Martedì, 04 Febbraio 2014

Gestione degli archivi digitali di persona: strategie e problematiche

Simone Vettore
Sezione Primo piano

La diffusione delle tecnologie informatiche ha impattato sui “documenti”, intesi in questo articolo in senso lato, sotto molteplici aspetti: dalle modalità di creazione a quelle di diffusione e riproduzione passando per tutto ciò che concerne il loro utilizzo, la loro gestione e, naturalmente, la loro conservazione.

La risposta della comunità archivistica a tali repentini cambiamenti, dopo una prima fase interlocutoria, è stata complessivamente pronta anche se (e ciò a dispetto del notevole attivismo che aveva contraddistinto gli ultimi decenni dello scorso secolo) l’attenzione è stata appuntata soprattutto sui tradizionali archivi appartenenti ad organizzazioni (enti pubblici, aziende) a discapito degli archivi di persona.

Poiché la rilevanza di questi ultimi è nota, è superfluo qui dilungarsi a rammentare la necessità che pure ad essi vengano destinate adeguate attenzioni e cure; decisamente più proficuo approfondire i motivi che li rendono così vulnerabili e presentare alcune possibili strategie di gestione1.

I problemi di fondo sono essenzialmente due: 1) da una parte l’assenza di sensibilità nei soggetti produttori, i quali dal canto loro possono giustamente lamentarsi di essere abbandonati a sé stessi, senza regole e pratiche condivis che possano risultare di aiuto2 2) dall’altra l’affermazione di un paradigma tecnologico, qual è quello del cloud computing, dagli effetti dirompenti sui tradizionali modelli (non solo archivistici) di riferimento.

In relazione a quest’ultimo punto va infatti notato come in ambito cloud vengano meno alcuni elementi che, per quanto la considerazione possa apparire puramente consolatoria, rappresentavano comunque un elemento di continuità con l’esperienza precedente, legata al possesso (o quanto meno al controllo) diretto sul supporto fisico che conteneva/sul quale erano impressi i nostri “documenti”. Detta senza fronzoli: mentre fino a poco tempo fa la gran parte delle risorse di calcolo e soprattutto di storage risiedevano all’interno di dispositivi (PC, hard-disk esterni, CD-ROM e DVD-ROM) di nostra proprietà, con il cloud non avviene più così3; i nostri dati e documenti, al contrario, vengono distribuiti all’interno di più server farm dislocate spesso in altri continenti e sulle quali esercitiamo un controllo scarso o addirittura nullo.

Il nodo della questione, relativamente agli archivi digitali di persona, è esattamente questo: la dispersione (leggasi: la perdita dell’unitarietà) dei nostri dati e documenti su molteplici piattaforme e servizi (come già anticipato fuori dal nostro controllo) acuita dalla concomitante perdita di sensibilità da parte dei soggetti produttori, i quali caricano con leggerezza le proprie foto su Pinterest, Instagram, Flickr o l’immancabile Facebook, i propri video su Vimeo o YouTube, i propri documenti su Dropbox, Drive, Box.net, etc. (peraltro probabilmente inconsapevoli del fatto che, spesso, con tale gesto si rinuncia ai diritti sugli stessi a favore dei fornitori del servizio).

Le soluzioni attualmente offerte dal mercato per ovviare a tali carenze sono sostanzialmente due, ovvero: 1) il ricorso a servizi di metacloud 2) la realizzazione di una personal cloud; com’è naturale che sia entrambe presentano pro e contro (relativamente a costi, energie da dedicare, garanzie di sicurezza, etc.) che è opportuno andare ad analizzare un po’ più nel dettaglio. Procediamo dunque con ordine.

