Martedì, 30 Luglio 2013

Salvare gli archivi del Novecento

Marco Carassi
Sezione Normativa

Premessa

L’ANAI ringrazia i responsabili dell’Archivio Centrale dello Stato e del Servizio II della Direzione Generale per gli Archivi per aver fornito alcuni chiarimenti, ma nel rispetto delle competenze istituzionali si assume la responsabilità delle considerazioni che seguono, e rimane disponibile ad approfondimenti.

La riflessione, inviata al Ministro Massimo Bray, nasce dalla situazione di rischio nella quale si trovano molti archivi pubblici e privati prodotti nel corso del secolo scorso e dalla notizia della possibilità che si renda disponibile una grande ex-caserma in Roma.

1. Dove sono gli archivi del Novecento?

Si ritiene che in Italia non siano ancora stati affidati a Istituti archivistici specializzati nella conservazione storica circa 1000 Km lineari di archivi pubblici ultraquarantennali.

Per quanto riguarda gli uffici statali la legge prevede che i fascicoli chiusi da quaranta anni siano versati agli Archivi di Stato. I ministeri (con l’eccezione di Esteri e Difesa) versano all’Archivio Centrale dello Stato. Archivi del Novecento sono dunque conservati nell’Archivio Centrale dello Stato (110 km di scaffali distribuiti in tre sedi tutte in affitto: il palazzo dell’EUR e altri depositi decentrati), nei 100 Archivi di Stato e nelle loro 34 Sezioni. Si tratta di una rete capillarmente diffusa sul territorio nazionale che svolge una preziosa funzione culturale e di garanzia giuridica. Ma i versamenti statali sono in grande ritardo e molti Archivi di Stato non dispongono di spazi sufficienti per riceverli. L’Archivio Centrale dello Stato è il più grande archivio italiano del Novecento, ma anch’esso non riesce a ricevere tutti i documenti che gli dovrebbero essere consegnati.

Le Pubbliche Amministrazioni non statali debbono per legge conservare i propri archivi storici in apposite Sezioni separate. Ma non di rado l’organizzazione della conservazione storica è carente negli 8250 archivi di Enti Locali, tra cui 8094 Comuni, e nei circa 50.000 archivi di Enti pubblici non territoriali.

Molti archivi privati novecenteschi di interesse storico sono conservati presso gli Archivi di Stato, presso quelli degli Enti Locali, presso istituti storici (come quelli per la storia della Resistenza) o presso famiglie e privati. Il ricco patrimonio degli archivi privati personali, familiari, associativi e d’impresa (circa la metà dei 4261 archivi vigilati si presume riguardino anche il Novecento) è a forte rischio di dispersione finché non viene affidato ad un soggetto in grado di assicurare una custodia sicura e professionale.

2. Criticità della conservazione.

All’unitarietà della tutela (affidata ai funzionari degli Archivi di Stato e delle Soprintendenze archivistiche) corrisponde tradizionalmente in Italia il “policentrismo della conservazione”. Tale strategia comporta ombre e luci. La elevatissima quantità dei luoghi di conservazione è un fattore di debolezza del sistema, specialmente alla luce dell’utilizzo dispersivo dei finanziamenti disponibili e delle risorse umane professionali. Viceversa la conservazione quanto più possibile decentrata consente di facilitare la fruizione da parte dei cittadini, assicurando la vicinanza delle fonti alle comunità di riferimento.

Il panorama della conservazione della memoria del secolo scorso in Italia è dunque a tinte fosche sia per la frequente impossibilità degli Archivi di Stato a ricevere nuovi documenti per insufficienza di locali di deposito, sia per le ristrettezze di bilancio degli Enti pubblici e la scarsa cura che non di rado pongono nella corretta conservazione dei loro archivi. Peraltro gli archivi privati affidati ad istituti culturali (per lo più associazioni o fondazioni) soffrono per le traversie dei loro soggetti conservatori, sovente ridotti al lumicino per il venir meno dei tradizionali finanziamenti. Per non parlare di famiglie e singole persone, proprietarie di archivi, alle prese con aggravati problemi economici. Occorrerebbe potenziare le possibilità delle Soprintendenze archivistiche di esercitare una effettiva tutela, orientando la conservazione e la fruibilità verso soluzioni più razionali nonché fornendo sostegno tecnico e risorse ove necessario.

3. Possibili soluzioni.

Per il salvataggio degli archivi del Novecento, pubblici e privati di interesse storico, occorrerebbe in primo luogo completare un censimento preciso della situazione che, partendo dai dati già in possesso degli Archivi di Stato e delle Soprintendenze archivistiche, li integri con verifiche puntuali presso i soggetti produttori. In parallelo occorrerebbe intervenire con urgenza per interrompere i fenomeni di degrado in corso (con pulizie, disinfestazioni, ricoveri di emergenza). Parimenti occorrerebbe iniziare l’attuazione di un piano di medio-lungo periodo che preveda operazioni di selezione e scarto, riordinamento e inventariazione al fine di rendere tali fonti agevolmente consultabili a fini sia giuridico-amministrativi sia culturali, mentre in parallelo si provvede all’ampliamento di sedi esistenti o all’attrezzatura di nuove sedi preferibilmente demaniali. Scarti razionali effettuati sotto la guida dell’Amministrazione archivistica statale (cogliendo l’occasione per aggiornare o redigere i massimari di conservazione e scarto) consentirebbero di risparmiare le risorse dedicate attualmente dalla Pubblica Amministrazione alla conservazione di grandi quantità di carte destinate in realtà alla eliminazione, in tal modo salvaguardando meglio la documentazione di rilevante interesse.

