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Una lezione di Ansano Giannarelli
Martedì, 27 Agosto 2013

Una lezione di Ansano Giannarelli

Ansano Giannarelli
Sezione Formazione

Proponiamo il testo di una importante lezione di Ansano Giannarelli, da lui tenuta in diverse occasioni nel corso degli ultimi anni, sul linguaggio filmico e sulle fasi di realizzazione di un film, nella ricorrenza della sua morte, nell'agosto 2011. La conoscenza di queste riflessioni è fondamentale per la messa a punto di un corretto trattamento della documentazione legata al processo produttivo di un film.

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1.      Premessa metodologica 

                  Intendo iniziare con una premessa metodologica. 

Nel “Piano per la promozione della didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo nella scuola” il mio intervento dovrebbe essere quello indicato come “Seconda unità didattica”, con un contenuto indicato con un titolo: “Montaggio e interpretazione della realtà” (di cui sono date alcune indicazioni, sulle quali tornerò alla fine della mia relazione). 

Questo enunciato contiene un “punto di vista”. E’ probabile che sia un “punto di vista” maggioritario nelle posizioni culturali su quel fenomeno che va in genere sotto il nome di “cinema”, ma che qualcuno definisce con il termine “audiovisivo” o come “registrazione di immagini dinamiche”.

Ma anche se è maggioritario, questo “punto di vista” non è l’unico. Francamente, per quanto mi riguarda, faccio un po’ di fatica non solo ad accettarlo senza discuterlo,  ma soprattutto a costruire un mio intervento sul tema indicato - Montaggio e interpretazione della realtà – senza qualche chiarimento preliminare.

La mia è sicuramente una posizione “minoritaria”: ma è una prova – ce ne sono tante altre, per la verità – di come la produzione di immagini in movimento sia un terreno di confronto di posizioni culturali e ideologiche (e spero che non ci si scandalizzi per questo termine): e confronto vuol dire anche conflitto, concezioni diverse, differenti “punti di vista”. Malgrado le apparenze, proprio per l’importanza crescente di questo fenomeno nell’economia, nella cultura, nella politica mondiale, il tentativo di imporre un “pensiero unico” che interpreti e governi in modo totalitario l’ambito audiovisivo nel suo complesso non riesce a imporsi, e probabilmente non può farlo, per il groviglio di contraddizioni che si manifesta e agisce proprio in base alla dialettica messa in moto dai processi di globalizzazione. E quindi il mio “punto di vista” può essere il contributo a una riflessione ed elaborazione che metta appunto a confronto i diversi punti di vista che sono stati o saranno esposti in queste “lezioni”. 

2.      A proposito di definizioni.  

Comincio chiarendo il significato che io attribuisco a una parola che userò spesso, ma che senza questo chiarimento iniziale rischia di provocare equivoci nella comunicazione tra di noi.

La parola  è film, per il cui significato io mi rifaccio alla definizione che ne dà nel suo statuto la Fiaf (Fédération Internationale des Archives du Film):

 “una qualsiasi registrazione di immagini in movimento (animate), con o senza accompagnamento sonoro, qualunque ne sia il supporto: pellicola cinematografica, videocassetta, videodisco od ogni altro processo conosciuto o da inventare”.

Credo siano immediatamente evidenti le implicazioni. 

Sotto il profilo tecnologico, è film una registrazione di immagini in movimento effettuata con attrezzature diverse (cinecamera, videocamera) su supporti diversi (pellicola cinematografica, videonastro analogico o digitale, videodisco, ecc.). 

Sotto il profilo quantitativo, è film una registrazione di immagini in movimento di qualsiasi durata (o lunghezza[1]); quindi non è film soltanto il “lungometraggio” prodotto per la sala cinematografica, ma anche il “cortometraggio”, lo “short” o lo “spot” pubblicitario, la serie di “telenovelas”. 

Sotto il profilo dei “generi”, è film una registrazione di immagini in movimento con caratteri di ricostruzione fantastica (fiction) così come quella con caratteri cosiddetti “documentari”[2]. 

