica, centrati sulla colonizzazione e sulla decolonizzazione, per aprirsi alla storia culturale e sociale del fatto coloniale, indagandone l’impatto profondo non solamente sui domini, ma anche sulle madrepatrie. Per l’età contemporanea, sono ormai numerose le ricerche di demografia storica sui due maggiori imperi, quello britannico e quello francese. La storia della popolazione della Francia e della Gran Bretagna non potrebbe essere adeguatamente compresa senza tenere conto delle relazioni tessute con l’ambito coloniale, che si tratti di una emigrazione più o meno massiva (nel caso inglese piuttosto che in quello francese) o, dopo l’indipendenza, del ritorno delle popolazioni europee, e, in seguito, all’istituirsi di flussi demografici tra nuovi stati africani, asiatici o americani, e le loro antiche patrie metropolitane.

In questo quadro il caso italiano resta il meno conosciuto, malgrado alcune ricerche pionieristiche degli ultimi quindici anni. Senza dubbio ciò è dipeso anche dal carattere effimero dell’impero coloniale italiano, costituito tardivamente, in gran parte nel XX secolo, e perduto altrettanto rapidamente, poiché le colonie italiane dell’Africa smarrirono i contatti con la madrepatria già durante la seconda guerra mondiale, prima di divenire colonie ‘sospese’ dopo il 1945. Certamente questo è altresì in relazione con la modestia di tale impero, uno dei più piccoli e dei meno popolati nonché, con l’esclusione del Ventennio fascista, uno dei meno interessati dagli investimenti governativi.

Tuttavia la sua creazione, avvenuta in questo caso proprio nel XX secolo, non è priva di effetti sulla storia demografica metropolitana. Esistono flussi di popolazione che è opportuno descrivere (e forse distiguere dai grandi movimenti migratori verso l’Europa, e l’America del Nord o del Sud), e società coloniali che si sono costituite che devono essere comprese e indagate: che tipo di popolamento? Quali le strutture e le pratiche familiari? Quali le caratteristiche demografiche (tassi di mortalità, fecondità, nuzialità, e mobilità)? Quale atteggiamento hanno adottato le popolazioni autoctone e l’autorità statale verso l’emersione (ad esempio in Eritrea) di una popolazione meticcia? In termini più generali, quali politiche demografiche sono state seguite? Quali gli attori, quali gli obbiettivi, quali i risultati? Sono questi i molteplici quesiti ai quali questa sessione cercherà di rispondere.

Focalizzare lo sguardo sul solo impero italiano è, tuttavia, ingannevole. Una delle specificità delle popolazioni coloniali italiane è stata quella di non essere necessariamente legate al rispettivo impero. Di più, nei secoli XIX e XX, la maggior parte degli italiani residenti nelle colonie europee era localizzata negli altri imperi, ad esempio, nel Nord Africa francese o nell’Egitto inglese. Per le autorità nazionali questa situazione costituiva nel contempo un’occasione politica e uno spreco d’uomini. Per i governi degli altri paesi colonizzatori, la presenza italiana era simultaneamente un’opportunità che permetteva di rafforzare la parte bianca della popolazione nei confronti delle masse indigene, un vantaggio economico in termini di sfruttamento dei territori, e una potenziale minaccia per la sovranità nazionale. Da qui le oscillazioni nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle comunità italiane locali e dei nuovi flussi di migranti arrivati dall’Europa: bisognava incoraggiarli o limitarli? Occorreva favorire i coloni nazionali a detrimento degli italiani, o attuare delle politiche di assimilazione e di naturalizzazione? Gli italiani hanno adottato o conservato dei comportamenti specifici o si sono uniformati ai loro omologhi europei?

La fase della decolonizzazione apre un terzo grande capitolo della storia delle popolazioni coloniali italiane, sulla quale la sessione intende porre l’accento. L’indipendenza delle colonie non implica necessariamente, almeno in un primo tempo, l’abbandono dell’ex-impero da parte degli italiani. La sessione si interrogherà sulle modalità, più o meno complete, del ritorno dalle ex-colonie italiane o da altre, sulle forme di “reintegrazione” nelle società metropolitane, sull’impatto di questi movimenti migratori sulla dinamica complessiva della popolazione italiana nel XX secolo, che è stato, specialmente per questo paese, il secolo della colonizzazione, anche se la memoria del passato coloniale è stata ampiamente occultata. 