Con il termine metacloud si fa riferimento a quei servizi (uno dei tanti è Zero PC4) che consentono di gestire in modo semplice ed immediato da remoto, attraverso un’interfaccia unica, i contenuti prodotti e caricati su distinte cloud. Per fare un esempio concreto se si usa un servizio di metacloud non è più necessario collegarsi uno ad uno a Flickr, Picasa od Instagram per visualizzare le proprie foto così come non serve accedere ai vari servizi Google per leggere i propri documenti (Google Docs) e mail (GMail); analogamente avviene con Evernote per la propria “bacheca virtuale”, con i vari Dropbox, Drive, Skydrive o SugarSync per il proprio spazio di storage e con Facebook, LinkedIn e Twitter per quanto concerne la gestione delle proprie reti sociali e professionali, poiché li si può gestire in modo integrato da quello che viene generalmente definito remote cloud desktop oppure attraverso le applicazioni appositamente realizzate5.

Da questo punto di vista è innegabile che un servizio di metacloud presenta molteplici aspetti positivi: 1) non occorre più ricordarsi su quale servizio / dispositivo si trova tale foto e talaltro documento, in quanto con una semplice ricerca per nome, tag, data, etc. si individua il contenuto desiderato 2) poiché pure il metacloud è un servizio “sulla nuvola” l’accesso ai propri contenuti digitali è H24 e device independent 3) non occorre più memorizzare tante credenziali di accesso quante i servizi che si adoperano 4) spesso e volentieri è compreso il servizio di backup automatico dei propri dati e documenti dalle molteplici nuvole / servizi cui sulle quali abbiamo stipato dati a quello messo a disposizione nella “metanuvola” e che funge da “archivio collettivo”.

Dal punto di vista archivistico un siffatto servizio è apparentemente in grado di ridare unità logica (ed eventualmente anche fisica, qualora si proceda al citato backup sulla metanuvola) a quelli che altrimenti non sarebbero nient’altro che frammenti sparsi della nostra vita digitale. Purtroppo, perlomeno allo stato attuale, il metacloud non sembra essere in grado di fornire risposte definitive alle problematiche di fondo del cloud computing evidenziate in sede introduttiva e questo per il semplice fatto che non si fa altro che rispondere ad un servizio sulla nuvola con altro, benché più sofisticato, servizio sulla nuvola.

La realizzazione di personal cloud, al contrario, ovvia a molte delle criticità elencate, pur presentandone altre del tutto nuove. Ma innanzi tutto chiariamo cosa si intende per personal cloud; una definizione abbastanza precisa potrebbe essere la seguente, ovvero “una rete personale, connessa alla più vasta internet (della qual costituisce una sottorete), attraverso la quale è possibile accedere in qualsiasi momento ed a partire da un numero crescente di device al proprio archivio multimediale”6; quest’ultimo di norma è ospitato all’interno di un NAS (Network Attached Storage) domestico di proprietà del soggetto produttore. Poiché tale NAS fisicamente si trova nell’ufficio o nell’abitazione di chi lo possiede, risulta evidente come vengano meno tutti quei problemi relativi alla frammentazione, al controllo (che qui è totale) ed alla proprietà “legale” dei dati / documenti. Per quanto riguarda la sicurezza il discorso si fa più articolato: circa quella fisica l’acquisto di buoni materiali, la ridondanza delle unità di archiviazione (più hard disk, con mirroring automatico dei dati ed eventuale back-up remoto), unitamente alla presenza di un gruppo di alimentazione, mette ragionevolmente al riparo dalla perdita dei dati (temporanea o permanente) derivante da balzi nella tensione e da blackout. Diversa la situazione circa la sicurezza logico-funzionale: se in linea di principio non dovrebbero sussistere particolari problemi, nella pratica, considerando la generale noncuranza da parte dei privati anche per le più elementari precauzioni (come aggiornare con frequenza l’antivirus, usare password complesse sostituendole ogni tot settimane, etc.) è verosimile che esse siano addirittura peggiorate.