La definizione proposta dalla Fiaf della parola film non significa naturalmente che non esistano differenze tra le diverse tipologie di film; ma implica anche che non esiste tra le diverse forme di un film una”priorità” d’importanza, una “gerarchia” di valori.

Malgrado la provenienza della definizione di film sopra citata, cioè da parte della più importante e autorevole organizzazione internazionale degli archivi di immagini in movimento, non credo che essa costituisca un “punto di vista” egemonico, anzi; e soprattutto le implicazioni che ne derivano sono sostanzialmente minoritarie nella loro eterodossia. 

3.      Il processo produttivo 

In qualsiasi attività umana si può individuare un “processo produttivo”: anche in quella culturale e artistica. Sotto questo profilo quindi la realizzazione di un film non presenta caratteri totalmente nuovi. Ma certamente nel suo processo produttivo c’è un elemento caratterizzante: senza l’uso di attrezzature tecniche e di materie prime, il processo stesso è impossibile, e non è possibile effettuare registrazioni di immagini in movimento, così come non è possibile “vederle”, esercitare cioè quel senso o quei due sensi (vista e udito) che ne consentono la percezione. 

Il processo produttivo audiovisivo ha una sua complessità della quale è bene avere consapevolezza, anche perché esso in genere ha un carattere di lavoro collettivo, con la compresenza di competenze e mansioni diverse, la maggior parte delle quali ha una partecipazione linitata ad alcune delle fasi, mentre di solito due figure professionali seguono il processo dall’inizio alla fine, e sono quelle definite con i nomi di regista e produttore.

Naturalmente quella che segue è una sintesi molto schematica del processo produttivo standard, che conviene suddividere per fasi:

             a.      la prima fase può essere definita come progettazione, e comprende la progettazione creativa[3] e quella produttiva[4];

            b.      la seconda fase consiste nelle riprese (o registrazione delle immagini e dei suoni), precedute da un periodo di preparazione[5], che è di grande importanza sotto il profilo organizzativo del processo di lavoro;

             c.      la terza fase consiste nel montaggio/edizione

             d.      la quarta fase è quella della diffusione[6]. 

Della fase di montaggio/edizione tratterò con qualche approfondimento più avanti.

Un’ultima annotazione: si tenga conto che il processo di produzione in molti casi si interrompe nella fase di progettazione, perché quella produttiva non ha determinato le condizioni per il proseguimento dell’iniziativa. 

Se invece il processo si conclude, alla fine del montaggio/edizione esiste un oggetto che non può che definirsi come prodotto; ha incorporato lavoro e capitale, ha trasformato materia prima, è nato sulla base del ricorso a leggi che governano il mondo fisico (ottica, meccanica, chimica, elettronica, ecc.)

Certo, è un prodotto con sue caratteristiche particolari, perché la sua essenza è immateriale, dal momento che le immagini che contiene comunicano idee, emozioni, concetti, valori, ideologia.

Certo, alcuni di quei prodotti possono attingere la sfera dell’arte, e allora si addice loro il termine più appropriato e più aristocratico di “opera”: ma sempre di “prodotti” si tratta, prima di tutto: anche perché l’attribuzione di “opera” (si badi: sottintendendo “d’arte”) si sa bene quanto sia soggettiva, e quanti errori a questo proposito siano stati compiuti, e quante revisioni siano avvenute.

Così, un prodotto o un documento filmico non sono sempre anche opere d’arte, anzi lo sono assai di rado, mentre un film-“opera d’arte” è sempre anche un “prodotto”, un “documento”.

Anche questa è una posizione che si ritrova esplicitamente nello statuto della Fiaf, che tra i propri obiettivi indica quello di “...promuovere la raccolta e la conservazione delle pellicole, in quanto opere d'arte e/o documenti storici”.

La considerazione di un film come prodotto o come documento o come opera è fonte di “punti di vista” in molti casi fortemente differenziati e contrastanti, e quindi di conflitti, di costruzione di gerarchie e di scale di valori. . Nella cultura italiana, per esempio, è ancora molto diffusa la posizione di chi contrappone una superiorità del “cinema” rispetto alla “televisione”.