8. Il declino della fecondità in Italia: differenze e similarità nel Novecento

(Organizzatori: Stanislao Mazzoni, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.; Francesco Scalone, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

La transizione della fecondità in Italia e nei paesi occidentali è stata oggetto di numerose pubblicazioni che hanno esplorato e scandagliato diversi aspetti di questa straordinaria rivoluzione che ha modificato in profondità tutte le società occidentali.

È ormai acquisita la consapevolezza che la storia degli ultimi due secoli è stata caratterizzata da una molteplicità di percorsi di riduzione della fecondità, plasmati da contesti storici, ambientali, culturali anche molto diversi fra loro. L’Italia, a causa della sua storia, della sua natura geografica, politica e sociale ha sperimentato una variabilità ancora maggiore a tal punto che si è parlato di “transizioni” diverse della fecondità anche all’interno di singole realtà regionali.

Tale varietà di modelli, già messa in luce dai risultati del Princeton Project, ha acquisito ulteriore valenza negli ultimi anni alla luce anche di alcuni studi effettuati a livello micro-individuale. Se il processo nel suo insieme è ben noto, restano ancora numerosi interrogativi sui meccanismi che hanno provocato i differenziali di fecondità osservati.

Sinora, salvo qualche rara eccezione, sono mancati studi che abbiano consentito di ricostruire l’intero percorso della transizione nei suoi meccanismi di lungo periodo, a livello micro-individuale: ci si è, per lo più, limitati a seguire alcune fasi del processo senza analizzarlo nella sua interezza. Rimane incerto, in particolare, come si debba interpretare il declino della fecondità, se come un processo di adattamento a nuove circostanze o, al contrario, come una completa innovazione?

In molti contesti sembrano presenti, inoltre, come implicito nella teoria della transizione demografica, chiari parallelismi fra declino della fecondità e declino della mortalità nei primi anni di vita, ma la relazione fra i due fenomeni è molto complessa e di difficile interpretazione e misura. Numerosi studi hanno messo in luce che gli individui appartenenti alle élites sociali hanno svolto il ruolo di “forerunners” nell’attuare forme di controllo della fecondità e hanno documentato l’emergere di una relazione inversa fra fecondità e strato sociale di appartenenza durante la transizione demografica. Rimane, tuttavia, poco chiaro se tale relazione fosse presente anche nella fase precedente la transizione o sia divenuta inversa nel corso del processo e sconosciuti rimangono i meccanismi alla base di tale eventuale persistenza o cambiamento. Alcuni studi per altri contesti europei, hanno ipotizzato un rovesciamento di tale relazione, non confermato per altre aree. Le poche indagini sinora effettuate in tale direzione non hanno portato ancora a risultati conclusivi per il caso italiano.

Per quest’ultimo sono pressoché mancati studi che abbiano cercato di indagare, misurare e interpretare gli anni del baby boom, che sono stati invece oggetto di un recente progetto e di indagini in altri contesti europei. In tale direzione, poco si è fatto finora per l’Italia, forse anche a causa dell’artificiale cesura che si è sempre più imposta fra demografia “storica” e demografia “contemporanea” che ha portato a trascurare gli anni del secondo dopoguerra e del boom economico che sono divenuti una sorta di cono d’ombra inesplorato.

Infine, ancora troppo poco forse si è fatto per valorizzare approcci diversi, quali, ad esempio la ricerca e l’analisi di fonti qualitative non strettamente demografiche o l’utilizzazione di indagini condotte attraverso testimonianze orali, interviste in profondità rivolte alle generazioni di donne e uomini che sono state protagonisti della straordinaria rivoluzione nei comportamenti riproduttivi che ha avuto luogo nella parte centrale del Novecento..

Questa sessione si propone di raccogliere contributi atti a spiegare le dinamiche di questo complesso e variegato cambiamento avvenuto nel corso del Novecento. Particolare attenzione sarà riposta alle similarità e alle differenze (geografiche, sociali, economiche) tipiche del contesto italiano. Allo scopo di stimolare ulteriormente il confronto e la discussione, saranno anche accolte eventuali proposte comparative relative a realtà e contesti non italiani. Per quanto riguarda le metodologie adottate, invece, si attendono lavori basati sull’uso di dati aggregati, ma particolarmente graditi saranno quelli che faranno uso di dati micro analitici. In generale, si intende stimolare l’adozione di nuove fonti e documenti utili ad accrescere il patrimonio di informazioni esistente, e di conseguenza la conoscenza, dei processi più intimi alla base del declino della fecondità. 

9. La lotta contro le malattie infettive nel corso del Novecento

(Organizzatori: Lucia Pozzi (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. ;Josep Bernabeu-Mestre Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.)