Quest’ultima riflessione ci conduce all’aspetto che probabilmente rappresenta il vero punto debole di una personal cloud ovvero le troppe incombenze che sorgono in capo al soggetto produttore, il quale si trova a dover effettuare in prima persona scelte decisive in ordine alle modalità pratiche di gestione ed organizzazione del proprio archivio nonché circa le dotazioni tecnologiche; si tratta di decisioni strategiche e tutt’altro che banali e che, con specifico riferimento alle questioni “tecniche”, comportano pure un cospicuo esborso monetario7 senza che peraltro vengano risolti in maniera definitiva i problemi relativi alla conservazione nel medio lungo periodo dei dati / documenti ed alla “certificazione” o meno circa la loro autenticità, affidabilità, integrità ed utilizzabilità (giusto per riprendere i requisiti che, secondo le ISO 15489, deve possedere un documento).

Insomma, pare di poter concludere che nemmeno l’implementazione di una personal cloud è risolutiva; sicuramente sarebbe importante, per i vagheggiati digital citizens, poter contare sul supporto di esperti (funzionari delle soprintendenze archivistiche? Liberi professionisti?) in grado di fornir loro un aiuto nella gestione dei propri archivi digitali; analogamente la possibilità di effettuare la copia di backup della propria nuvola personale all’interno di trusted repository (anche qui: realizzati presso gli Archivi di Stato? Da parte di enti pubblici locali? O piuttosto di privati “certificati”?) fornirebbe qualche certezza in più e contribuirebbe a rendere meno nebuloso il destino di questi archivi sinora rimasti ai margini del dibattito.

______

1 Gli aspetti relativi alla conservazione non verranno pertanto affrontati, se non marginalmente, in questa sede.

2 Ad es. le ISO 15489:2005, per quanto possano fornire qualche spunto utile, sono pensate per organizzazioni; in questo panorama desolante preziosissime sono le best practice diffuse dal blog The Signal, gestito da personale della Library of Congress, e che chi vi scrive ha sommariamente sintetizzato in un articolo comparso qualche tempo fa sempre su questa rivista: Archivi digitali di persona: è ora di iniziare a parlarne, http://www.ilmondodegliarchivi.org/index.php/studi/item/118-archivi-digitali-di-persona-%C3%A8-ora-di-iniziare-a-parlarne (03/02/2014).

3 Né, pare di poter affermare con un ragionevole grado di certezza, cambierà molto con l’eventuale affermazione del fog computing, il quale sembra piuttosto un’infrastruttura intermedia ideale ad abilitare tutti quei servizi “a risposta rapida” che verranno a rendersi disponibili man mano che si diffonderà il cosiddetto Internet delle Cose (IoT) e le tecnologie indossabili (a loro volta alla base di quello che viene definito wearable computing). Per un approfondimento su questi temi si permette di rinviare al seguente post, pubblicato dallo scrivente sul proprio blog personale Memoria digitale: Fog computing, l’archivio dell’Internet delle Cose, http://memoriadigitale.me/2013/09/30/fog-computing-larchivio-dellinternet-delle-cose (03/02/2014).

4 Vedi Zero PC, http://www.zeropc.com.

5 Limitandosi ai soli servizi di cloud storage, con il citato Zero PC è possibile gestire uno spazio di archiviazione di circa 40 GB. Uno quantità non disprezzabile, anche perché essa è quella che risulta disponibile iscrivendosi alle sole versioni basiche (e gratuite).

6 Vedi Elementi fondamentali di una personal cloud, http://www.mypersonalcloud.org/elementi-fondamentali-di-una-personal-cloud; si tratta di un progetto avviato dal sottoscritto con l’ambizione di esplorare pregi e difetti di una personal cloud, vista come infrastruttura di riferimento per il personal digital archiving. 

7 Una personal cloud, infatti, costa nel suo complesso mediamente di più rispetto agli analoghi servizi (nelle versioni a pagamento, s’intende) di archiviazione all’interno di una public cloud. Inoltre, a parte dai costi di acquisizione, vanno tenuti ben presenti quelli di manutenzione: essa infatti va costantemente tenuta in efficienza e, dopo un certo numero di anni, va aggiornata / sostituita.

Immagine di apertura: Letizia Cortini, 2013

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