A me sembra che ci sia un elemento che è alla base della legittimità per la quale si considera un film, tutti i film, innanzi tutto come prodotti: ed è il loro valore economico, che rende così importante la proprietà di un film, regolata da un sistema mondiale individuato sinteticamente con il termine di copyright. La proprietà di un film tende a suddividersi in economica e intellettuale: e da questo scaturisce una problematica estremamente complessa, che probabilmente sarà al centro di grandi discussioni e conflitti nei prossimi decenni, con il valore crescente della produzione culturale e intellettuale. 

4.      Tecnologia e linguaggio  

Si usa di solito l’espressione “linguaggio filmico”. Si conviene quindi ormai che le immagini in movimento (eventualmente accompagnate da suoni) costituiscono un sistema di segni  che si configurano appunto come linguaggio.

Questo linguaggio ha una caratteristica peculiare: per manifestarsi, cioè per essere costruito e per essere comunicato, perciò nelle sue fasi produttive fondamentali, esige l’uso di tecnologie. Le tecnologie sono necessarie per realizzare il linguaggio e per fruire del linguaggio.

Con la “scoperta” della fotografia animata nasce quindi una nuova tipologia linguistica che inerisce a una serie di processi (informativo, comunicativo, estetico), e che si presenta come un’innovazione radicale: non “superiore” ad altri linguaggi o ad altre forme comunicative, ma profondamente diversa. Questa diversità non è compresa subito, la cultura tradizionale e accademica non ritiene di doversene occupare per molto tempo, ancora oggi è largamente diffusa una sua sottovalutazione; c’è un pensatore tedesco, Walter Benjamin, che negli anni Trenta intuisce come ci si trovi di fronte a qualcosa che introduce una nuova dimensione nel tradizionale impianto dell’estetica, e che analizza questa novità in un saggio importantissimo del 1936 (ma anch’esso più citato che apprezzato e condiviso), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Il titolo contiene il riferimento al fondamento tecnologico dell’”opera audiovisiva”.

Una peculiarità del linguaggio filmico – che scaturisce dalla sua genesi tecnologica – è di assegnare alle coordinate spazio-tempo valori propri, nuovi, inesistenti al di fuori di esso.

L’unità linguistica minima nel linguaggio filmico è l’”inquadratura”, cioè la successione di singole immagini fotografiche registrate senza interruzioni da un momento iniziale a uno finale (da quando si “accende” la macchina per registrare a quando si “spenge”). Il singolo fotogramma è linguisticamente insignificante, perché non costituisce un’immagine dinamica, per la quale sono necessari almeno due fotogrammi (anche se per la percezione normalmente consapevole di un’immagine dinamica da parte del sistema occhio-cervello è di solito necessario un numero di fotogrammi superiore[7]).

L’inquadratura ha una sua specifica connotazione spaziale: in essa infatti si può registrare una porzione di spazio le cui dimensioni sono determinate dall’uso di obiettivi di lunghezza focale diversa: un’ulteriore dimostrazione di un linguaggio che nasce da strumenti tecnici (questo è un carattere che possiede anche l’immagine fotografica fissa).

Le diverse tipologie di spazio rappresentato nell’inquadratura hanno una sostanziale valenza espressiva e comunicativa; convenzionalmente, esse sono definite come campi o come piani[8].

Anche la connotazione temporale di un’inquadratura – che di solito è la riproduzione del tempo “reale” (ottenuta con la scomposizione dell’unità “minuto secondo” in 24/25 fotogrammi) – può essere modificata variando la velocità dell’apparecchio di registrazione: si ottengono così i segni linguistici del rallentamento o dell’accelerazione (procedimenti prima di tutto tecnici, che consentono la visione di fenomeni invisibili all’occhio umano: a parte l’uso espressivo di tali segni).

Un altro carattere linguistico dell’inquadratura è la sua “fissità” o il suo “movimento”[9]. quest’ultimo è in genere il risultato dell’uso di attrezzature particolari, anche se lo stesso corpo umano in movimento può essere usato a questo fine (la cosiddetta "camera a mano”).  