Non potendo essere consultati a distanza, e dato che l’utilizzo è legato al territorio cui si riferiscono, tali archivi debbono essere conservati in modalità diffusa sul territorio nazionale, ma se ne possono razionalizzare le modalità. Infatti anche solo per motivi economici (senza evocare il tema della validità giuridica delle copie), non è ipotizzabile trasferire sul digitale, se non in minima parte, l’enorme quantità di documenti analogici prodotti nel secolo scorso.

Per quanto attiene alle sedi di conservazione, da gestire in modo professionale anche per una adeguata fruizione degli archivi (non quindi come puro magazzinaggio), si può operare su due linee non in contraddizione tra di loro.

Da un lato occorrerebbe perseguire l’obiettivo strategico di mettere ovunque possibile gli Archivi di Stato in condizione di liberarsi degli oneri degli affitti passivi, dotandoli di sedi demaniali attrezzabili con le risorse recuperate e probabilmente giovandosi anche a breve termine – per le opere di adeguamento e allestimento - di investimenti della stessa Agenzia del demanio. Nel breve-medio periodo si potrebbe anche fare ricorso a soluzioni diverse, eventualmente in locazione, per ricevere quei grandi fondi archivistici statali non ancora messi in sicurezza e resi accessibili, e per il salvataggio di altri archivi a rischio, di qualunque provenienza.

D’altro lato occorrerebbe favorire accordi tra Archivi di Stato, Enti pubblici e istituti culturali anche di natura privata (legati a tradizioni di associazionismo, di sindacato, di partito, di lotta di Liberazione o di singole personalità), per la gestione consortile della funzione di conservazione e fruizione degli archivi storici, con particolare ma non esclusivo riferimento agli archivi del Novecento. Tali accordi potrebbero esplicarsi nella formazione di “Poli archivistici” presso gli stessi Archivi di Stato o in altre sedi adatte, secondo strategie a geometria variabile, basate sul migliore possibile utilizzo locale delle risorse edilizie, materiali e umane disponibili. In tali progetti gli Archivi di Stato con la loro esperienza tecnicoscientifica potrebbero giocare ruoli di guida, mentre alle Soprintendenze archivistiche come organi di tutela toccherebbe il ruolo di coordinamento a livello regionale. Gli istituti conferenti, pur condividendo magazzini, riscaldamento, guardiania e altri servizi generali, rimarrebbero autonomi quanto a gestione scientifica e ad attività culturale, in quanto collegati tra di loro per omogeneità ideale in reti di collaborazione come avviene per gli Istituti di storia della Resistenza. Tale soluzione consortile potrebbe non essere auspicabile per taluni istituti di grande tradizione e di adeguate risorse, che potrebbero voler conservare autonomia anche fisica. I diversi sistemi descrittivi dovrebbero essere sviluppati, con l’aiuto del Mibac, verso traguardi di interoperabilità e accessibilità via web.

Non va dimenticata peraltro la semplice e tradizionale soluzione della convenzione di deposito o comodato tra il soggetto produttore e il competente Archivio di Stato. Per l’Archivio Centrale dello Stato occorrerebbe sostenere la razionalizzazione logistica in corso, sviluppare le attività di acquisizione dei fondi ministeriali ultraquarantennali, come di altri grandi archivi a rischio (ad es. Cassa del Mezzogiorno e Agensud sono due recenti preziosi recuperi) e puntare a ottenere migliori servizi al cittadino e risparmi notevoli sul lungo periodo (oggi l’affitto annuale per l’ACS è più di quattro milioni e mezzo di euro) comparando rapidamente inconvenienti e vantaggi rispettivi di varie soluzioni tra le quali: l’acquisizione al demanio della sede tradizionale dell’EUR (da potenziare con depositi adiacenti o a breve distanza, tecnicamente adeguati) e il trasferimento in una unica ampia sede demaniale in Roma dove i cittadini troverebbero concentrati in una sola sede urbana tutti gli archivi storici ministeriali, ed eventualmente anche gli archivi storici di Enti locali e Istituti culturali interessati a consorziarsi. L’obiettivo ambizioso di una grande cittadella degli archivi (comparabile a quelle scelte dai governi tedesco, austriaco, inglese e francese per gli archivi nazionali dei rispettivi paesi) richiederebbe comunque soluzioni intermedie della durata presumibile di vari anni. Fondamentale sarebbe ottenere fin d’ora dal Ministero dell’economia e delle finanze il riutilizzo dei risparmi ottenuti via via con razionalizzazioni delle situazioni esistenti, evidenziando il duplice interesse di disporre di strutture e spazi idonei di conservazione: risparmiare ed eventualmente offrire servizi competitivi di conservazione a pagamento.

Potrebbe essere oggetto di incentivazione anche una diversa forma di sinergia di risorse culturali e di razionalizzazione della spesa: quella che in determinate realtà locali punti a concentrare in una sede unica i patrimoni archivistici, bibliografici e museali. Fermo restando il rispetto dei diversi specifici criteri sia di tutela, sia di gestione e fruizione dei rispettivi beni mediante l’impiego delle necessarie professionalità, la sede unica potrebbe essere idonea a fornire in modo più efficace, e meno oneroso, servizi culturali integrati alla comunità di riferimento.

Da ultimo si segnala che se la questione delle sedi è essenziale per garantire la salvaguardia del patrimonio archivistico, non meno essenziale è l’impegno professionale che possono mettere in campo gli archivisti liberi professionisti e quelli strutturati, nel quadro di progetti di lungo periodo coordinati dagli uffici di tutela.

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