La ricerca storico-demografica in aperto, ma non ancora sufficiente, dialogo con altre discipline, quali la storia sociale ed economica, la storia della medicina e della salute, l’antropologia e la sociologia, ha consentito un significativo approfondimento della vasta tematica oggetto di questa sessione, ma restano ancora non pochi snodi da sciogliere e nuovi interrogativi sono maturati.

L’adozione dell’approccio esplicativo inerente alla cosiddetta transizione della salute e al più recente concetto di transizione alimentare, ha consentito di approfondire aspetti in precedenza trascurati ed ha avuto un ruolo importante nello stimolare il dibattito fra studiosi appartenenti a discipline diverse, pur non permettendo di superare del tutto diffidenze e barriere fra i diversi orientamenti metodologici.

La sempre maggiore diffusione di studi micro-analitici ha consentito di favorire una comprensione più approfondita e una misura accurata di una serie di variabili determinanti nella lotta contro la malattie infettive.

Tuttavia, ulteriori passi in avanti potrebbero essere realizzati qualora si riuscissero a documentare meglio dimensioni importanti, quali il contesto ambientale, i cambiamenti nell’igiene pubblica e privata, gli interventi e le politiche sanitarie locali, la rilevanza delle amministrazioni sanitarie locali e nazionali, e altri elementi di difficile ricostruzione e misurazione. Per fare tutto questo sarebbe necessario un maggiore impegno nel lavoro di scavo archivistico, nella ricerca di fonti, non strettamente demografiche, che potrebbero fare luce su aspetti sinora poco indagati, grazie alla ricostruzione di più robusti indicatori di contesto.

Rimane scarsamente esplorata e utilizzata la documentazione sanitaria conservata negli archivi locali e nazionali- si pensi, a titolo di esempio, alle fonti relative alla Direzione Generale della Sanità pubblica-. Poco si è fatto per valorizzare le memorie e gli scritti di medici e ufficiali sanitari, le riviste scientifiche dell’epoca che offrono una miniera inesauribile di informazioni, a tutt’oggi poco sfruttate, sulle condizioni abitative e lavorative, il regime alimentare, l’istruzione, le credenze e i comportamenti, ecc. Ulteriori importanti spunti potrebbero essere tratti dalle statistiche ospedaliere anche al fine di analizzare l’effetto della crescente ospedalizzazione.

Altrettanto utile sarebbe una rilettura critica di lungo periodo delle riforme e delle politiche sanitarie attuate dai diversi governi italiani nel passaggio dal regime liberale, a quello fascista e infine, repubblicano, che mettesse in luce gli elementi di continuità e cambiamento e permettesse di tracciare un bilancio della loro concreta efficacia nella lotta contro le malattie infettive.

Di alcune patologie, quali la malaria e la tubercolosi in primo luogo, ma anche di altre malattie sociali (pellagra, tracoma, gozzo, ecc.), la cui storia è stata documentata in varie importanti ricerche, condotte principalmente da storici e storici della medicina, non siamo ancora in grado di cogliere pienamente la portata e il ruolo che esse hanno avuto nel disegnare il processo di transizione sanitaria italiana, in termini di cronologia e di variabilità geografica. Molti di questi studi hanno documentato aspetti specifici, l’impatto che tali malattie ebbero in diversi contesti locali, ma non è ancora possibile tracciare un bilancio ed un quadro completo di queste ultime nella storia demografica italiana.

L’attenzione si è concentrata per lo più, anche per maggiore facilità d’indagine, sulla “mortalità” causata dalle malattie infettive, mentre assai poco si è fatto per documentare l’incidenza e la diffusione delle diverse patologie dal punto di vista della morbosità.

Si è in massima parte trascurata una dimensione fondamentale del processo morboso, rappresentata dall’interazione fra infezione e status nutrizionale. Negli ultimi anni l’attenzione a questi aspetti e più in generale allo stato di salute di diverse popolazioni italiane, grazie all’utilizzo delle fonti militari è stata maggiore, ma molto resta ancora da fare. 

Questa sessione si propone pertanto di colmare alcune di queste lacune, favorendo un dibattito su questi temi, il più possibile aperto fra studiosi di diverse discipline, auspicando contributi che consentano una ricostruzione di quadri il più possibile completi del percorso di alcune malattie nel nostro paese, ma anche studi che permettano di ricostruire l’esperienza di queste ultime a livello micro-individuale. In entrambe le direzioni, si auspica un maggiore utilizzo del ricco patrimonio di informazioni archivistiche.

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