5.      Montaggio e interpretazione della realtà  

      Eccoci allora al tema individuato a priori.

      Nel senso comune, il processo produttivo di un film si concentra nel momento delle “riprese”, cioè della registrazione delle immagini in movimento: i “media” ne parlano, nei film fiction c’è la presenza dei “divi” che fanno sempre notizia, nei film documentari, soprattutto quelli a carattere naturalistico, è sempre avvincente il racconto dei modi di ripresa. E d’altra parte è la fase dove si concentrano risorse, dove i costi sono sempre alti per la presenza contemporanea di molte professionalità, per le necessità scenografiche, ecc. Quindi la supervalutazione e il “fascino” di questa fase hanno motivi diversi.

      C’è però anche chi tende a ridimensionarne l’eccesso di importanza. K.Kieslowski definisce la fase di ripresa come “raccolta di materiali”; e dal luogo dove avviene il montaggio, O.Welles avverte:

“Questa è una moviola, la macchina per montare i film. Badate, però, quando diciamo che stiamo curando l’edizione e il montaggio di un film, in realtà non diciamo abbastanza. I film non si realizzano solo sul set: gran parte del lavoro avviene proprio qui, per cui una moviola come questa è importante quasi quanto una cinepresa. Qui i film vengono salvati, sottratti talvolta al disastro oppure massacrati”.[10]

      In una descrizione schematica, il montaggio, insieme all’edizione, si suddivide nel processo produttivo in sottofasi[11]; esso  si configura fisicamente come un’operazione ripetuta di “unione” (“giustapposizione”) di due inquadrature una successiva all’altra: nel supporto pellicola, l’”unione” è il risultato di un vero e proprio incollaggio di due inquadrature “tagliate”; mentre nel supporto videomagnetico essa si realizza tramite trasferimento, analogico o digitale, di due inquadrature successive.

      Questo procedimento determina quindi la successione concreta di unità spazio-temporali autonome, costituite dalle inquadrature. Due inquadrature configurano perciò una sequenza, che però può generare un nuovo significato, svincolato dalla naturalità logica della realtà percepibile dai sensi umani. La successione di due inquadrature – per esempio quella di un treno che viaggia attraversando il campo visivo da sinistra a destra, che precede quella di un treno che attraversa il campo visivo da destra a sinistra - produce in chi guarda l’attesa di uno scontro tra i due treni, cioè la percezione di un contenuto che non è presente in ciascuna delle due inquadrature, ma è il risultato esclusivo della loro successione. In questa sequenza il risultato è addirittura un tempo “futuro” rispetto a quello rappresentato singolarmente.

      Sono noti gli esperimenti su questo carattere creativo del montaggio, effettuati soprattutto dai cineasti sovietici negli anni ’20, tra cui quello famoso realizzato da L.Kulešov con il primo piano di un attore allora molto popolare “montato” con tre situazioni diverse (un piatto di minestra, una bara con una donna morta, una bambina che gioca): gli spettatori cui furono mostrate le tre situazioni apprezzarono l'espressività dell'attore, che manifestava sul volto, a seconda dei casi, il senso della fame, del dolore, dell'amore paterno): e invece il primo piano era sempre lo stesso, utilizzato tre volte in contesti di montaggio diversi!

      Fu soprattutto in quel periodo che emerse la concezione di una centralità del montaggio come specifico filmico: una concezione che poi fu naturalmente discussa, contestata, rivista, trasformata, nella dialettica delle “teoriche del film”, e sulla quale ancora oggi ci sono posizioni opposte.

      Io continuo a essere convinto dell’importanza decisiva del montaggio nella costruzione del linguaggio filmico. E proprio per questo “reagisco” alla specificazione del titolo previsto per il mio intervento[12], in essa sono infatti ripetute parole che esprimono concetti e concezioni sui quali non concordo, soprattutto se in parte sono alla base di elaborazioni teoriche. Mi riferisco, per esempio, al termine di “manipolazione”, che implica una sostanziale negatività la quale investe tutta la pratica del montaggio (vedi il riferimento a film del tutto diversi tra loro), e che sembra basarsi sulla presunzione di una “obiettività” a mio parere impossibile nella comunicazione audiovisiva (e non solo). Io scelgo e propongo intenzionalmente un’altra parola, ”interpretazione”, che si oppone a “manipolazione”, o un’espressione come “punto di vista”: punto di vista che si manifesta sempre, in qualsiasi fase del processo produttivo filmico, e soprattutto nelle due fasi decisive della “ripresa” (o “raccolta di materiali”) e del montaggio. Se invece si affronta il problema dall’ottica della “manipolazione”, vuol dire che si concepisce per la dialettica dei contrari una possibilità di “non manipolare”, che a me, ripeto, sembra inesistente (e che tra l’altro sarebbe manicheisticamente il “bene” contrapposto al “male”). E quindi, nell’accettazione o nel rifiuto della categoria “manipolazione” può manifestarsi una prima sostanziale divergenza.

      Ci sono viceversa “assenze” concettuali – nell’assunto riportato in nota – che manifestano anch’esse una posizione. Non vi ritrovo nulla che si riferisca alla differenza esistente tra “montaggio visibile” e “montaggio invisibile”, che è alla base di una radicale diversità di concezione del cinema: un montaggio visibile per lo spettatore tende a renderlo cosciente del linguaggio, un montaggio invisibile tende a catturarlo in un flusso onirico di immagini. Non c’è alcun segno di analisi per gli elementi costitutivi del montaggio, il “taglio” o la “dissolvenza”[13]; e di come il “taglio” tra due inquadrature tende a esprimere contrasto, conflitto, dialettica, appunto un’unità concettuale nuova; mentre la “dissolvenza”, perdendo via via, com’è accaduto, la sua connotazione di segno che esprimeva un passaggio di tempo e di spazio”, è diventato “ammorbidimento”, rimozione dello scontro. Non trovo indicazioni sul fatto che l’uso in ripresa di campi e piani “naturalistici” (corrispondenti cioè alla visione fisica dell’occhio umano) si risolva poi in un montaggio che tende alla “riproduzione” della realtà, non alla sua “interpretazione” (soggettiva, tendenziosa). Non c’è un accenno al fatto che il montaggio implica rapporti tra immagini, rapporti tra suoni, rapporti tra immagini e suoni: e come il montaggio del suono, per la possibilità dei “mescolamenti”, delle sovrapposizioni, delle alternanze tra voci, musiche, rumori sia un settore ancora da esplorare in molte delle sue possibilità espressive (dopo la sconfitta storica dell’asincronismo...[14]).

      C’è un esempio significativo di una scelta di montaggio opposta a quella della “giustapposizione” delle immagini. I possibili “movimenti” (come quelli riassunti più sopra nella nota 9) all’interno di un’inquadratura possono comportare profonde modifiche spaziali nell’immagine; si determina così una sorta di “montaggio interno” nell’inquadratura, che a partire da un certo momento è stato indicato con l’espressione  (per la verità non particolarmente precisa) di “piano-sequenza”[15], Il risultato è in genere una sequenzialità di tipo teatrale, in cui tempo e spazio mantengono inevitabilmente il loro carattere “naturalistico”, per l’impossibilità di un trattamento che assegni loro nuovi caratteri: si pensi alla modalità in cui è costretto a svilupparsi un dialogo tra due personaggi, che non è possibile filmare ricorrendo alla successione campo/controcampo.

      Naturalmente, nemmeno il montaggio dev’essere mitizzato.

      Il concetto di sequenzialità è proprio del linguaggio filmico, e in esso si manifesta con caratteri peculiari, costruendo una nuova realtà virtuale, un nuovo tempo-spazio che può avere un grande valore espressivo e comunicativo, anche se viceversa il fruitore/spettatore è obbligato ad accettarlo in modo sostanzialmente passivo. Oggi, la tecnologia consente una dinamica interattiva per la quale il fruitore può costruire, con il film di fronte al quale si trova, un’altra sequenzialità, frutto della sua interpretazione soggettiva: ma si tratta sempre di sequenzialità, anche se magari del tutto diversa).

      Con la multimedialità ipertestuale - dove siano prevalenti le immagini dinamiche e i suoni - la sequenzialità perde il suo carattere esclusivo e vincolante, e nasce una nuova modalità finora espressa con il termine di “navigazione”, tutta ancora da sperimentare, ma di cui si possono intuire le implicazioni e le conseguenze: prima tra tutte l’accentuazione della soggettività nella fruizione dei prodotti culturali e in una nuova produzione partendo da esse. Così oggi il cinema si trova a far parte di un universo particolarmente complesso, con una serie di inter-relazioni con altri linguaggi e con altre tecnologie (alcune profondamente innovative, come la “digitalizzazione” o “numerazione”): e la stessa concezione del montaggio subirà una contaminazione positiva, se si riuscirà a mantenere uno spazio alla ricerca e alla sperimentazione, senza irrigidimenti di tipo accademico e conservatore. 

      Queste sono alcune considerazioni che mi inducono a preferire una visione problematica del montaggio, svincolato da codificazioni accademiche e statiche. E i tratti del quadro che ho accennato mi portano rievocare una osservazione di Ejzenstejn in occasione del primo cinquantenario del cinema:

“Il cinema ha cinquant’anni. Gli si apre davanti un mondo immenso e complesso di possibilità, che l’umanità deve padroneggiare così come deve padroneggiare l’aspetto benefico delle scoperte della nuova fisica atomica. Quando poco ha fatto fino a oggi la ricerca estetica di tutto il mondo per padroneggiare i mezzi e le possibilità del cinema! Non soltanto per mancanza di capacità e di slancio. Più gravi sono il conservatorismo, l’inerzia, l’<evasione> di fronte ai problemi senza precedenti che ci pone il susseguirsi delle nuove tappe di sviluppo della cinematografia. Nel primo mezzo secolo non è stata utilizzata che una minuscola parte delle sue inesauribili risorse. Non vorrei essere frainteso. Non si tratta di quanto è stato fatto. Si tratta di quanto poteva essere fatto, e fatto dal cinema soltanto. Di quello  specifico e irripetibile che solo coi mezzi del cinema può essere creato e realizzato”[16].

      Ma c’è anche un altro riferimento con il quale mi piace terminare, per indicare quanto s’è ampliato il contesto nel quale ci troviamo a convivere. E’ una dichiarazione “eversiva” di un grande personaggio del cinema e della cultura, che forse è anche il maggior “teorico” italiano del film:

            “Allora che cosa c’è alla fine dell’arco? c’è il cinema oggi, il cinema oggi per me non è più il cinema, per me è i mezzi di comunicazione, per cui cinema e televisione, cinema e radio, cinema e televisioni private, cinema e un’editoria tutta diversa da quella che ci può essere, e avanti di questo passo, questo ha un’importanza enorme per me. E questo dico che è andato...di pari passo con il mio quasi distacco dal cinema, con il mio maggior attaccamento a una coscienza dei mezzi di comunicazione diciamo così privilegiati, ma tutti alla pari, quindi del problema della comunicazione e del problema dell’informazione...”[17].

            Sono conclusioni teorico-pratiche di una vita, quella di Cesare Zavattini: che a ottant’anni “esordiva” come autore totale (soggettista, sceneggiatore, regista, attore, musicista, contatore) di un film tutto all’insegna della sperimentazione, La veritàaaa. 


[1] Quando esisteva soltanto il supporto pellicola, era dominante l’usanza di indicare le dimensioni di un film con misure metriche. Da quando è apparso il supporto videonastro, si è adottato il sistema di riferimento temporale per indicare le dimensioni di un film: e quindi la sua durata. 

[2] Nel senso comune dominante, si usa il termine “film” per i lungometraggi di finzione della durata di un’ora e trenta minuti , che le necessità della diffusione commerciale nelle sale cinematografiche hanno imposto come misura pressoché standard; e si usa il termine “documentari” (come sostantivo, e non come aggettivo: non si dice quasi mai “film documentario”).  

[3] Nella progettazione creativa si possono distinguere sottofasi come l’ideazione, il soggetto, le ricerche, il trattamento, la sceneggiatura (quest’ultima da considerare come previsione e pre-visione del film). . Questa successione si presenta di solito nella produzione a carattere fiction, mentre- nella produzione non fiction, in particolare di tipo documentaristico-inchiesta, la previsione si configura in sostanza come una scaletta molto sviluppata.  

[4] La progettazione produttiva comprende il piano di lavoro (con fabbisogni tecnici e umani), il preventivo dei costi, il piano finanziario, la definizione delle risorse (individuazione delle fonti di finanziamento e relativi accordi, e degli apporti co-produttivi in risorse umane e tecnologie e relativi accordi; conclusione di accordi di pre-vendita, di distribuzione, ecc.). 

[5] Appartengono alla preparazione la composizione della troupe e relativi accordi, la scelta degli attori (fiction), i provini e relativi accordi, l’individuazione degli interpreti non fiction, la individuazione del/dei set e relativi accordi (teatri, dal vero, ecc.), la definizione delle attrezzature tecniche (con accordi di noleggio e prove), l’acquisizione dei supporti (pellicola e/o videonastri). 

[6] Approntamento delle copie secondo standard e formati diversi per i diversi mercati di distribuzione (sala cinematografica, emissione tv, videocassetta o videodisco per l’home video, ecc.), iniziative pubblicitarie e promozionali, ecc.  

[7] Si ricordi la cosiddetta “immagine subliminale”, cioè non percepibile in modo cosciente in un flusso di immagini dinamiche. Essa è appunto composta da un unico fotogramma.  

[8] Connotazioni spaziali delle immagini (attenzione al carattere approssimativo di queste indicazioni, come di altre diffuse nella bibliografia sul cinema):  

piani (relativi alla figura umana)

PPP = PRIMISSIMO PIANO               la testa

PP = PRIMO PIANO                        dalle spalle alla sommità della testa

MF = MEZZA FIGURA                      dalla cintola alla sommità della testa

PA = PIANO AMERICANO                dal ginocchio alla sommità della testa

FI = FIGURA INTERA                      dai piedi alla sommità della testa

DETTAGLIO o PARTICOLARE           parte circoscritta e non completa di un oggetto o di un corpo

 campi (relativi allo spazio: eventualmente contenente figura/e umana/e  od oggetto/i): 

CT = CAMPO TOTALE                     uno spazio delimitato interamente visibile

CM = CAMPO MEDIO                       uno spazio delimitato visibile parzialmente

CL = CAMPO LUNGO                       un ampio  spazio non delimitato

CLL = CAMPO LUNGHISSIMO            un amplissimo spazio non delimitato  

[9] Connotazioni di possibili movimenti presenti nelle inquadrature:   

PANORAMICA                               movimenti orizzontali o verticali o combinati dell’apparecchio di                                                                 registrazione in posizione fissa

CARRELLATA                                movimenti in avanti o indietro o laterali dell’apparecchio di                                                                       registrazione 

ZOOMATA                                   movimenti in avanti o indietro ottenuti cambiando le distanze focali                                                           dell’obiettivo dell’apparecchio di registrazione in posizione fissa

GRU                                            movimenti verso l’alto o verso il basso (combinabili con                                                                           la “panoramica” e la “carrellata”) dell’apparecchio di registrazione. 

[10] Purtroppo, per ragioni di tempo, non sono riuscito a rintracciare la fonte esatta di queste due citazioni, avendo perso l’appunto su carta in cui avevo annotato i dati. Per quanto riguarda O.Welles, comunque, mi fa piacere segnalare una bellissima tesi di una studentessa del Dams di Bologna, Daniela Mustica, Verita' e menzogne del montaggio in F for fake di Orson Welles, un’analisi molto approfondita proprio del montaggio come momento creativo fondamentale; la tesi è consultabile presso la biblioteca dell’”Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico”.  

[11] Le sottofasi del montaggio possono essere così identificate:  

¨ catalogazione del materiale

¨ montaggio off-line: è il classico montaggio di tradizione cinematografica [una volta effettuato con la moviola, oggi realizzato con attrezzature videoinformatiche che possono essere di basso costo o invece tecnologicamente avanzate (come l’AVID)]: è il montaggio creativo ed espressivo delle immagini e del suono di presa diretta, con previsione della sonorizzazione finale (edizione) e dei titoli, della videografica, degli effetti speciali, ecc.  

¨ montaggio on line : operazione tecnica, che avviene in modi diversi a seconda delle tecnologie usate;

a. nella tecnologia “pellicola” consiste nel trasferire sulla pellicola negativa girata i tagli effettuati nella copia lavoro, in modo da approntare un “master negativo montato”, dal quale stampare – accoppiato con il sonoro mixato – il film finito da proiettare;

b.nella tecnologia “video”, riproduce il montaggio off-line agendo sui materiali originali di ripresa di alta qualità, in modo da avere un “master videomagnetico montato” per stampare le copie.  

Susseguente al montaggio è l’”edizione” (che, nell’approssimativo linguaggio in uso nella produzione video, è definita post-produzione, la quale ingloba però anche il montaggio), che consiste in:  

¨       preparazione dei sonori aggiuntivi (oltre la presa diretta: dialoghi o commenti fuori campo – rumori - musica; 

¨       mixage: mescolamento dell’originale di presa diretta con i sonori aggiuntivi, in modo da avere una sola “banda” o “colonna” sonora contenente i diversi sonori [nel mixage è bene preparare anche la “colonna internazionale”, che è composta da rumori/musica ed eventuale presa diretta, ed è utilizzata per eventuali edizioni in lingua straniera];  

¨       approntamento e inserimento di titoli testa/coda ed eventuali didascalie o sottotitoli, ecc.; 

¨       realizzazione e inserimento di operazioni di videografica;  

¨       realizzazione e inserimento di “effetti speciali”. 

[12] “Le teorie baziniane sul montaggio; il montaggio come reinterpretazione della realtà; la manipolazione intesa in senso negativo o positivo; montaggio audiovisivo e livelli di realtà; il montaggio come manipolazione del reale e del verosimile, la manipolazioni delle “fonti” audiovisive, la “manipolazione digitale”; la realtà virtuale. Le immagini mentali nella percezione e nel pensiero; intelligenza sequenziale e intelligenza simultanea; il montaggio come costruzione di senso. - Esempi e casi di studio: le grandi opere di “manipolazione”, da Ruttmann, a Riefensthal, da Kulesov a Coppola; i cinegiornali Luce, i film staliniani, Why We Fight di Capra; Vygotskij e Ejzenštejn”.

[13] Tanto meno per altri caratteri linguistici che appartengono alla storia del cinema come il fondù (o dissolvenza in apertura e chiusura) e la sovrimpressione. 

[14] Mi riferisco alle posizioni critiche espresse da cineasti come Ejzenstejn, Pudovkin, Chaplin quando si manifestò la prospettiva di un uso industriale-commerciale del sonoro, o meglio del “parlato”, che avrebbe condizionato lo sviluppo di un’autonoma ricerca filmica, creando un dominio della “letterarizzazione” e della “teatralizzazione” del cinema. 

[15] Uno degli esempi più noti di film costruiti con lunghissime inquadrature molto ricche di movimenti interni è Nodo alla gola (Rope, 1948, di A.Hitchcock): è composto da 8 inquadrature della durata ciascuna di 10’ (limite massimo di durata consentito dalla tecnologia per le bobine di pellicola 35 mm). Hitchcook usò un particolare accorgimento di ripresa alla fine e all’inizio di ogni rullo, per dare la sensazione che si trattasse di un’unica inquadratura di 77’ (durata del film).   

[16]  S.M.Ejzenstejn, 1946, a pag. XII di  Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, 1964, a cura di P.Gobetti. 

[17] Da G.Gambetti, Zavattini mago e tecnico, Ente dello Spettacolo editore, Roma, 1986, pp. 338-341. 

 
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